Un’enciclopedia su PinkFloyd @ Pompeii, è tutto ciò l’articolo che vi segnalo e che tratteggia così tanti dettagli legati alla pellicola, ai Floyd, al mondo vorticoso e sognante di quegli anni, di quel mezzo secolo fa che sembrano secoli, un altro universo, qualcosa d’irripetibile. Uno stralcio:
Perfezionisti come loro costume, i Floyd volevano usufruire della migliore tecnologia, e dunque fecero trasferire a Pompei – tre giorni di viaggio in camion da Londra – tutto l’apparato usato nelle esibizioni live. In più un registratore a 16 piste secondo Maben (un osannato magazine straniero nella italica edizione afferma essere state 24, mentre Wikipedia parla di 8 tracce e ha ragione: lo conferma David Gilmour nelle battute iniziali di David Gilmour Live At Pompeii) ritenuto sufficiente per cogliere al meglio, data la eccellente resa acustica dell’anfiteatro, la qualità del suono sprigionato dalla band. Perché l’idea era di trarne non solo un documentario ma anche il disco.
In un paese governato dalla burocrazia, in un tempo determinato da istituzioni ingolfate laddove non incagliate del tutto, ottenere il permesso per insediare una band di capelloni all’interno di un gioiello storico ma fragile come l’anfiteatro pompeiano sarebbe stato compito improbo, se non addirittura chimerico. Il veloce dipanarsi della matassa fu merito di una fortuita combinazione tra sorte favorevole e il caposaldo del catalogo “usi e costumi di un paese, l’Italia”: le amicizie. Aggirandosi per studiare la location, Maben si imbatté in un professore dell’Università di Napoli, tale Carputi ringraziato sui titoli di coda, che non solo si rivelò fan dei Pink Floyd, ma anche la persona giusta per ottenere i permessi necessari presso la Soprintendenza dei Beni Culturali di Napoli. Per girare furono concessi sei giorni; non prima però di avere pagato il biglietto di entrata per chiunque avesse oltrepassato i cancelli: siete i Pink Floyd e vabbè un occhio si chiude; ma ccà nisciuno è fesso, “mo’ cacciare la grana, please”.
E qui mi preme fare chiarezza. Su altri siti e differenti giornali troverete che i giorni concessi ai Pink Floyd per girare a Pompei sono stati quattro, dal 4 al 7 ottobre 1971. Fonte: Nick Mason che era là e parla per mezzo del libro scritto di suo pugno Inside Out. Ma anche Adrian Maben era là. E lui assicura che si è trattato di 6 giorni, secondo le parole rilasciate a Brain Damage, poderoso sito dedicato ai Pink Floyd, nell’anno domini 2003. Ora, a chi dare retta? Quei giorni, 4 o 6, costituiscono il momento cardine, unico verrebbe da dire, della carriera di Maben, del quale lo scozzese dovrebbe di conseguenza ricordare ogni singolo fotogramma di girato e, metaforicamente parlando, non.
Nick Mason di certo ne ha viste e fatte di gran lunga di più. Al punto da scriverci un libro di quasi 400 pagine e stringere poiché sulla fantasmagorica vita dei Floyd si potrebbe facilmente riempirne il doppio: in quel mare magnum di accadimenti qualche particolare potrebbe fluttuare indistinto. Ognuno si faccia la sua idea e decida. Ma come disse l’eroico Amatore Sciesa, o Antonio Sciesa, a proposito di fonti discordanti, “Tiremm innanz!”.Apparentemente privo di qualunque presenza oltre i coinvolti nel lavoro, in realtà nei dintorni c’erano dei “portoghesi”. Una decina di bambini che se ne stavano buoni in un angolo, guardando senza infastidire, e di tanto in tanto chiedevano un autografo, non importava fosse un membro della band, il manager Steven O’Rourke, un tecnico o un roadie. Trent’anni dopo, tornando sul luogo per girare altre sequenze da aggiungere alla oramai immancabile versione Director’s Cut, e alla ricerca di nuovi permessi, Maben ebbe una sorpresa che neppure un uomo di cinema come lui avrebbe potuto immaginare. Sentite cosa dice: “Mi ritrovai nel Centro informazioni dell’Autorità turistica. Il direttore, un uomo ben vestito sulla trentina, mi riconobbe subito e mi disse: ‘Che strano rivederla qui. Ero uno dei bambini che hanno assistito alla realizzazione del film nel 1971! Cosa posso fare per aiutarla?’”. Ed ecco come ottenne senza ostacoli il permesso per sorvolare in elicottero Pompei: sono (ancora) le amicizie, bellezza.
