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Archivio per ottobre, 2020

A Walk in Twilight – Happy Halloween from Ksenja Laginja, Stefano Bertoli e Sandro Battisti


UpLoween in reading, a tema, per Samhain; in musica, parole, empatia oscura e poesia. Per voi, un piccolo regalo.

Borat – Seguito di film cinema, di Jason Woliner – Carmilla on line


Su CarmillaOnLine una recensione/riflessione al sequel di Borat, tra considerazioni sociali, politiche e di costume che sembra non poter lasciare indifferenti. Un estratto:

Un sequel di Borat non sembrava impresa facile. Il film più grottesco, più cattivo e politicamente scorretto che sia mai stato girato aveva tutte le caratteristiche dell’opera unica. Difficile reggere il confronto con le risatacce scandalizzate che strappava, si rischiava il doppione, un lato B non all’altezza. Invece Sacha Baron Cohen, il vero autore del film, 14 anni dopo ce l’ha fatta. Ha vinto la sfida con se stesso. Borat “il giornalista” riprende le operazioni e torna in America.

Lo troviamo ai lavori forzati, intento a spaccare pietre col piccone (e qui per un attimo ci abbandoniamo a un sogno: vedere al suo posto tanti politicanti italiani). Infatti il suo film precedente ha messo in pessima luce il Kazakistan, per cui è stato condannato al pubblico ludibrio. Per il momento è sfuggito alla pena di morte, per squartamento, o dato in pasto ai maiali, come si usa in Kazakistan, ma chissà. Per cui quando lo prelevano, per portarlo non si sa dove, teme il peggio. Invece viene condotto davanti a un ministro il quale gli comunica che non sarà giustiziato. Anzi, dovrà tornare in azione, in America.

Il suo paese vuole entrare nel salotto buono della politica, con gli altri stati “normali”, e una buona occasione pare sia questo nuovo presidente, “McDonald Trump”, che sembra conforme agli usi e costumi del Kazakistan. Borat dovrà farselo amico, portandogli un dono: la scimmia Johnny, star del cinema porno. Ma non a Trump in persona, perché potrebbe irritarsi, ma al vicepresidente, il famoso puttaniere Mike Pence. Certamente gradiranno.
Così “il giornalista” può recuperare il suo completino con cravatta, e chiede di essere affiancato dal suo vecchio pard. Ma il ministro ribatte che gli sta sedendo sopra, sulla poltrona di pelle umana. Impressionato (ma in modo blando, chi si può impressionare in Kazakistan?), si procura una minuscola roulotte, per trasportare la scimmia chiusa in una cassa. Ma prima va a trovare la figlia. In gabbia, naturalmente, con la paglia, perché chi ha la sventura di avere una femmina, almeno la tiene in gabbia.
La ragazza, 15 anni, smania per accompagnarlo, perché potrebbe diventare “come Melania”. Impossibile ovviamente, in Kazakistan le figlie non possono viaggiare, il loro posto è unicamente la gabbia. Borat la saluta con una specie di tristezza – blanda naturalmente, in Kazakistan non ci si commuove per una figlia! – e finalmente parte, con la minaccia che, se fallirà, sarà squartato da due mucche.

Inizia il nuovo viaggio americano, un viaggio nabokoviano in salsa crudele-demenziale, con alcuni camei di personaggi reali che rispondono con professionalità alle domande folli di Borat, tipo: “Quanti zingari posso gasare nella roulotte con questa bombola di gas?”, al che l’uomo risponde: “Beh, quanti ce ne stanno”.
Nel precedente film entrava in una convention di fanatici religiosi, qui va tra i trumpiani. Scopre il mondo spaventoso di QAnon, travestito e truccato proprio da Trump. Gli rivelano che il coronavirus è stato diffuso dai Clinton, i quali sono anche a capo di una setta che rapisce i bambini per sgozzarli e berne il sangue (e qui non c’è nulla di boratiano, perché è tutto vero, e non sono “quattro gatti” fuori di testa, ma una fetta importante del popolo americano che vota Trump). Intanto fa una scoperta sconvolgente: nella cassa c’è la figlia, che si è intrufolata e ha mangiato la scimmia. È un fatto grave, che potrebbe costargli la pelle. Dunque si fa venire un’idea: morta la scimmia può regalare la figlia a Pence. La ragazza è perplessa, ma deve farlo, perché è il suo dovere di figlia. Perché in Kazakistan è la regola.
Poi, dopo altre peripezie, altri incontri, altre pazzie surreali, si scopre che Pence non è disponibile, per cui si ripiega sul Rudolph Giuliani, il famigerato sindaco di New York che ha inventato la “zero tolerance” che fatto andare in iperventilazione molti sindaci nostrani, sia di destra sia di “centrosinistra”. La figlia, che nel frattempo si è civilizzata grazie agli insegnamenti di una signora che l’ha accudita per qualche tempo, lo aggancia con una intervista, e lo invita in una camera d’albergo. E qui, tra un alternarsi di candid camera e di recitazione, con la scena che ha fatto tanto scalpore di Giuliani che si stende sul letto e se lo massaggia per farselo venire duro (ma è lui? a dire il vero non si capisce bene, anche se Baron Cohen ha garantito che è lui), avviene una sorta di catarsi e di presa di coscienza di Borat e della stessa figlia.

