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NeXT Hyper ObscureArchivio per luglio 21, 2020
Phonothek – River of Woe
Risvolti interiori che si coagulano su enormi sorgenti di dispiacere surreale.
Per una teoria universale dell’utopia e delle sue contraddizioni | Holonomikon
Articolo come solo Giovanni De Matteo sa redigere, espansione di quello della settimana scorsa, sempre sulle utopie-distopie-ucronie-discronie. Un estratto – non esaustivo, ma intrigante – di un concetto che Luigi Acerbi e Daniele Bonfanti avevano sviluppato con il mio modesto ausilio, circa dieci anni fa: Discronia.
Come abbiamo visto per le distopie e più in generale per la fantascienza, nel caso dell’utopia è forse altrettanto appropriato parlare di meta-genere. I lavori citati nel capitolo precedente sono, in maniera abbastanza trasparente, opere di fantascienza che evolvono da una premessa utopica: diffondere una civiltà pacifica tra le stelle, realizzare una società ideale su un altro pianeta, risolvere i problemi legati alla scarsità delle risorse che affliggono una civiltà planetaria, guidare il progresso di società meno avanzate con ricadute benefiche per la loro popolazione.
Ma in fondo, come ci ricorda Alastair Reynolds, non dobbiamo dimenticare che le speculazioni fantascientifiche hanno sempre in qualche modo a che fare con l’utopia. Al di là di tutte le sue contraddizioni, delle sue criticità, dei conflitti che i suoi abitanti si trovano a dover affrontare, già solo «pensare a una civiltà umana interstellare è quanto di più vicino ci sia a una celebrazione dell’utopia: se già solo l’impresa di inviare una missione umana tra le stelle presuppone l’allineamento di una serie così difficile di condizioni da sconfinare nell’idealismo, figuriamoci la costruzione e il sostentamento di una società diffusa tra le stelle».
E d’altro canto l’utopia è un campo che la fantascienza condivide con il mainstream. Riprendendo ancora una volta le parole di Antonino Fazio dal suo articolo La letteratura di genere nell’epoca della sua riproducibilità parziale (Anarres n. 2):
[…] fantascienza e mainstream non condividono solo le correnti “storiche” della letteratura, bensì (prescindendo dalle contaminazioni) anche generi come l’epica, la commedia, la parodia, l’utopia, la satira. Questa circostanza ci indica con chiarezza che la fantascienza non è un semplice genere della narrativa popolare, bensì una forma di letteratura diversa dal mainstream, ma certo non meno “rispettabile” (cfr. Proietti, cit.), la quale va indagata anche con strumenti concettuali non tradizionali […]
Il Sessantanove psichedelico italiano: differenze e coincidenze tra esperienze psichedeliche e mistiche – L’INDISCRETO
Articolo molto interessante su L’Indiscreto che indaga il mondo sciamanico, psichedelico e creativo della fine ’60 in Italia. Un estratto:
Il mio primo contatto maturo con il mondo degli psichedelici risale a poco tempo fa. Il che risulta strano in quanto i miei studi, iniziati anni prima, mi avevano già condotto a Mircea Eliade e a tutta la genia di autori che si sono occupati di sciamanismo e tecniche dell’estasi. Avevo letto i libri di Castaneda da ragazzo e quelli di Huxley. Conoscevo Burroughs. Avevo pure consumato dei “tartufi allucinogeni” da ignaro neodiplomato in quel di Amsterdam. Eppure, continuavo a percepire dentro di me una certa ritrosia o comunque una distanza. Un pregiudizio. Nonostante questo, mi sono sempre interessato a esperienze limite, di espansione dello stato di coscienza. Senza però mai trovare qualcuno con cui confrontarmi o che potesse davvero darmi una chiave di lettura valida che concretizzasse esperienzialmente le teorie che René Guénon enuncia nel suo Gli stati molteplici dell’essere (Adelphi, 1996). Rimasi quindi molto colpito quando due carissimi amici di una vita mi consigliarono la lettura di Sciamani (TEA, 2009) di Graham Hancock. Un libro tanto appassionante quanto controverso che ha il pregio di raccontare delle esperienze psichedeliche fatte personalmente dall’autore. Un uomo, nostro contemporaneo, la cui cultura affonda le radici in un modo di pensare tipicamente occidentale, razionale, positivista. La lettura mi sconvolse, qualcosa si mise in moto e da quel momento all’occasione di immergermi nel mio primo viaggio psichedelico ci volle solo qualche settimana.
Devo dire che l’impressione di quel periodo era proprio che stessimo scavando in un ambito di conoscenze proibite e occultate nell’ombra. Il potere rivelatorio di queste sostanze e il loro impatto inconsistente sulla nostra salute ce le mostravano come un tesoro enorme, la straordinaria possibilità di sviluppare un nuovo e diverso punto di vista da cui guardare il mondo che qualcuno, inevitabilmente, aveva voluto tenere nascosto.
