Archivio per novembre 27, 2021
27 novembre 2021 alle 21:37 · Filed under Accadimenti, Catarsi, Commerciali, Creatività, Cultura, Cybergoth, Editoria, Empatia, Energia, Experimental, Fantastico, InnerSpace, Inumano, Notizie, Oscurità, OuterSpace, Quantsgoth, Surrealtà and tagged: Arnaldo Pontis, BandCamp, Impero Connettivo, Independent Legions, Krell, Ksenja Laginja, Lukha B. Kremo, Magnetica Ars Lab, Molotov Magazine, Produco, Stefano Bertoli
Novità per la pagina HyperHouse su BandCamp: è disponibile il CD della produzione musicale di Stefano Bertoli, Lukha B. Kremo (Krell) e Arnaldo Pontis (Magnetica Ars Lab), ispirati dalle dinamiche sfuggenti dell’Impero Connettivo.
Scaricare digitalmente l’intero album equivale a un’azione monetaria illusoria di 5€; un brano singolo digitale è quotato 0,99€ mentre l’ordine del CD equivale a 7€ (spese spedizione per l’Italia comprese), mentre per il resto del mondo si va dai 9 ai 10€, sempre spese spedizione comprese.
Schegge di ossidiana – Fiabe dall’Impero Connettivo è un progetto di musicalizzazione dell’Impero Connettivo, uno Stato a metà strada tra il weird e la SF che, come l’Impero Romano, si espande sullo spazio, ma anche sul tempo. A capo dell’ecumene di postumani c’è un imperatore nephilim, la moneta corrente è l’informazione.
L’album trae ispirazione dalla saga imperiale che ho ideato, composta da decine di racconti e circa dieci romanzi; in particolare si fa riferimento al racconto “Tre colonne di ossidiana” reperibile sui numeri 2 e 3 di Molotov Magazine, edito da Independent Legions.
Parole e voci su “Flaminae suit” mie e di Ksenja Laginja. Cover di Ksenja Laginja.
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27 novembre 2021 alle 17:37 · Filed under Cognizioni, Cultura, Passato, Sociale, Storia and tagged: Amedeo Feniello, Clima, Interrogazioni sul reale, Liberismo
Su L’Indiscreto un interessante articolo di Amedeo Feniello che parla di variazioni climatiche e le mette in corrispondenza col nostro presente. L’incipit (pensiero personale correlato, non esplicitato nell’articolo: attenti al business verde):
Alla fine del Duecento, l’optimum climatico medievale chiude la sua corsa. Era durato più di tre secoli ma, ora, adesso, si fa cattivo. I fenomeni di shock climatico si accumulano e l’eccezionalità si trasforma ben presto in consuetudine, che fa virare il termometro verso il basso. I segni che l’optimum fosse giunto al termine si moltiplicano. Le cause? Tante. Variabili. I fattori si mescolano in una trama di cui è difficile seguire tutti i capi. Però, a differenza di oggi, la forza dell’azione dell’uomo su queste variabili fu irrilevante. Le oscillazioni naturali discontinue e capricciose. I vulcani tornano a ruggire, con un’eruzione tra le più violente dell’intero scorso millennio, quella del 1257 del vulcano Samalas, nell’isola di Lombok in Indonesia; ma altre ve ne furono nel 1269, ’76, ’86: fenomeni che impattano violentemente sull’ambiente e innescano effetti imprevisti sia di riscaldamento nelle acque del Pacifico centromeridionale e orientale, con enormi inondazioni in Perù, sia di rilascio negli strati più alti dell’atmosfera di una pellicola sottilissima di solfati di aerosol che scherma i raggi solari, impedendo loro di entrare nell’atmosfera.
Poi c’è il Sole. Una stella capricciosa e poco costante. Il ciclo delle macchie solari è solo una delle sue tante bizzarrie. Proprio alla fine del Duecento il sole si ammala un po’. È il cosiddetto Wolf Solar Minimum, cioè l’energia emessa dalla pila solare rallenta: uno dei tre minima che marcano il periodo che va dal Trecento al Seicento. E succede qualcosa di inarrestabile: «lentamente ma ineluttabilmente le temperature globali e dell’emisfero settentrionale hanno iniziato a tendere nuovamente verso il basso e, così facendo, i modelli di circolazione globale cominciano ad allontanarsi dai livelli raggiunti nel 1240 e 1250».