Invidia


Lasciti di un pensiero avariato che regna ancora, come un vampiro che non veda mai sole ed è invidioso della vita.

Misantropia mentale


Posseggo una estrema predilezione a vivere una certa distanza psichica con qualsiasi entità antropomorfa, trovo fuorvianti le vicinanze, trovo dannose le parole spese per rinsaldare quella prossimità.

“Meddle”: i Pink Floyd arrivano al cuore del rock progressivo | OndaMusicale


Su OndaMusicale un bel post che celebra i 49 anni dell’album Meedle, dei Pink Floyd, uscito proprio il 31 ottobre ’71. Vi lascio alle parole del post, magnifiche e tecniche al punto giusto.

Grazie anche alla scelta di John Leckie come tecnico del suono (pare dettata dalla predilezione di questi a lavorare al mattino, quando i musicisti ancora dormivano), inizia a circolare un abbozzo intitolato “Nothing – Parts 1 to 24”. Attraverso un lungo lavoro il pezzo diventerà prima “Son of Nothing”, poi “The Return of the Son of Nothing” e infine la suite “Echoes”.

Le altre canzoni vengono fuori da un lavoro di gruppo della band che, d’ora in poi, non sarà mai più coesa, e specialmente dal lavoro combinato di David Gilmour e di un Richard Wright in stato di grazia. “Meddle” è infatti il disco preferito dei sostenitori dell’accoppiata Gilmour-Wright, a dispetto dei sostenitori del Deus ex Machina Roger Waters. Perfino la copertina – una misteriosa foto di un orecchio sott’acqua – viene curata dai Pink Floyd, mentre il fidato Storm Thorgerson è solo il curatore generale del progetto grafico. Che ovviamente non lo convince per nulla.

Il disco si apre con uno strumentale tra i più iconici della band: One of These Days. Il brano gode di una popolarità particolare in Italia, soprattutto in virtù del suo utilizzo come sigla per due programmi Rai: prima per TG2 Ring, poi per la celebre trasmissione sportiva Dribbling. Per assurdo, per molti appassionati di calcio a digiuno di musica, ancora oggi il pezzo è noto come la sigla di “Dribbling”.

Il brano è completamente basato su un giro di basso martellante e ossessivo, pare originato da un riff di chitarra di David Gilmour; per registrarlo vennero impiegati due bassi, suonati da Waters e da Gilmour, filtrati attraverso il Binson Echorec della chitarra di David. Il giro di basso viene presto affiancato dagli svolazzi alla slide guitar del chitarrista, fino a che, verso metà brano, viene pronunciata la frase One of these days I’m going to cut you into little pieces” (“uno di questi giorni ti ridurrò in piccoli pezzi”). La voce, irriconoscibile perché rallentata e filtrata elettronicamente, è quella di Nick Mason che, da questo punto in poi, diventa uno dei protagonisti del brano alla batteria, come si vede bene nel film del live di Pompei.

Secondo alcune dicerie – non si sa quanto fondate – l’inquietante frase era dedicata a Jimmy Young, disc jockey della BBC particolarmente inviso a Roger Waters. Anche qui i motivi sono oscuri. Il brano rimane sicuramente come una delle testimonianze più vivide della creatività del gruppo e di certe atmosfere stranianti in cui erano maestri.

