Su RollingStoneItalia una lunga intervista a Flaco, ex chitarrista dei Punkreas che ora ha cambiato, in qualche modo, vita. Un estratto:
Gli slogan più famosi del movimento punk recitavano “no future” e “do it yourself”. Sul primo, dopo un po’ di anni, in tanti si sono ricreduti. Almeno tra i sopravvissuti. Il secondo, invece, sembra rimanere un marchio indelebile in chi ha attraversato quella stagione. È il caso di Fabrizio Castelli, per tutti Flaco, storico chitarrista dei Punkreas, che dopo la rottura con la band si è ricostruito una vita in solitaria, arrivando a lavorare come postino a Cassano Magnago (Varese). Un impiego “normale”, dopo 25 anni di dischi, concerti e poghi incendiari scatenati con uno dei gruppi simbolo del punk italiano. Ma nonostante la traumatica rottura, fedele al motto “fallo da solo”, ha prima realizzato un disco solista, Coleotteri, e poi trovato il modo di far riemergere l’altra passione fino ad allora rimasta sopita. Grazie al part-time a Poste Italiane, ha infatti ripreso in mano i libri e ora si propone anche come consulente filosofico (materia in cui è laureato). Per la prima volta dal 2014, anno dell’addio ai Punkreas, ci ha raccontato quanto è stato difficile accettare di essere allontanato dalla band che ha fondato, quali sono gli atteggiamenti che non riesce a perdonare ai suoi ex soci, e di un mondo diviso fra buoni e cattivi – quello a cavallo fra gli anni ’80 e ’90 – in cui si poteva ancora avere la percezione di cambiare la società attraverso la musica.
Nonostante tutto, la musica fa parte della tua vita?
In realtà, in questo momento sono più concentrato sulla filosofia. La musica resta un capitolo aperto, ma in stand-by. Penso dipenda sia da aspetti personali che generali. Osservando in modo più ampio la questione, la mia storia musicale si è intrecciata, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, con l’occupazione dei centri sociali, quando cioè si poteva ancora dare un senso pieno alla parola underground. Forse è stato l’ultimo momento in Italia del genere, con la presenza di un circuito che sfuggiva alle maglie del mainstream, con una sua capacità stilistica e una autonomia di comunicazione. Senza contare che c’era un tessuto sociale fertile. Erano gli ultimi fuochi del cosiddetto secolo breve.Con i Punkreas vi siete formati nel 1989, l’anno della caduta del Muro di Berlino.
Sembrava più un momento giusto per sciogliersi, ma in Italia arriva tutto in ritardo. Infatti, era ancora presente la partizione mitologica da Guerra fredda che si sarebbe poi dissolta. Però in quel periodo ha prodotto cose valide. È stato un percorso entusiasmante, sia musicale che sociale, in cui avevamo la percezione di poter incidere sul quello che accadeva nel mondo. Che fosse vero o falso non aveva importanza. Quel contesto ha ricevuto la mazzata definitiva, prima a Genova 2001 e poi a Roma 2003, quando una grande partecipazione di massa è stata stroncata senza appello. In seguito, siamo entrati in una fase di riflusso che si è associata con una crisi economica che ha fatto strage di tutte le possibilità di una cultura dal basso. Anche quando è arrivata la rivoluzione digitale, come prima conseguenza ha penalizzato le piccole produzioni.Tutto si è ridimensionato nell’ambito punk, però certe band che hanno fatto la storia del movimento di quegli anni rimangono ancora attivissime. Punkreas compresi…
Personalmente l’esperienza con i Punkreas è finita amaramente. In quel periodo ero abbastanza insopportabile, avendo problemi personali che evidentemente riversavo nella band. È anche vero che non c’è stata dall’altra parte molta attenzione nei miei confronti, però chi è senza peccato scagli la prima pietra. L’ho presa come una occasione per prendere atto che da tempo la mia attività musicale tendeva a fotocopiare se stessa. L’abbrivio iniziale, quello più genuino, cominciava a diventare un cliché e quindi non mi andava più di replicarlo.
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