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Archivio per marzo, 2023

L’epico “taglio finale” di Roger coi palchi | PostHuman


Su PostHuman la recensione di Mario Gazzola al concerto milanese del 28 marzo di Roger Waters. Vi lascio a Mario, benvolentieri, lui c’era e si è beato di cotanta bellezza…

Prossimo agli 80 anni, facile che questo sia davvero un addio ai palchi; sempre in guerra con Gilmour, di certo non vedremo mai più i tre Floyd superstiti ancora in scena insieme, magari con un Brain One (pardon, Brian Eno!) alle tastiere in luogo del compianto Wright, come sognerei io. Ma Roger è fatto della pasta indistruttibile dei Grandi Antichi del Rock (come Dylan, Jagger, McCartney, Plant, Springsteen): a 79 suonati è ancora in forma e trotta su e giù, a destra e a sinistra del nuovo palco ipertecnologico che è la vera novità spaziale del suo luna park 2023; al centro dell’arena, visibile a 360 gradi dal pubblico che lo circonda, non lascia mai nessuno ‘di spalle’ rispetto alla scena. Quando lui è su un lato a cantare, il megaschermo a croce ce lo rimanda su ogni lato del poliedro spaziale, ripreso dalle videocamere a definizione più che cinematografica, sembra d’avercelo ovunque di fronte, mixato col consueto caleidoscopio psichedelico di filmati, schegge animate di The Wall, cartoon-clip completamente inediti per visualizzare ogni brano della lussureggiante scaletta (che vi riproduciamo completa in calce).

Gazzola snocciola impressioni sui singoli brani proposti dall’ex Floyd, e chiosa la sua esaltante rece con:

Esaltiamoci, sì, perché almeno una volta ci siamo stati (purtroppo, personalmente non ero mai riuscito a vedere in concerto i Pink Floyd finora, né uniti né divisi). Abbiamo visto “navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, (…) raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti NON andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia“. Quando cioè il destino ci toglierà anche i duellanti Waters, Gilmour o il nostalgico e più pacifico Mason, portando il nostro orologio generazionale un passo più vicino alla fine di quell’era dei giganti fondatori della chiesa del rock, la cui grandezza – come forse quella dei divi della Hollywood della golden age – non potrà mai essere eguagliata da alcun epigono.

Grazie Roger, e grazie Mario, l’appuntamento è al prossimo gig floydiano di una delle menti più creative di questo nostro tempo.

Troia brucia dopo una guerra senza fine – Carmilla on line


Su CarmillaOnLine la recensione di Paolo Lago a Troia brucia. Come e perché raccontare l’Ilioupersis, di Alberto Camerotto. Spicca questo brano della rece, che risuona di un’attualità spaventosa, sempre rivolta al presente:

Lo scontro fra Greci e Troiani si trasforma in una guerra senza fine: anche su quella di Troia, all’inizio, aleggia l’illusione di una guerra lampo. E, come molte guerre che, anche nella contemporaneità, si sono protratte per lungo tempo, anch’essa inizia come una grande spedizione della ‘guerra giusta’ per vendicare il rapimento di Elena. La narrazione epica dell’Iliade inizia dall’ira di Achille, al nono anno di scontri, quando ormai la “guerra infinita” è diventata il paradigma e il segno dell’identità, e “nella celebrazione se ne dimentica il significato reale, si dimenticano i morti e le sofferenze, quelle più semplici, quotidiane, tremende, proprio mentre ne costruiamo la memoria”. Ecco che gli anni devono essere dieci, un numero dal valore simbolico. I morti si aggiungono ai morti perché “quando si comincia una guerra non si può più tornare indietro”. Lo stesso potrebbe valere anche ai giorni nostri, in cui gli apparati bellici sono al servizio del capitale e dei suoi interessi: quelle stesse esigenze di carattere economico e strategico si trasformano in valori assoluti, in idee che non è possibile mettere in discussione, dall’una e dall’altra parte, come nel conflitto in Ucraina. Nel racconto della persis di Troia, sia in quello omerico che in quelli di Quinto Smirneo e Trifiodoro, entrambi del III secolo d.C., emerge anche la progressiva consunzione della macchina bellica, come se su tutto cadesse un velo di angosciosa stanchezza e l’intero apparato si stesse lentamente sgretolando. E tale consunzione sembra gravare più sugli oggetti che sulle persone: le navi, le corazze, le frecce, i dardi, gli scudi, gli elmi, gradatamente si trasformano, per utilizzare un’espressione di Francesco Orlando, in “oggetti desueti”, vecchi, consumati dal tempo. In questo caso, sembra che sia la stessa dimensione bellica a consumare, a divorare: è essa stessa divenuta desueta, vecchia, antiquata, imbambolata nella sua assurdità.