Col senno di poi sarebbe ingenuo pensare di aver scoperto un segreto per pochi. Sarebbe più corretto dire che quel potere misterioso è venuto a noi in un più grande processo di riavvicinamento della cultura dominante al mondo degli allucinogeni, quello che oggi conosciamo come «Rinascimento psichedelico». Un grandissimo e rinnovato interesse che ha coinvolto studiosi di ogni tipo e di ogni regione del mondo occidentale. Un processo che lentamente vedeva i suoi frutti maturare anche in Italia. Lo possiamo osservare oggi in tutte le librerie, sfogliando l’ormai celeberrimo volume di Michael Pollan, Come cambiare la tua mente (Adelphi, 2019), in cui parte della storia del Rinascimento psichedelico ci viene raccontata con grandissima dovizia di particolari. Oppure possiamo esplorare attentamente i due volumi di Terapie psichedeliche (Shake, 2020) all’interno dei quali Giorgio Samorini e Adriana D’Arienzo tracciano l’intero panorama degli studi che coinvolgono gli psichedelici. Inoltre, tutta questa passione per l’argomento ha portato a importanti ripubblicazioni dei libri che hanno fatto da pilastri durante l’ondata psichedelica degli anni Sessanta e anche di quelli che hanno successivamente mantenuto vivo il lavoro di quel periodo, nonostante la demonizzazione mediatica degli allucinogeni e la loro conseguente scomparsa da tutti gli ambienti di ricerca. Cito qui alcuni dei casi più interessanti, come Moksha (Mondadori, 2018) in cui sono raccolti gli interventi di Huxley sull’argomento, in un pregiato lavoro curatoriale (sigillato – nell’edizione italiana – dall’illuminante prefazione di Edoardo Camurri); oppure i libri di Terence McKenna, pubblicati da Shake edizioni, cui si aggiunge quest’anno uno dei suoi testi fondamentali, Il cibo degli dei (diventato introvabile in italiano e riproposto da Piano B edizioni in una nuova traduzione e con una prefazione di Federico Di Vita); mi sembra importante anche il lavoro fatto sui testi di Artaud, sul famoso libro di Micheaux (riproposto da Quodlibet con una bella introduzione di Marco Belpoliti, col titolo: Conoscenza degli abissi) e ancora LSD (Giometti & Antonello, 2017, introduzione di Donato Novellini), il carteggio tra Albert Hofmann ed Ernst Jünger (di cui ricordiamo, rispettivamente: LSD. Il mio bambino difficile e Avvicinamenti. Droghe ed ebrezza).
Christian Meaas Svendsen With Nakama And Rinzai Zen Center Oslo – New Rituals | Neural
[Letto su Neural]
Può la musica presentare con un altro linguaggio la filosofia buddista? In New Rituals, Christian Meaas Svendsen prova che sia possibile, esplorando il rapporto tra forma e libertà, tra la cultura occidentale moderna e la cultura orientale tradizionale. Sono tre i cd presentati, tutti radicati e basati sullo stesso materiale sorgente: 10 antichi sutra o canti buddisti Zen. Quello che si vuole sperimentare è un sé indipendente, in realtà inseparabile da tutto il resto e che cambia continuamente. Questo in alcune parti di New Rituals prende la forma di veri e propri canti devozionali, in altre assume quasi le sembianze d’un free jazz molto arioso ed espressivo, in altre ancora è un cantilenare solo accompagnato da un contrabbasso. La musica in questo progetto mette in discussione la necessità della forma come mezzo per sperimentare la libertà e questo – secondo l’autore – potrebbe essere un valore che pervade anche altri aspetti della vita. Christian Meaas Svendsen è semplicemente il tramite d’una antica sapienza, che trascende la sua stessa persona. Sulla stessa onda emozionale sono sintonizzati pure gli altri musicisti, Agnes Hvizdalek, Adrian Løseth Waade, Ayumi Tanaka e Andreas Wildhagen, abilissimi nel districarsi stilisticamente, a metà strada tra la musica classica contemporanea e il canto tradizionale. Alla Nakama Records possono essere soddisfatti del risultato, che è stato possibile grazie anche al supporto della Norsk Komponistforening e del Rinzai Zen Center di Oslo, un luogo nel quale le pratiche di meditazione sono essenzialmente silenti. Il buddismo Zen è una tradizione religiosa con rituali e una forma fissa, ma è essenzialmente antidogmatico e antintellettualistico, in particolare la scuola Rinzai, che ritiene l’illuminazione un evento improvviso, che si può raggiungere sia mediante la meditazione seduta sia mediante forme di colloquio paradossale. Lo zen – non solo in Giappone – ha molto influenzato la produzione letteraria e artistica: dalla poesia alla pittura, dal teatro No all’architettura di templi e giardini, dalla disposizione dei fiori al rapporto con molte arti e discipline, fino ad arrivare alla musica contemporanea di Cage, che è tutta permeata dalla complessità e dalla mutevolezza del reale suggerita da questa disciplina. Si dà scacco matto ai nostri tentativi di classificazione e di indagine, quello che rimane – scevro da facili riduzionismi – ci avvicina al reale in quanto processo, per restituirci a pieno tutta la sua complessità.