HyperHouse

NeXT Hyper Obscure

Archivio per gennaio 8, 2023

Christian Death – Superficie 213, Capezzano Pianore, Camaiore, Italy, 4 feb 1990


Stralci – bellissimi, una devastazione psichica di nero appiccicoso – che sorgono dalle ombre dei miei ricordi, risvegliati dopo un oblio lungo trentatré anni. Adesso ricordo bene lo stupendo perché.

La perdita della presenza – Carmilla on line


Su CarmillaOnLine un interessante articolo di Gioacchino Toni che recensisce Contro Metaverso. Salvare la presenza, di Eugenio Mazzarella, saggio uscito per Mimesis. La recensione, come capirete, è il mezzo e il pretesto per parlare della continua rapina dei dati che, interpolati, costruiscono la gabbia che da digitale diviene fisica; grazie, anche, ai progetti elencati dall’autore:

Dal momento che «la dimensione vitale, relazionale, sociale e comunicativa, lavorativa ed economica, è vista, agita e proposta come frutto di una continua interazione tra realtà materiale e analogica e la realtà virtuale e interattiva», l’autore si chiede se «in nome delle “magnifiche sorti e progressive” della realtà virtuale, della realtà aumentata […] gestita dagli algoritmi dell’intelligenza artificiale», non si stia sradicando la vita dell’essere umano, il suo «esserci, dall’essere-nel mondo di presenza fin qui abitato, promettendo un ampliamento degli spazi “vitali” accessibili all’esperienza individuale» (pp. 11 e 15).

Nel corso di una conferenza tenutasi il 28 ottobre del 2021, Mark Zuckerberg ha annunciato l’intenzione di voler superare il social network da lui creato costruendo un ambiente capace di fondere offline e online. Nonostante il progetto Metaverso sia stato presentato come novità volta a sostituirsi all’esistente, in esso è forse piuttosto individuabile uno sviluppo di un processo di ibridazione tra online e offline in corso da tempo e che sarebbe semplicistico ridurre ad aggiornamento del sistema di produzione-consumo pianificato a tavolino da qualche diabolica corporation, affondando le radici in una serie di innovazioni tecnologico-comunicative – dalle pretese ontologiche foto-cinematografiche, passando dalla televisione per poi giungere alla svolta digitale che, con i suoi sviluppi interattivi, plasma la contemporaneità – non per forza di cose progettate da qualche Grande Fratello ma, piuttosto, abilmente sfruttate e indirizzate a scopi profittevoli.
Rivoluzione o evoluzione che sia, sarebbe, dunque, riduttivo vedere nel progetto Metaverso una mera trovata commerciale, visto che, almeno nelle intenzioni di chi lo ha presentato, per quanto fumosamente, sembrerebbe piuttosto ambire a diventare una sorta di «“sistema operativo” delle nostre vite e della nostra società» (p. 17) risultando ben più invasivo di quanto le tecnologie siano sin qua state.

“A quale ansia da “prestazione”, se vuole essere all’altezza di questo “mondo” digitale, sarà sospinto [l’essere umano] che conosciamo […]? Per tacere della già classica domanda nietzscheana strutturante il nostro rapporto con il passato, su quanta memoria, nei termini dell’onlife, della realtà ri-ontologizzata dal digitale, dalle ICT (cioè su quanti data, ovvero informazioni già date, quante tracce mnestico-cognitive magari affluenti in tempo reale, quello di una digitazione informativa) sia in sé capace di reggere l’hardware psico-biologico umano conosciuto; quello almeno che l’evoluzione fin qui ci ha consegnato nelle mani. Dietro una tale, inedita promesse de bonheur sembra celarsi una pulsione neo-gnostica (tecno-gnostica) che è vero e proprio disprezzo per il corpo, odio per la carne (p. 21)”.

Secondo lo studioso risulta quanto mai importante riflettere sul processo di dismissione del reale, sul transito nell’onlife innescato dai più tradizionali social web, con le sempre più evidenti degenerazioni in termini di alienazione sociale, esistenziale e percettiva «in obbedienza a un esse est percipi ormai declinato sempre più grazie al web in senso mediale-passivo come un essere percepiti che rimbalza e costruisce non solo il nostro percepire ma il nostro stesso percepirci. Il web essendo per comune ammissione la più potente tecnologia di manipolazione del sé sociale – individuale e collettivo – che si sia mai conosciuta» (p. 25).

“Un passaggio epocale che riguarda il modo in cui l’esserci umano ci-è a sé stesso, agli altri e al mondo, e cioè vincolato alla realtà come presenza di sé e delle cose; un modo sempre più sospinto nella presenza atona del digitale intesa come virtualità, che non è irrealtà ineffettuale, bensì una potenza, una forza, una virtus, estranea al qualcosa in cui si mette in atto […]. Virtus che quindi, implementando questo qualcosa, ne muta la natura, l’essenza nelle sue potenzialità, facendo del qualcosa implementato, quando non lo annichili in un’altra cosa, una protesi della sua autoattuazione come realtà. Che è lo scenario di rischio di quel qualcosa che siamo noi, il qualcuno. […]
È difficile pensare che una virtualità così invasiva del nostro esserci quotidiano possa essere gestita con la riserva mentale autoconsolatoria che possiamo sempre premere il pulsante dell’on/off in modo reversibile, riassorbendo i tempi brevi dell’esposizione del nostro sistema, della nostra “energia iniziale”, alle particelle virtuali che noi stessi avremo generato, per altro immaginando un’AI che possa anche generarle autonomamente.
È questo l’orizzonte di rischio antropologico che in un mondo intramato di reti artificiali e di AI abbiamo davanti. Con in aggiunta un altro potente strumento di disabilitazione della presenza come “presenza a noi stessi” in capo alla padronanza di noi come abilità innanzi tutto deliberativa e morale; e cioè le neuroscienze, già attrezzate a venire in soccorso dello stress di questa distopia dell’umano nell’universo digitale, di questa dislocazione dalla presenza finora abitata dal nostro esser-ci. A stupefarci con una farmacologia che da riparativa si propone da tempo ampiamente come possibilità di riprogrammare la stessa psichicità umana (pp. 109-112)”.