Troia è caduta, la sua persis sanguinosa è stata consegnata all’eternità dal canto epico; ma, possiamo chiederci, quante altre Troie oggi stanno bruciando e bruceranno? Quanti altri crimini efferati stanno continuando in svariate parti del mondo? Tante, purtroppo, sono le guerre che ancora si combattono – e tante sono quelle lontane dai riflettori dei media – non volute né dal fato e neppure dagli dei, ma dalla spietata logica del capitale che non guarda in faccia a niente e a nessuno.

La recensione di “Zothique 14 – Speciale Weird Tales” | HorrorMagazine


Su HorrorMagazine la recensione di Cesare Buttaboni a “Zothique 14 – Speciale Weird Tales”, dedicato al centenario della nascita della celebre rivista statunitense; un estratto:

Per l’occasione, Zothique è disponibile sia nella versione con illustrazioni in bianco e nero, molte delle quali raffiguranti le mitiche copertine di Weird Tales, sia in edizione limitata con illustrazioni a colori.
Il fascicolo presenta alcune interessanti testimonianze di scrittori – in particolare quella di August Derleth, geniale editore e fondatore della “Arkham House” insieme a Donald Wandrei, che per primo ha diffuso l’opera di Lovecraft quasi fosse una religione – critici e collezionisti oltre a una serie di racconti inediti.
Senza Weird Tales il genio di H.P. Lovecraft non avrebbe potuto esprimersi. E ancora tanti altri gli autori pubblicati, tra cui veri e propri giganti della letteratura fantastica: Donald Wandrei, Frank Belknap Long, Fritz Leiber, Robert Bloch solo per citarne alcuni, eppure il livello medio della rivista non sempre era entusiasmante. Cosa che venne puntualmente messa in rilievo da Lovecraft.
Fra i vari articoli presenti su questo numero di Zothique, particolarmente interessante è Le storie più popolari di Weird Tales del critico, scrittore e storico della fantascienza americana Sam Moskowitz. Il racconto più popolare di Weird Tales fu La donna del bosco di Abraham Merritt, pubblicato nel 1926. Nel suo articolo, Moskowitz fa notare come, nonostante la qualità della storia fosse buona, il parere soggettivo dell’editore dell’epoca, Farnsworth Wright ebbe il suo peso nella decisione. Per esprimere il suo giudizio, Wright teneva conto dei commenti che gli giungevano tramite le lettere inviate dai lettori.
In questo testo si apprendono molti aneddoti interessanti, come ad esempio l’esistenza del racconto Cosmic Horror di Richard F. Searight, il cui titolo da solo definisce un genere! Si parla poi dell’importanza di una storia come Shambleau di C.L. Moore e dell’enorme impatto che The Outsider di H.P. Lovecraft ebbe sui lettori e sul direttore Farnsworth Right.

Inutile dire che ci troviamo di fronte a un numero di culto che è assolutamente imperdibile per tutti gli amanti del weird classico.

Suijin…


Sulla strada delle definizioni, il senso del reale sfuma.

