Su OggiScienza un post che rende noti in modo esteso e popolare i postumi del COVID, ovvero cosa succede a chi in qualche modo è sopravvissuto al virus? Un estratto significativo:
Difficoltà a respirare. Palpitazioni. La febbre che sale e scende. E poi dolori muscolari, mal di testa lancinanti e fastidiosi formicoli. Nausea. Disturbi gastrointestinali. Vuoti di memoria. E soprattutto, una spossatezza estrema che rende impossibile persino salire una rampa di scale, farsi la doccia o scrivere una mail. Sono alcuni dei sintomi che affliggono un numero crescente di persone – quante non si sa, forse centinaia di migliaia in tutto il mondo – dichiarate guarite dalla COVID-19 dopo due tamponi negativi, ma che guarite non sono affatto. C’è chi è stato dimesso dall’ospedale dopo aver superato la fase acuta dell’infezione, e chi in ospedale non ha mai messo piede, perché aveva sviluppato solo sintomi lievi. In comune hanno però il calvario che ne è seguito: una costellazione di disturbi debilitanti che possono protrarsi per mesi. Li chiamano long-hauler, malati a lungo termine di una sindrome ancora oscura e che, in mancanza di meglio, viene indicata come sindrome post-COVID. Per molti di loro, tornare alla vita di prima dopo essere stati infettati da SARS-CoV-2 si è rivelato finora impossibile.
Forse il coronavirus è ancora annidato negli organi dei long-hauler: sfugge ai tamponi nasofaringei ma non ha perso la capacità di replicarsi e di fare danni. Oppure potrebbe avere innescato una riposta immunitaria sproporzionata e persistente, all’origine delle infiammazioni agli organi che non si placano neppure dopo che il coronavirus è stato debellato. È quel che del resto accade con la febbre dengue, che provoca un terribile affaticamento anche quando il virus non è più presente nell’organismo. Nei polmoni infettati da SARS-CoV-2 si possono così formare coaguli e cicatrici che ostacolano l’afflusso di sangue ossigenato agli altri organi, inducendo la famigerata fame d’aria: un senso di profondo affanno anche in seguito a un leggero esercizio fisico.
Alcuni esperti hanno messo in relazione la sindrome post-COVID con la disautonomia, una disfunzione del sistema nervoso autonomo che controlla importanti funzioni corporee come la respirazione, il battito cardiaco e la pressione sanguigna. Questo potrebbe spiegare perché molti long-hauler hanno difficoltà di respiro anche con livelli di ossigeno nella norma o perché presentano un battito cardiaco irregolare. Sono state avanzate analogie anche con la sindrome da stanchezza cronica, che darebbe conto conto dell’estremo affaticamento provato da gran parte delle persone con la sindrome post-COVID.
L’incertezza è un’ulteriore fonte di angoscia per chi si trova nel limbo della sindrome post-COVID. Non si è morti, è vero, ma non si è neanche guariti e spesso non si viene neppure riconosciuti come malati. Nei primi mesi della pandemia i long-hauler hanno dovuto affrontare lo scetticismo di medici e famigliari, disorientati da sintomi che non rientravano tra quelli tipici della COVID-19 e che mutavano di giorno in giorno senza un’apparente spiegazione. A molti di loro non era stata neppure diagnosticata la malattia, perché all’inizio i tamponi venivano fatti solo a chi presentava sintomi gravi o finiva in ospedale. Fin troppo facile liquidare tutto come suggestione causata dall’ansia e dallo stress. Del resto, nella prima fase dell’emergenza, medici e infermieri erano impegnati a salvare quante più vite possibile, travolti da un’ondata di pazienti in gravi condizioni che nelle terapie intensive lottavano per non morire. Chi aveva il tempo di preoccuparsi per qualcuno a casa con il fiatone?
È anche colpa di come la COVID-19 è stata raccontata. Per molto tempo si è ripetuto come un mantra che solo una minoranza di persone (per lo più anziani con malattie croniche pregresse) rischia di sviluppare sintomi gravi, mentre la gran parte dei contagiati è asintomatica o presenta sintomi lievi. È corretto, ma adesso sappiamo che questa è solo metà della storia. Esiste una terza categoria di persone che non sviluppa subito sintomi gravi ma poi soffre di disturbi invalidanti a medio e a lungo termine. Molti di loro sono giovani adulti senza malattie pregresse.
Si è a lungo dato per scontato che le persone con sintomi lievi tornassero in piena salute entro un paio di settimane, come avviene per l’influenza e il raffreddore. Questo paragone è stato forse l’errore peggiore nel racconto della pandemia. La COVID-19 non è un’influenza né un raffreddore. Guardando invece a quel che abbiamo appreso con la SARS, non mancano storie di pazienti che hanno avuto difficoltà di recupero e sofferto di disturbi persistenti. Il senso di affaticamento estremo che caratterizza la sindrome post-COVID era stato riscontrato anche in molti dei sopravvissuti alla SARS, afflitti da problemi respiratori anche a 18 mesi di distanza dalla risoluzione della polmonite.
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