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NeXT Hyper ObscureArchivio per ottobre 22, 2019
Stacho Quzbic. Il viaggiatore – di Marco Milani
Per la Watson Edizioni è appena uscito il nuovo romanzo di Marco Milani, Stacho Quzbic. Il viaggiatore. Finalista al Premio Urania 2017, il romanzo esplora con la brillante verve propia dell’autore lo spaziotempo del passato correlato al futuro. La quarta:
L’avventura inizia ad Aquileia, 1643 d.C., si allunga con diversi/stessi protagonisti avanti e indietro in futuri recenti e lontani, si sposta su altri mondi e fino al limitare dell’universo, con l’Intraverso a fare da raccordo negli spostamenti. Stacho Quzbic è un viaggiatore tempo-spazio, al suo primo incarico e quindi con una missione facile da compiere. Scopre quasi subito che nulla è come sembra: la missione facile è in realtà un complesso piano a più livelli organizzato da lui stesso per fare in modo che Stacho Quzbic diventi lo Stacho consumato VTS e spina nel fianco ai detrattori di mezzo universo conosciuto. Qualcuno ha intenzione di impedirlo, con ogni mezzo, dispiegando infide trappole e agguati lungo il tempo-spazio. La parola d’ordine diventa combattere e sopravvivere.
FONTANA, Future gardens, rebirth of life | Neural
[Letto su Neural]
Le teorie sulla nascita delle specie viventi sono molteplici e forse anche vere, o vere solo in parte. Nonostante le discrepanze, le incertezze e gli ovvi sviluppi, la convinzione di partenza è un concetto semplice, quasi banale, sicuramente evocativo: la nascita della vita è avvenuta in acqua. Lo abbiamo letto talmente tante volte che è facilissimo immaginare questi microrganismi – nessuno di noi li ha mai visti – svilupparsi nelle calde acque dell’oceano primitivo e dare vita a composti organici sempre più complessi. Un balzo di qualche miliardo di anni sulla linea temporale del pianeta Terra ed eccoci qui, continuiamo a nascere immersi in un liquido ma quell’oceano primitivo adesso non c’è più. Il mondo si è trasformato così tante volte da cambiare completamente volto, insieme ai suoi abitanti. Abitanti un po’ ingrati, se ci guardiamo allo specchio. Ci siamo espansi, evoluti, abbiamo costruito, distrutto e…inquinato, inquinato molto. Abbiamo inquinato anche mentre pulivamo. Detergenti, saponi, elementi chimici dannosi o comunque non compatibili con l’ambiente. Il percorso sembra senza ritorno, ma non è così, perché la scienza ci da sempre una soluzione migliorativa. E quando la scienza sembra troppo distante, l’arte può fare la differenza. Lo ha capito Tanja Vujinovic che ha costruito un ecosistema, MetaGarden, un giardino futuristico, dove l’armonia e le tecnologie convivono, cercando insieme nuove soluzioni. Partendo da un elemento molto diffuso sin dalla cultura del Mondo Antico, l’artista serba/slovena, grazie all’aiuto di vari tecnici specializzati, ha realizzato FONTANA, un dispositivo piezoelettrico che, immerso in acqua, vibra producendo un suono non udibile all’orecchio umano e deformando la struttura dell’acqua disperdendola così nell’aria in una nebbia fatta da migliaia e migliaia di goccioline grandi circa un micron. FONTANA non è solo un esperimento artistico all’interno di un più ampio progetto di ricerca, ma un vero e proprio strumento per il trattamento delle acque con il plasma, un gas ionizzato in grado di distruggere microbi dannosi e che potrebbe implementare la tecnologia futura per la pulizia delle acque dalle tracce residue di contaminanti chimici creati dall’uomo.
Ciò che conta per una macchina | L’INDISCRETO
Su L’Indiscreto una discreta disquisizione sulle frontiere attuali dell’intelligenza artificiale, dove ci si domanda se la potenza di calcolo è tutto oppure se ci sono altri parametri – tipo la capacità d’imparare – che possano fare, nel futuro, la differenza con l’attuale stato dell’arte. Un estratto:
“D’accordo”, disse Deep Thought. “La Risposta alla Domanda fondamentale…” “Sì…?” “Sulla Vita, l’Universo e Tutto Quanto…”, disse Deep Thought. “Sì…?” “È…”, disse Deep Thought, e fece una pausa. “Sì…?” “È…”. “Sì…???” “Quarantadue,” disse Deep Thought, con infinita calma e solennità. […] “Quarantadue!”, urlò Loonquawl. “È tutto quello che hai da dirci dopo sette milioni e mezzo di anni di lavoro?” “Ho controllato con grande minuziosità”, disse il Computer, “e questa è la risposta veramente definitiva. Credo che, se devo essere franco, il problema stia nel fatto che voi non avete mai realmente saputo quale fosse la domanda”.