Non bastano però questi aspetti per spiegare il mutamento. Entrano in gioco due movimenti fondamentali nella circolazione climatica del nostro Pianeta. Sono El Niño e La Niña. Strani nomi. Essi nascono da una pura e semplice osservazione, registrata la prima volta dai pescatori peruviani, i quali notarono che i pesci d’acqua calda tendevano a soppiantare quelli d’acqua fredda al largo della costa del Perù intorno a Natale, da cui il soprannome El Niño, il Cristo bambino. Naturalmente, per indicare il fenomeno parallelo, si usò il corrispettivo femminile: La Niña. Cosa sono? Giganteschi fenomeni di teleconnessione atmosferica in cui l’azione degli oceani si coniuga con quella dell’atmosfera. In genere, El Niño provoca un forte riscaldamento delle acque dell’oceano Pacifico centro-meridionale e orientale nei mesi di dicembre e gennaio, in media ogni cinque anni. Con conseguenze “glocali”, mi si passi il termine, se si pensa che, se nelle aree direttamente interessate provoca inondazioni, in quelle più lontane la sua azione produce vaste perturbazioni, tra cui l’aumento della siccità. La Niña no. Ha l’effetto inverso. Raffredda invece di riscaldare, sempre nelle stesse acque. Entrambi, El Niño e La Niña, innescano una strana danza, fatta di accoppiamenti, riequilibri reciproci, scambi. Con risultati che si riflettono sulla pressione atmosferica del Pacifico: quando c’è El Niño essa è alta; quando La Niña, bassa. Cosa succede alla fine del Duecento? Che una volta che l’emisfero Nord inizia a raffreddarsi comincia ad avere delle ricadute sui cicli del Niño e della Niña con conseguenze letali sul clima del Pianeta e sull’azione dei monsoni, perché l’oceano Indiano e quello Atlantico erano – e sono – legati da connessioni basilari e di lunga distanza. Con mille conseguenze che coinvolgono, ancor di più, natura e uomo in una stessa catena di pericoli, difficoltà, adattamenti, riconversioni. Uno scenario climatico che muta in rapidi decenni. Una delle testimonianze più affidabili? La larghezza media degli anelli degli alberi di tutta la fascia del Pianeta, dall’Asia all’Europa, che si riduce drammaticamente, un segno sicuro che le condizioni ambientali stanno cambiando e in peggio. Un fenomeno evidente dappertutto: in Siberia, in Mongolia, in Tibet, in Cambogia, in Europa.
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27 novembre 2021 alle 15:29 · Filed under Cybergoth, Empatia, Energia, Experimental, InnerSpace, OuterSpace, Reading, Surrealtà and tagged: Language, Olosensorialità, Paradigma olografico, Teoremi incalcolabili
Il colore delle parole è olografico, o almeno dovrebbe esserlo, è per il loro non esserlo che non ci capiamo.
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27 novembre 2021 alle 13:26 · Filed under Creatività, Empatia, InnerSpace, Tersicore and tagged: Ambient, Anushka Chkheidze, BandCamp, Eto Gelashvili, Folk, Jan Beutel, Lillevan, Lippok, Matthias Meyer, Samuel Weber
[Letto su Neural]
Un viaggio condiviso fra le gelide montagne del Grande Caucaso georgiano, compiuto da artisti provenienti da Armenia, Germania e dalla Georgia stessa. Questo il presupposto di Glacier Music II, uscita particolarmente accurata che si deve alla Establishment Records, grazie anche ad un interessante libro in allegato, in copertina morbida e di alta qualità, stampato in Lettonia con carta ed inchiostri ecosostenibili. Nel libro sono presentate alcune conversazioni con gli artisti, nonché altre testimonianze raccolte durante il tragitto, impressioni degli scenari esperiti e testi integrali e traduzioni delle parti cantate. Nei territori attraversati le tradizioni musicali non differiscono in maniera netta e – pur rappresentando in maniera specifica ognuno di quei luoghi – danno vita a una rete di connessioni alquanto delicata e complessa. L’ispirazione stilistica è dunque varia, oltre che supportata dai talenti decisamente multiformi degli artisti che hanno partecipato al progetto, un’iniziativa voluta dal locale Goethe-Institut. L’esorbitante bellezza di questa regione montagnosa è riflessa gentilmente negli incastri pianistici di Anushka Chkheidze, assai dettagliati e intimi, così come alquanto stilizzati sono anche gli interventi vocali di Eto Gelashvili e l’elettronica di Lippok. Glacier Music II, a cinque anni di distanza dalla precedente prova, è anche un’esplicita testimonianza sugli effetti del cambiamento climatico, con riflessioni molto dettagliate e puntuali che di conseguenza fanno capolino anche nel libro sopra citato. Sono le registrazioni sonore su un ghiacciaio del Kazakistan, già ridotto a solo un terzo delle sue dimensioni originarie, a porre però indirettamente questioni sulla crisi climatica in atto, ed il tutto è ulteriormente sottolineato dagli interventi audio-video di Lippok e Lillevan, così come in una delle tracce confluisce anche materiale sonoro del gruppo Sounds of Matterhorn, composto da Matthias Meyer, Samuel Weber e Jan Beutel. I brani sono realizzati in differenti combinazioni e questo, unito ad un generale rimescolamento fra pratiche sonore contemporanee e musica tradizionale, rende l’ascolto sempre mutevole, dalle coloriture folcloristiche ma anche sperimentale e melanconico. Se ancora gli artisti possono mettere in discussione la nostra percezione su questioni così importanti, questa è la maniera giusta per promuovere un dialogo e sensibilizzare anche il pubblico della sound art sul deterioramento del pianeta, sui cambiamenti climatici e sui problemi ambientali.
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