La successiva A Pillow of Windè una bella ballata, piuttosto peculiare nel canzoniere della band e – purtroppo – semisconosciuta. La grande particolarità è nel testo, scritto da Roger Waters: è una delle poche canzoni d’amore del gruppo. La musica è invece opera di Gilmour ed è basata sull’arpeggio di una chitarra acustica e il volo pindarico della slide; il canto di David è dolce, a riproporre le atmosfere bucoliche tipiche di varie ballate del periodo precedente a “The Dark Side of the Moon”. Per Nick Mason il titolo della canzone deriva da una possibile mano del Mahjong, gioco del quale la band si era appassionata durante le sue tournée.

Un suono a metà tra una goccia che cade e il Sonar di un sottomarino apreEchoes, suite di oltre ventitré minuti. Il suono è in realtà un “si” acuto di pianoforte e l’effetto straniante è ottenuto filtrando lo Steinway di Wright attraverso un amplificatore Leslie. L’introduzione, così come la sequenza degli accordi, è ideata da Wright, mentre la fase centrale dove il brano vira al funk, è opera di David Gilmour.

Sopra il piano filtrato di Richard Wright si staglia la chitarra elettrica di David che suona cristallina e rotonda: il tipico suono di Gilmour, nulla di particolarmente tecnico ma dotato di una suggestione irraggiungibile. Poco prima dei tre minuti entra la batteria e inizia la parte cantata, con Gilmour alla voce principale e Wright abilissimo nell’armonizzare.

Il testo, a opera ancora di Waters, ha toni quasi mistici e riecheggia i pensieri di un uomo rivolti probabilmente a Dio e la storia stessa della Genesi. Si tratta forse del primo testo del Waters come lo conosceremo da “Dark Side” in poi, più visionario e poetico che in precedenza.

Dopo due strofe cantate, la suite prosegue con lo splendido lavoro di Gilmour alla chitarra che si staglia sul crescendo strumentale, fino al break del settimo minuto che introduce la sezione funky; questa parte ospita passaggi alla slide quasi rumoristici e l’organo di Wright che puntella la parte ritmica. Su un tappeto vorticante di effetti ambientali, con un vento che pare spazzare via la parte funk, pare di udire le grida degli albatros citati nel testo, mentre la tempesta avvolge tutto in modo inquietante; in realtà gli striduli fischi psichedelici sono ottenuti con la tecnica del reverse applicata a un Cry Baby sulla chitarra.

È di nuovo un ispiratissimo Richard Wright a far riemergere la musica dalle nebbie psichedeliche con le sue tastiere. Il crescendo porta al rientro della chitarra, che si produce in un bordone sulle note basse, per poi improvvisamente sfociare nella ripresa delle strofe iniziali. Il finale regala una finezza compositiva con l’esecuzione di una Scala Shepard: si tratta del cosiddetto canone eternamente ascendente, una scala suonata contemporaneamente su diverse ottave differenti, dando l’effetto di una scala che sale di altezza in modo indefinito. Una sorta di illusione uditiva che deve il nome a uno psicologo, Roger Shepard. Esempi se ne trovano nella Offerta Musicaledi Bach e nel brano “I Am The Walrus” dei Beatles. La durata della suite (23 minuti e 31 secondi), simile a quella della sequenza chiamata “Giove e oltre l’infinito” tratta da  2001: Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick, ha fatto nascere una curiosa leggenda: sovrapponendo la musica alle immagini sembrerebbe quasi che la suite ricalchi le atmosfere della sequenza.

Fields Of The Nephilim – Live NACA, Washington 20.02.88


Dal continuo riemergere del tempo, una vecchia ospitata dei Nephilim alla TV USA, con tutto lo splendore oscuro e ruvido, potente, che evocavano.

Colour out of Space, di Richard Stanley – La recensione dell’horror con Nicolas Cage


La recensione al film di Richard Stanley, Colour out of Space, trasposizione cinematografica di un celebre romanzo di HPLovecraft, film che ha vinto circa un anno fa l‘H.P. Lovecraft Film Festival. Su SentieriSelvaggi.