Hearthling (feat. Lili Refrain)


…quando poi le immagini sfocate collassano nella visione nitida tra le probabilità, il senso di un nero evento si spiega cristallino e tagliente – sinestetico in te.

SYD BARRETT: “HERE I GO” – LA STORIA DIETRO LA CANZONE | PINK FLOYD ITALIA


Su PinkFloydItalia i retroscena di una delle song meno conosciute di Syd Barrett: Here I Go. Lascio al post le spiegazioni e rivelazioni nel dettaglio, che mostrano ancora più nel dettaglio cos’era Syd – sotto, il brano remixato da Gilmour con l’aggiunta del basso.

In occasione del compleanno di Syd Barrett, il sito ufficiale ha pubblicato la storia di una delle canzoni più belle di Syd, “Here I Go“, in cui si svelano anche diversi retroscena. A scriverli, è Lee Harris, chitarrista e cofondatore dei “Saucerful Of Secrets” di Nick Mason. Per celebrare questo giorno speciale abbiamo un’esclusiva “storia dietro la canzone”, scritta da Lee Harris – fondatore e chitarrista dei “Nick Masons Saucerful of Secrets”.
Scrivendo di ‘Here I Go’, Lee ha scoperto alcune vere e proprie rivelazioni sulla registrazione della canzone. Anche David Gilmour ha contribuito a questa scoperta.
Godetevi questo articolo e condividetelo per far sì che altri si divertano e ascoltino la canzone!

“Here I Go” è contenuta nell’album The Madcap Laughs e fu registrata il 17 aprile 1969 ad Abbey Road nello Studio 2. Secondo il compianto Malcolm Jones, che produsse la canzone, Syd ci mise “una manciata di minuti” a scriverla.
Tuttavia, Joe Boyd ricorda di aver sentito la canzone su un nastro demo nel 1967 e che originariamente si chiamava “Boon Tune” – la frase “what a boon this tune” è infatti parte del testo. Boyd stava producendo una band chiamata ‘The Purple Gang’ nello stesso periodo in cui lavorava con i Pink Floyd su “Arnold Layne”. Syd aveva proposto “Boon Tune” a Joe Boyd e ai ‘Purple Gang’ come loro prossimo singolo, ma la loro casa discografica non era d’accordo con il coinvolgimento di altri autori/editori, così l’idea fu accantonata – anche se ne pubblicarono una versione molti anni dopo.
Il fatto che la canzone fosse già stata scritta almeno due anni prima di essere registrata spiega probabilmente perché Jones presumeva che ci fossero voluti pochi minuti per scriverla. Credo che quei minuti siano serviti a Syd per ripassarla a mente per ricordarsela.
Malcolm Jones ha anche detto che Syd aveva quasi sempre con sé i testi su un supporto, in caso di occasionali vuoti di memoria. Questa è stata l’unica volta in cui ricordo che non aveva alcun foglio di testo”. Forse ha anche cambiato qualcosa, ma non lo sapremo mai perché il nastro demo non esiste più.
Mentre scrivevo questo pezzo, ho contattato il batterista Willie Wilson, accreditato come bassista della canzone. Willie viene da Cambridge e suonava nei Jokers Wild, la band in cui militava David Gilmour prima dei Pink Floyd (in seguito avrebbe suonato la batteria insieme a Nick Mason nel tour di “The Wall”). Willie mi ha raccontato di non aver conosciuto Syd quando era piccolo, ma di averlo conosciuto quando ogni tanto si alzava e suonava ai concerti dei Jokers Wild. La band finì addirittura per suonare nello stesso cartellone dei Floyd, che erano ancora noti come ‘The Tea Set’, insieme a un allora sconosciuto Paul Simon, alla festa di un amico nel 1965.
Nel 1969, mentre si trovava nell’appartamento di David Gilmour a Earls Court, Syd chiese a Willie di andare a Abbey Road per registrare con lui qualche giorno dopo.
Risulta che le note di copertina dell’album e, successivamente, vari libri attribuiscono i crediti in modo errato. In realtà è Willie a suonare la batteria e non Jerry Shirley (famoso batterista degli Humble Pie) e non c’è alcun basso nel brano. Questo è probabilmente ovvio all’ascolto, ma le note di copertina dichiarano il contrario.
Willie – “Dopo che abbiamo registrato due o tre brani, è stato suggerito che il basso avrebbe potuto suonare bene su di esso. Non c’era nessun bassista, ma Jerry, con cui condividevo l’appartamento e che era venuto con me per il viaggio, disse che avrebbe potuto fare un tentativo. Non so da dove provenisse il basso, ma era Abbey Road, con molti ‘armadietti per le attrezzature’. Jerry ha avuto difficoltà a suonare sul brano perché c’erano solo batteria e chitarra, Syd non suonava gli stessi accordi in ogni strofa e inoltre Jerry non era un bassista”.

Rojinski – A Dead Civilization Under The Ice


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