HyperHouse
NeXT Hyper ObscureArchivio per ottobre, 2021
La maggiore sintesi
Modifico il mio agire e pensare in corrispondenza dei miei interessi surreali, alla ricerca della sintesi maggiore della trascendenza.
New Order – Everything’s Gone Green (Live in New York City 1981)
Gli echi dei Joy Division sono ancora chiari e splendidi, oscuramente interiori…
HPLovecraft su IL FILO A PIOMBO DELLE SCIENZE
Sul blog di Marco Moretti alcuni post che indagano in forma profonda la figura di Lovecraft e di ciò che ha gravitato – e tuttora gravita – su lui e la sua opera. I topic toccati sono “HOWARD PHILLIPS LOVECRAFT ARABISTA: LE ORIGINI DI ABDUL ALHAZRED“, “HOWARD PHILLIPS LOVECRAFT ARABISTA: ETIMOLOGIA DI AL AZIF” e “HOWARD PHILLIPS LOVECRAFT GRECISTA: ETIMOLOGIA DI NECRONOMICON“, tutti temi che hanno in sé un tocco di originalità perché è la parte linguistica ed etimologica a far da guida a tutto il percorso filologico seguito da Moretti. Un estratto:
Moltissimi credono che Necronomicon significi “Libro dei Nomi dei Morti”. Se la derivazione fosse dal greco ὄνομα, ὄνυμα (ónoma, ónyma) “nome”, il fatidico libro non si chiamerebbe Necronomicon, bensì *Necronomaticon o *Necronomasticon. Così non è. Infatti da ὄνομα, genitivo ὀνόματος (onómatos), derivano gli aggettivi ὀνοματικός (onomatikós) e ὀνομαστικός (onomastikós). Se la lingua greca non fosse un tabù o un libro chiuso, si eviterebbe la diffusione di molte falsità e informazioni distorte.
H. P. Lovecraft affermò che il titolo originale del Necronomicon è Al Azif. Una variante Kitab al-Azif (in arabo kitāb significa “libro”) è comparsa soltanto negli anni ’70 del XX secolo. La spiegazione del nome Al Azif, considerato di origine araba, è la seguente: “quel suono notturno (fatto dagli insetti) che si suppone sia l’ululato dei demoni” (originale in inglese: “that nocturnal sound (made by insects) supposed to be the howling of demons”). Così nel Web è data per assodata la glossa Al Azif “suono delle voci dei demoni”. Al contempo sono in molti a ritenere che non si tratti realmente di un lemma arabo. Accade spesso che alcuni curiosi facciano qualche tentativo di ricerca per poi affermare che la lingua araba non è affatto in grado di tradurre questo termine tecnico della demonologia lovecraftiana. Come portare chiarezza dove regna tanta confusione? Al Azif è arabo o non lo è? Se non lo è, qual è dunque la sua origine? Com’è arrivato il Solitario di Providence a concepirlo?
Il nome Abdul non presenta misteri di sorta: in arabo significa “Servo di” e non è un antroponimo indipendente. La forma originale è عبد ال ʻAbd al, da ʻabd “servo” allo stato costrutto seguito dal ben noto articolo determinativo al. È possibile che la trascrizione Abdul mostri la desinenza fossile del nominativo, -u, ancora presente nella lingua coranica, con l’articolo determinativo al agglutinato. Secondo le opinioni più diffuse si tratta soltanto di una diversa traslitterazione, che tiene conto dell’indebolimento della vocale atona dell’articolo. Abbiamo anche le trascrizioni Abdol, Abdool, Abdoul, Abdil, Abdel. La forma meno distante da quella classica è senza dubbio Abdal.
Pink Floyd, i 50 anni di “Meddle”: la storia dell’album (1) – Rockol
Su RockOl, nel solco dei festeggiamenti del cinquantenario di Meddle – album dei Floyd che contiene perle di una bellezza siderale, le migliori della band, insieme a proposte imbarazzanti – alcune note che riguardano il disco. Eccole:
Registrazione: EMI Studios, Morgan Sound Studios, Air Studios, Londra; gennaio-agosto 1971; mixaggio versione quadrifonica Command Studios, Londra, 21-26 settembre 1971 (la versione quadrifonica non fu pubblicata e i nastri giacciono ancora negli archivi della EMI) Produttore: Pink Floyd • Fonici: Peter Bown, John Leckie (EMI Studios e Air Studios); Rob Black, Roger Quested (Morgan Sound Studios)
Pubblicazione: USA 30 ottobre 1971 • UK 5 novembre 1971Centinaia di spettacoli in giro per il mondo, dischi in studio e colonne sonore a ripetizione, duro lavoro di gruppo e una certa ansia da avvenire: gli ultimi tre anni dei Pink Floyd erano stati un concentrato di grandi sacrifici per settare a puntino gli ingranaggi di una macchina sempre più affidabile, per quanto le incertezze nel percorso non fossero certo mancate. La suite “Atom Heart Mother”, ad esempio: un tentativo in stile barocco che aveva comportato numerosi problemi e non soddisfatto del tutto le aspirazioni del gruppo, deciso a ripartire dalla composizione di musica più semplice e vicina al proprio stile. Le intenzioni parvero chiare già dalle dichiarazioni rilasciate alla stampa prima del nuovo lavoro in studio. Gilmour: “Sarebbe davvero forte poter cambiare completamente direzione e godere della libertà di lavorare solo tra noi quattro, senza i condizionamenti dell’orchestra e del coro”. E ancora: “Nel giro di pochi mesi si potrà sentire probabilmente un lato del tutto diverso del gruppo. ‘Atom Heart Mother’ è stato l’inizio della fine”.