Il ritorno sul grande schermo di Richard Stanley, cineasta di culto dell’alt-horror (personalmente ricordo un discreto fomento nel mio circolo di imberbi appassionati intorno ad un passaggio tv di Demoniaca a Notte Horror, metà anni ’90) sostanzialmente scomparso dalle produzioni di lungometraggi dopo la lavorazione interrotta del suo L’isola perduta, poi concluso da John Frankenheimer, è un’opera straordinaria almeno quanto la colonna sonora firmata da un Colin Stetson qui più aperto del solito a strumentazioni “canoniche”, ma micidiale come sempre anche soltanto con un gorgoglio minaccioso del suo sax. Colour out of space è anche un purissimo Cage-movie, state tranquilli, con i freak-out al punto giusto e la progressione sempre più incontrollata del suo benemerito, cristallino overacting: ma soprattutto, il nuovo film di Stanley è un ponte clamoroso e intergenerazionale tra due concezioni dell’horror, e due modalità espressive del genere.

La struttura è quella dell’apologo apertamente politico (esplicitato dall’evidente caratterizzazione grottesca di alcuni passaggi) sulle basi della società statunitense, l’assalto condito da escalation di gore al sogno di questo nucleo familiare di città che si trasferisce ai confini della civiltà per allevare alpaca (l’animale del futuro”) è portato avanti da una narrazione sospesa e da una scansione astratta degli eventi, che non lascia spiegazioni o appigli se non solo accennati a questo incubo carpenteriano (tra La cosaIl seme della follia Il signore del Male) che recupera un body horror davvero dal sapore nipponico nelle mutazioni della carne e nelle metamorfosi mostruose dei personaggi (la malcapitata madre Joely Richardson). Allo stesso tempo, però, le campiture irreali a cui il colore venuto dallo spazio costringe il cielo, la natura e pian piano qualunque elemento dell’inquadratura, fino alla visionarietà spintissima della feroce sezione finale, sembra un link lanciato ai campioni attuali della scena arthouse del genere, tutti neon e panels imbambolati, simbologia scoperta da baccanale e spirito performativo da happening.
Se da un lato è innegabile insomma il mood di omaggio a un fuoco sacro dell’horror oggi probabilmente sepolto (il film recupera in qualche maniera anche l’atmosfera di un Friedkin dimenticato come L’albero del male), dall’altro Stanley dimostra di essere ancora un cantore irrequieto, urticante e meravigliosamente lisergico dello zeitgeist, come ai tempi del suo esordio Hardware con Iggy Pop e Lemmy. Speriamo non si tratti solo di un meteorite di passaggio ogni 20 anni.

“DRESSING WITH NAKAHARA” – slideshow da foto di Lucia Luce | Duplex Ride


Sul blog dei DuplexRide la segnalazione – con video – di una performance del collettivo. Sperimentazioni e fascinazioni di avanguardie sonore, artistiche.

Far away


Ospito la complessità frattale del mondo surreale e ne digerisco piccoli brandelli settoriali: sono lontano dal costrutto di un metodo olografico.

Tolkien. Il creatore della Terra di mezzo e Tolkien. I tesori | FantasyMagazine


Su FantasyMagazine la segnalazione di Tolkien. Il creatore della Terra di mezzo e Tolkien. I tesori, due opere dedicate al professore di Oxford scritte da Catherine McIlwaine, curatrice dell’archivio Tolkien. Le sinossi:

Tolkien. Il creatore della Terra di mezzo J.R.R.Tolkien era un uomo dai mille talenti: esperto linguista, filologo, studioso di letteratura e folclore, ovviamente grande scrittore e creatore di mondi. Ma era anche un abilissimo pittore e disegnatore. Lo testimoniano i ricchi materiali, in gran parte inediti, raccolti in questo volume: lettere, appunti, ma soprattutto illustrazioni, mappe, schizzi di luoghi e personaggi, che mostrano come abbia preso forma nell’immaginazione dello scrittore la Terra di Mezzo che ha affascinato e affascina i sempre più numerosi appassionati di fantasy.

Tolkien. I tesori – Con molti pezzi unici, tratti dagli Archivi Tolkien conservati alla bodleian Library, questo libro esplora i molteplici aspetti della vita e dell’opera di J.R.R Tolkien, dall’infanzia nelle Midlands agli studi a scuola e all’università, fino all’esperienza della Prima Guerra mondiale. Sono qui raccolte le splendide illustrazioni per Il Silmarillion, Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, insieme alle complesse mappe che Tolkien stesso disegnò per spiegare la topografia della Terra di Mezzo, il continente da lui inventato.

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