Si gira in loco. Echoes part I che inizia coi roadie nell’atto di allestire amplificatori e strumentazione all’interno dell’anfiteatro, e la band che in pieno giorno, Gilmour e Wright a gladiatorio torso nudo, innesca sulla suite che viene lasciata in sospeso. Si interrompe dopo 15’ circa. E si gira al largo. Perché nella pellicola il brano che segue è Careful With That Axe Eugene, filmata indoor nello Studio Europasonor di Parigi dove la band si trasferì dal 13 al 20 dicembre finito il soggiorno campano. Rispetto agli spazi e al lignaggio di Pompei si precipita in un claustrofobico baratro fievolmente punteggiato da stranianti fari a luce fissa che offrono (dovrebbero?) la vaga idea di corpi celesti sullo sfondo dell’universo profondo: due mondi completamente diversi. Da 21’ 30” circa inizia A Saucerful Of Secrets che si distende fino a 31’, tra Pompei e improvvidi innesti provenienti da Parigi.
La visione di David Gilmour seduto come un indiano americano, a piedi nudi nella polvere o su un tappeto improvvisato, che spreme la Stratocaster nera; Roger Waters che ingaggia uno scontro fisico con il mostruoso gong; Richard Wright che salta dall’organo per aggredire furiosamente il pianoforte; Nick Mason che col vento tra i capelli ricordato nel suo libro non ha mai suonato meglio, sono emozionanti. A tratti esaltanti.
“The echo of a distant time / Comes willowing across the sand” cantano David Gilmour e Richard Wright all’unisono. Quel vento, quella sabbia, quel tempo lontano che aleggia come una malia su Pompei, nella caverna degli Eupasonor non ci sono. La polvere magica che piove dall’alto e dota il meglio di Live At Pompey di riflessi dorati è costituita dall’impasto di Pink Floyd, la loro musica, e Pompei. Il materiale di Parigi è il trailer di un altro film; un intervallo (molteplice) come usava in quegli anni tra un tempo e l’altro, utile per recarsi al bar del cinema a comprare una bibita. E non sia una attenuante sul giudizio complessivo la insufficiente quantità di girato. Se organizzi una partita di calcio e convochi 9 giocatori è difficile che porti a casa un risultato positivo. Maben ha dei meriti così come delle responsabilità – pasticci organizzativi già discussi, regia claudicante – che sono alla base del parziale fallimento o – se siete quelli dal bicchiere mezzo pieno – parziale riuscita di Pink Floyd: Live At Pompei. Che comprende – la riuscita – l’ultimissima inquadratura, quando la telecamera zooma all’indietro e la sagoma di un ombrellone azzurro si staglia nella parte inferiore destra dell’anfiteatro. Pare il presagio del documentario che Maben avrebbe realizzato molti anni dopo su quel gran genio pittorico di Renè Magritte. C’è un secondo ombrellone, in alto a sinistra nell’inquadratura, ma più la telecamera si allontana più il riparo sotto al quale si trova una persona tende a confondersi col grigiore che domina tutta la scena, e lentamente a scomparire. L’altro, una piccola oasi azzurra sospesa, sorprendente, coglie l’occhio e non smette di incuriosire. Ha i contorni del disco volante sospeso, di passaggio, richiamato dalle musiche di un altro mondo, anche per i terrestri in verità, che uscivano dagli strumenti dei Pink Floyd; in quegli istanti di fade-out di Echoes part II, dolcissime. Struggenti come le tenerezze che si scambiano gli amanti, quelli che si amano davvero, alla fine un incontro amoroso. Struggenti come i frammenti del ricordo di Pink Floyd: Live At Pompeii visto la prima volta al cinema. Quando l’età dell’innocenza ti faceva cogliere solo ciò che voleva il cuore.
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