Detto, fatto. La prima svolta segnò il commiato dal produttore Norman Smith, ormai ai margini delle operazioni, considerato che il gruppo (anche grazie ai suoi insegnamenti) aveva ormai acquisito le competenze necessarie per prodursi autonomamente. Fu lo stesso Smith a raccontare questa fase in un’intervista del 2008: “A quel punto sapevano che cosa volevano, e sarebbe stato stupido da parte mia continuare a contribuire in qualsiasi modo. Mi sembrava di aver fatto la mia parte insieme a loro e li incoraggiai a produrre da soli, dato che già lo facevano in casa con i loop che poi portavano da me”.Con la EMI concentrata sulla promozione di “Atom heart mother”, il gruppo poté progettare il nuovo disco con inusuale tranquillità, e senza pressioni si diresse in studio già dai primi giorni del gennaio 1971. La prima idea che solleticò l’immaginario dei musicisti fu quella di abbandonare gli strumenti musicali e operare attraverso suoni prodotti da oggetti di uso quotidiano, come utensili domestici e di lavoro.
Mason, agli albori del progetto: “A tutt’oggi abbiamo tirato fuori quattordici idee diverse per l’album, tra cui quella di un pezzo in cui si utilizzano oggetti per ottenere effetti acustici: bottiglie, asce che spezzano qualcosa, seghe… quel genere di oggetti”. Il tecnico John Leckie, in studio con la band, ricorda quelle sedute di registrazione: “Hanno trascorso giorni e giorni di lavoro su quello che la gente ormai chiama il progetto ‘Household Objects’. Strappavano un giornale per ottenere un ritmo e spruzzavano con una bomboletta spray per riprodurre il suono del charleston”. Molto spesso le sedute si concludevano con un nulla di fatto, senza che fosse stato inciso neanche un solo secondo di musica. Le sedute di registrazione dei Pink Floyd avevano fama di essere noiose. Potevano iniziare alle 2 del pomeriggio e finire intorno alle 4 o alle 5 del mattino, senza aver fatto un bel niente. Non s’era mai visto un qualsivoglia tipo di contratto; solo il manager della Harvest Records compariva ogni tanto con un paio di bottiglie di vino e si metteva a rollare due o tre canne. In studio avevano un piccolo cocktail bar, con tanto di frigo, e bevevano quella che per loro era la giusta quantità di Tequila e Southern Comfort. Ma non giravano droghe chimiche. L’atmosfera non era pesante, però ogni tanto subentravano interminabili silenzi, una noia infinita. Altre volte la frustrazione si faceva palpabile ed erano tutti lunatici”.
Il progetto “Household Objects” venne accantonato ma di fatto aleggiò nel gruppo ancora per qualche anno, riaffiorando a fasi alterne; la band tornò a concentrarsi sulla musica suonata e a febbraio cominciò a ragionare su trentasei piccoli contributi in ordine sparso. Mason: “Quando abbiamo cominciato a lavorare a “Meddle” lo abbiamo fatto in modo completamente diverso rispetto a qualsiasi album precedente. Siamo andati in studio per un mese senza nulla in mano, e abbiamo passato il tempo a fare quelli che chiamavamo i ‘Nothing’, cioè delle semplici idee che buttavamo giù in maniera più che grezza. Potevano essere solo un paio di accordi, oppure l’idea di un ritmo, o altro ancora. Tutto veniva semplicemente buttato giù così com’era e poi lo esaminavamo. ‘Echoes’ venne fuori da quel lavoro, così come ‘Fearless’ e ‘One Of These Days’”.
Ogni componente del gruppo incise separatamente idee ed esperimenti, guizzi di fantasia estemporanei e bozze da sviluppare: con una progressiva scrematura si giunse da trentasei accenni musicali (e non) a poco più di una ventina, numerati ed etichettati come “Nothing 1-24”.
