Una rivista è uno spazio comune dove si riconoscono delle intelligenze unite nella differenza. La sua ricchezza è lo squilibrio delle esperienze e delle intelligenze soggettive.
Esce, con qualche ritardo rispetto alla pubblicazione in Francia e negli Stati Uniti, il primo volume tematico di “Liaisons”, una rivista che è nata da anni di lavoro ed elaborazioni, legami personali e dibattiti che hanno coinvolto giovani studiosi e attivisti provenienti da diversi e numerosi paesi del mondo. Un intreccio di amicizie e di comuni sensibilità che si è posto un obiettivo ambizioso e necessario: dar voce e spazio a un certo modo di porsi domande dentro il “tempo della fine”.
In un contesto mondiale in cui il terreno della politica, luogo in cui diverse soggettività si incontrano e si scontrano dialetticamente, si sta dissolvendo con il venir meno della funzione dei parlamenti e dello Stato nazionale, dediti ormai principalmente alla gestione delle repressione e degli affari correnti indicati da centri finanziari e di potere “esterni”, si rende necessario una maggiore attenzione alle storie particolari, a come si presentano e ripresentano all’interno di determinati e differenti contesti.
Come si afferma nell’Introduzione:
“Ora, proprio quando il mondo ci si presenta, attraverso la sua dissoluzione, sotto forma di una drammatica unità, all’orizzonte un’umile internazionale prende forma e potenza. La riconosciamo a partire da una serie di gesti familiari: la moltiplicazione dei conflitti diretti con la polizia, la diserzione generalizzata dalle istituzioni, il blocco delle strutture petrolifere e nucleari, la proliferazione delle Zad e la messa in comune dei mezzi per vivere e resistere. Dappertutto, assistiamo a un risveglio della vitalità politica, dell’intelligenza strategica e del desiderio di combattere – stavolta non il mondo, ma la sua fine.
Siamo nati in un’era di separazioni, alle soglie dell’inabissamento di un secolo stanco. Condividiamo la stessa insoddisfazione nei confronti delle grandi narrazioni, ma il loro spettro ci tormenta. Prigioniere e prigionieri del tempo della fine, rimaniamo con le spalle al muro davanti a un compito dalla portata incommensurabile: le nostre aspirazioni infatti non possono più relazionarsi con alcun contenuto positivo, ma con ciò da cui partiamo. La nostra eredità politica non è figlia di alcun testamento. Un’affermazione tanto più vera in un mondo che sta per essere distrutto fino all’ultimo grammo.
[…] In questo contesto, l’ultimo dei disastri possibili sarebbe credere di poter ancora risolverli. Tale è il miraggio del populista, che crede di poter riprendere la situazione in mano. Così, tutto il mondo si è sorpreso della vittoria del “Make America Great Again” di Trump quando Putin, Berlusconi, Erdoğan, Modi e Netanyahu da anni regnano (o hanno regnato) sullo stesso registro. Che provengano da milieu popolari o ne maneggino lo stile, tutti riesumano la supposta alleanza tra il sovrano e il suo “popolo”, dissimulando l’enorme divario tra questo e le élites, trincerate dietro gli apparati di stato – ciò che alcuni chiamano deep state. Per conquistarsi i cuori, promettono di salvaguardare tutto ciò che in un “popolo” è identico a se stesso, per scagliarlo contro la minaccia che proviene dalla minoranza, sia essa etnica, sessuale o politica, fino a compromettere praticamente tutto e tutti. Dalle viscere di questa massa abbandonata nel bel mezzo del deserto neoliberale, sorge un nuovo popolo del risentimento. Quasi senza rendercene conto siamo passati da un regime di pacificazione imposto con la guerra a un regime di guerra tout court, che minaccia di sottrarci l’agenda delle cose a venire, di ribaltare la gerarchia di ciò che conta o meno, di ciò che polarizza o lascia indifferenti. Il nemico ha invaso i nostri spazi, minacciando di estirpare l’erba che ci cresce sotto i piedi. E non si limita all’esproprio capitalista, ma ambisce a intercettare le energie di chi si oppone all’ordine liberale per metterle al servizio di una macchina di governo che non si pone neanche più il problema di apparire “socialmente accettabile”. Tutto accade come se gli attuali movimenti autoritari si espandessero al ritmo della virtù ipocrita del liberalismo occidentale, come suo inconfessabile, mostruoso doppio.
[…] E tutto questo “in nome del popolo”.
D’altra parte, di fronte alla convocazione del popolo sull’altare della nazione, i movimenti che si sollevano contro quest’ultima sono chiamati a loro volta, in mancanza di migliori definizioni, “popolari”. Eppure è chiaro come l’effervescenza delle Primavere arabe o del movimento contro la loi travail in Francia sia dipesa dal pensionamento degli organi tradizionali di rappresentanza popolare, ovvero i partiti e i sindacati.
[…] Lontano da ogni “discorso di metodo” politico, l’epoca non ci lascia altra scelta se non quella di pensare un’esistenza senza soggetto, progetto o eredità – compresa quella del “popolo”. In un certo senso, si tratta di riconoscere il fallimento della politica come l’abbiamo sempre conosciuta, persino di quella che abbiamo amato. Ma ammettere un fallimento non è un’ammissione di impotenza, perché la potenza designa ciò che ancora non è venuto alla luce, e che spetta a noi far emergere2“.