Come nelle migliori battute, si cela qualcosa di profondo in questo scambio tra il computer più veloce dell’universo e i suoi creatori, nel libro di Douglas Adams Guida galattica per autostoppisti. Siamo perennemente alla ricerca di risposte senza però peritarci di comprendere davvero le domande, o se siano quelle giuste. Nelle mie conferenze sulla relazione uomo-macchina cito spesso Pablo Picasso, il quale durante un’intervista disse: “I computer sono inutili. Sanno dare soltanto risposte”. Una risposta implica una fine, un punto, e per Picasso non c’era mai una fine, solo nuove domande da scandagliare. I computer sono ottimi strumenti per generare delle risposte, ma non sanno come porgere le domande, almeno non nel senso in cui le fanno gli esseri umani.
Nel 2014 mi fu sollevata un’interessante osservazione allorché feci quest’affermazione. Nemmeno i più forti programmi scacchistici del mondo sono in grado di spiegare la logica delle loro mosse brillanti, a parte le elementari sequenze tecniche. Giocano una mossa forte semplicemente perché hanno valutato che sia la migliore, non perché usano quel tipo di ragionamento applicato che è comprensibile da un essere umano. Ovviamente, è utilissimo avere una macchina molto forte contro cui giocare e con la quale fare le proprie analisi, ma per un non esperto è un po’ come chiedere a un calcolatore di fargli da insegnante di algebra.
Il commento che mi fu fatto arrivò al cuore del problema altrettanto bene della frase di Picasso e del dialogo di Douglas Adams: “I computer – disse – sanno come porre le domande. Però non sanno quali sono quelle importanti”. Adoro questa frase, perché contiene diversi livelli di significato, e ciascuno di essi fornisce utili spunti di riflessione.
Trondheim EMP – Poke It With A Stick / Joining The Bots | Neural
[Letto su Neural]
Cosa può succedere quando strumentisti, vocalist, ricercatori, artisti sonori, programmatori e un filosofo si mettono assieme al fine di sperimentare nuove tecniche d’interazione musicale? Trondheim EMP è un collettivo d’oltre una trentina di membri che ha deciso d’utilizzare tecniche di analisi e di elaborazione audio digitale, al fine d’abilitare le funzionalità di un suono e per informare la riorganizzazione di altri effetti sonori ad esso conseguenti, permettendo alle azioni di un esecutore d’influenzare il suono di un altro esecutore, in particolare con l’utilizzo del segnale acustico prodotto direttamente sullo strumento. Insomma, quello implementato è un processo improvvisativo che tramite un programma consente un’interazione ancora più complessa e mediata, rendendo aleatorio sia per il performer che per l’ascoltatore capire precisamente cosa abbia causato un certo risultato tecnico. Un progetto del genere non può che essere fortemente basato sulla sperimentazione pratica, perché queste tecniche cross-adaptive hanno evidentemente bisogno di molti affinamenti per funzionare e ottenere un’interazione musicale efficace. Un dato particolarmente interessante è che questo processo potrebbe teoricamente estendersi all’infinito: anche il suono del secondo esecutore può a sua volta influenzare l’elaborazione del suono del primo e così via, aggiungendo maggiore complessità. È implicito che un tale procedimento sviluppi un potenziale d’instabilità piuttosto alto, da qui l’esigenza di mettere a punto ogni azione in una attenta ricerca durata due anni, finanziata dal Norwegian Artistic Research Program e dall’università norvegese per la tecnologia e la scienza, con collaborazioni della De Montfort University, della Maynooth University, della Norwegian Academy of Music, della Queen Mary University di Londra e dell’Università della California di San Diego. Il doppio album presentato riflette differenti fasi del processo di lavoro e mentre “Poke It With a Stick” è il risultato delle iniziali esplorazioni del sistema, comprensive di errori, inciampi, piccole scoperte e sorprese, “Joining the Bots” è più coeso, controllato, esibisce una maggiore maestria negli sforzi creativi anche quando sono ancora avventurosamente prodotti. Quello che è certo è che una tale operatività abbia dato origine a un dilagare dell’energia e delle possibilità di scambio fra due o più elementi dell’ensemble, come se l’improvvisazione sia in realtà un’abilità appresa e applicabile a contesti molto differenti e “non focalizzarsi intellettualmente sul controllo di dimensioni specifiche” consenta al processo adattivo di far fronte a qualsiasi evento musicale.