Gilmour: “Certe idee erano davvero stupide e assurde ma le buttammo giù lo stesso solo per ridere. Sceglievamo una tonalità per un pezzo, registravamo, poi ce ne andavamo e chi entrava aveva come unica indicazione la tonalità. Registrava anche lui sullo stesso nastro senza avere ascoltato quel che gli altri avevano suonato”. John Leckie: “Registravano tantissime piccole idee. Le chiamavano ‘Nothing 1’, ‘Nothing 2’ e così via, fino, mi pare, alla numero 36. Potevano essere dei riff o degli strani rumori, oppure suoni con il piano registrati dal Leslie. Il lavoro delle prime due settimane consisteva nel prendere quei piccoli spunti e metterli in ordine; la maggior parte finì in ‘Echoes’”.Con un certosino lavoro di intelaiatura, i frammenti andarono a creare un nuovo brano capace di occupare l’intero lato del nuovo disco; a fine marzo la suite poteva dirsi assemblata, per quanto in forma non ancora definita. I Pink Floyd rodarono il brano dal vivo con il titolo provvisorio di “The Return Of The Son Of Nothing”, apportando le necessarie modifiche in previsione delle incisioni de!nitive in studio. Il resto del disco era costituito da pezzi “normali”, come avvenuto in “Atom heart mother”; questa volta però si decise di occupare il lato B con la suite e il lato A con le canzoni.
Strani giorni: Premio Apollo Dionisiaco 2021
Ettore Fobo segnala, sul suo blog, la poesia Lode a ciò che annunciano i venti, premiata con Riconoscimento al Merito Speciale dalla Giuria al Premio internazionale di poesia e arte contemporanea “Apollo Dionisiaco”:
Dove la musica respira di abbandono ed irradia
dal fondo della fugacità e dal fondo dell’attimo
lo splendore perduto di qualcosa di perpetuo
quando la voce dell’idolo esplora i silenzi
e il pensiero è un’energia che consacra
al divampare e allo scorrere e muta
ogni precipizio in fontana perenne
e ogni melodia insegna a fiorire
all’abisso che trema di una danza antica.
Qui si fondono i secoli nel crogiuolo
e il verso scolpito fugge dall’icona
e torna a sentirsi, anche nel pieno del naufragio,
questa felicità bambina che consente
ogni segreto, ogni deserto, ogni rivolta.
Così, nell’amnio del non detto errano
galassie che sfidano Dio e la sua parola
e noi che siamo eco e frammento di questo
naufraghiamo in ciò che precede ogni sfarzo
nel luogo dove la luce sboccia dal silenzio.
La profondità del verso di Ettore è sublime, e lascia vibrare le corde sul filo emotivo ed empatico delle parole, come un degno poeta deve saper fare; i miei complimenti a chi sa davvero navigare verso le altitudini dell’arte, e dell’espressione.
Pink Floyd, i 50 anni di “Meddle”: la storia di “Echoes” (4) – Rockol
Quarta parte su RockOl – qui la 1, la 2 e la 3 – della celebrazione del brano Echoes dei Floyd, uscito nel disco Meddle esattamente mezzo secolo fa. Vi lascio alle considerazioni espresse qui sotto:
Il mixaggio della canzone fu completato il 27 agosto 1971: sui nastri master di Abbey Road il titolo era ancora indicato come “The Return Of The Son Of Nothing” ed erano scritte anche le varie sezioni strumentali denominate “Bubble Bee Section”, “Train Section”, “Gull Sounds” (chitarra) e “Rooks Fx, Bumble Bee Bass” e infine “Organ Drone”. Fra le trovate più fruttuose svetta la registrazione al contrario della batteria iniziale, una tecnica che proveniva direttamente dal repertorio in studio dei Beatles. “Echoes” entrò di diritto nelle scalette dal vivo dei Pink Floyd fino al 1975.
In alcune occasioni Roger Waters si divertì a presentare la suite con titoli diversi, per gustare la reazione del pubblico quando avrebbe riconosciuto il “ping” di apertura: a Böblingen il 15 novembre 1972 il brano fu presentato come “Looking Through The Knotholes In Granny’s Wooden Leg”, mentre a Francoforte il 16 novembre 1972 fu chiamato “The March Of The Dambastards”. Il programma dei concerti al Rainbow Theatre di Londra del 1972 indica che Waters avrebbe voluto usare il titolo “We Won The Double”, in onore della squadra calcistica dell’Arsenal (di cui il bassista è acceso sostenitore), per la prima volta vincitrice di Campionato e Coppa di Inghilterra nella medesima stagione, 1970-1971.
Novità anche dal lato strumentale: nelle tournée del 1974-1975 la suite fu addolcita dalla presenza di Dick Parry al sax e dalle voci delle coriste. Poi un lungo vuoto sino al 1987, quando i Floyd senza Waters riproposero la traccia in una manciata di concerti nelle prime date americane del tour di “A momentary lapse of reason”. Le ultime esecuzioni del brano risalgono all’”On an island tour” di David Gilmour del 2006: l’emozionante duetto vocale e musicale con Richard Wright è forse la più bella performance del tastierista prima della sua prematura scomparsa.