Su StoriaInRete una segnalazione assai interessante riguardo Roma prima di Roma, saggio storico di Gianluca De Sanctis mirabilmente stilizzato dall’articolo; un estratto:
Come avverte l’autore nella premessa, per i Romani esiste un rapporto organico tra i racconti della fondazione (e anche i relativi miti) e i luoghi in cui essa è avvenuta. «I luoghi diventano dei “ponti” tra il tempo del mito, nel quale l’evento è accaduto, e quello della storia nel quale si chiede all’evento di restare». L’evento mitico acquista così una presenza nella storia nel suo continuo e concreto svolgersi, diventa la continuità tra passato e futuro, «ma anche il nesso profondo tra memoria e “identità”».
L’identità, applicata al nostro tema, va spiegata, perché i Romani non avevano questa parola e, osserva De Sanctis, se avessero dovuto esprimerla forse avrebbero utilizzato il termine Roma, nel quale si riassumevano sia la città fisica che i suoi valori morali, politici e culturali, quei valori che avevano imposto a gran parte del mondo conosciuto l’Imperium, sintesi di potere, comando e territorio controllato e amministrato. Un potere che non significava esclusione delle popolazioni vinte, che anzi potevano essere assimilate se accettavano di entrare nell’universo della romanità, insomma se accettavano di farsi romani, con tutto ciò che ne conseguiva sul piano dell’integrazione culturale, politica e dell’osservanza delle leggi. A differenza dei Greci, per i quali l’identità era un fattore etnico, da rivendicare e difendere, per i Romani l’identità era aderenza a valori e modelli, apertura al diverso, che andava escluso quando poteva rappresentare una minaccia proprio a questa apertura. È evidente che lo studio della nascita di una città, e quindi di una civiltà, che per oltre mille anni ha monopolizzato il mondo ha da sempre affascinato gli studiosi che, fino a qualche tempo fa si sono divisi tra due diversi modelli interpretativi: quello della Stadtgrundung (nascita, creazione, fondazione) e quello della Stadtwerdung (urbanizzazione, sviluppo).
Secondo il primo modello la città sarebbe nata dalla fusione dei diversi villaggi che si trovavano sulla riva destra del Tevere, mentre per il secondo modello la città sarebbe stata l’espansione, lo sviluppo appunto, di una delle diverse comunità, in particolare quella che aveva sede sul complesso del Palatino-Velia. Tra i due modelli le differenze erano profonde. Mentre il primo era in qualche modo conciliabile con la tradizione letteraria, sia pure in senso lato, e presupponeva una rivoluzione, ovvero con un vero e proprio atto costitutivo, il secondo disegnava invece una lenta evoluzione e quindi una urbanizzazione progressiva dei diversi villaggi limitrofi. Il dibattito ha conosciuto una svolta in seguito ai risultati degli scavi trentennali alle pendici settentrionali del Palatino da parte del grande archeologo Andrea Carandini, presentati come la prova regina della fondazione di Roma, la «pistola fumante», come la definisce De Sanctis. Ma di che cosa si tratta? Dei resti di una struttura muraria lineare di circa 57 metri risalenti all’VIII secolo a.C., di un bastione quadrangolare agganciato alla parte più orientale e identificato con la porta Mugonia e di quattro sepolture a inumazione che, secondo i ricercatori, potrebbero risalire a sacrifici di carattere espiatorio. Il muro potrebbe essere identificato con quello eretto da Romolo a difesa della città da lui fondata. Naturalmente non sono mancate le riserve e le critiche, ma è innegabile che le scoperte abbiano «rilanciato su nuove basi il dibattito sulle origini di Roma» cercando di conciliare documentazione archeologica e tradizione letteraria: una tradizione sterminata se si pensa che esistono almeno una sessantina di versioni sulla nascita dell’Urbe.
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