L’epopea della musica dark italiana in 10 dischi (Pt. 5) | Rolling Stone Italia


Ultima incursione nell’articolo di Fabio Zuffanti apparso su RollingStone: un copioso e bell’articolo sulle realtà dark italiche di circa quarant’anni fa; è un viaggio meraviglioso tra le le band e le sonorità cupe di allora, elementi di rottura – come tutti gli anni ’80 – col decennio precedente. Un secondo estratto, che pesca tra i clips video dei brani o album citati nell’articolo:

Negli anni ’80 le città italiane pullulavano di gioventù nerovestita. Al sabato pomeriggio specialmente, quando scattava la migrazione dalle piccole e medie località verso i capoluoghi, lungo le vie dei centri sciamavano schiere di ragazzi e ragazze dall’aspetto funereo, sfoggianti spolverini e palandrane, accessori mortuari o devozionali, gramaglie assortite, volti diafani e magrezze ulteriormente svettanti grazie a chiome acrobaticamente impalcate. Erano i cosiddetti dark, filiazione all’italiana del movimento che oltremanica veniva denominato goth. E avevano una loro musica.
Come già ricordato, il gothic inglese era imperniato sull’evocazione di malessere esistenziale, malinconia, spleen, nichilismo. Il dark italiano cercava di seguire pedissequamente ciò che accadeva oltremanica, ricalcando paro paro le gesta sonore di Joy Division, Cure o Siouxsie and The Banshees. La differenza la faceva in qualche caso l’uso della lingua italiana e, in generale, una sorta di passione tutta nostrana che andava a scaldare le gelide trame dello stile, oltre a un’atmosfera che a tratti sembra riprendere le pagine più crepuscolari della nostra letteratura. Questi 10 album, nei quali si mette in scena un teatro morboso di ombre e appassionati tormenti, lo confermano.


5. Attivi fin dai primissimi anni ’80, i Weimar Gesang manifestano fin da subito i loro modelli: Joy Division, Bauhaus, Cure, Banshees, con chitarre “liquide” ma serrate e tastiere atmosferiche. Vengono in mente i Sad Lovers and Giant, ma anche i Sound di Adrian Borland o i primi, arcani Echo and The Bunnymen. Ma i Weimar Gesang comprendono anche il crescente peso del clubbing e inquadrano il tutto in una cornice di geometrie danzabili prossime ai New Order e agli exploit commerciali new romantic dei Visage. Un disco dark poco meno che perfetto.

L’invasione psichica


Gli elementi mostrati nel cinema della tua psiche si riverberano in fantasie oniriche, ogni istante si manifesta mutando in parole occulte.

Onasander – Red Hot Harvest


Bit di un disastro psichico grande anni luce.

Void Stasis – Leukopenia


Guardando trasversalmente le diffrazioni quantiche del continuum siderale.

Musica e danza nel mondo romano – TRIBUNUS


Su Tribunus un lungo articolo che indaga i dettami e le suggestioni della danza nel mondo romano antico. Un estratto illuminante, che riporta invariabilmente allo sciamanesimo:

La danza ha da sempre caratterizzato l’esistenza dell’uomo, accompagnandolo nei momenti salienti della vita sociale e religiosa. Il corpo è infatti il primo mezzo che l’uomo ha per esprimersi. Nel mondo antico, la pratica della danza, la quale ovviamente è strettamente connessa alla musica, è legata all’universo, e si riteneva che avesse un’origine divina, come un dono degli dèi agli uomini e il mezzo per accostarsi a loro, poiché il ballo e i suoi ritmi producono uno stato alterato di coscienza, atto a elaborare esperienze mistiche ed estatiche, e stabilire una connessione fra il mondo terreno e quello divino.
I primi ludi scaenici sembrerebbero risalire al 365 a.C., quando a seguito di un’epidemia vennero indetti a Roma per propiziare il favore degli dèi. La fonte a cui si può far riferimento è Tito Livio (Ab Urbe Condita, libro VII, 2), il quale spiega anche la derivazione dall’etrusco del termine ister, istrione: “senza nessun canto, senza gesti tesi a imitare mimicamente il canto, dei ballerini fatti arrivare dall’Etruria, danzano al suono dell’aulos, eseguivano movimenti pieni di grazia secondo il modo etrusco. I giovani cominciarono poi a imitarli, scambiandosi nel contempo motteggi in versi volgari e accordando i movimenti alle parole. La novità piacque e si affermò sempre di più. In seguito agli artisti indigenti, poiché il ballerino era chiamato con parola etrusca ister, fu dato il nome di istrioni”.

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L’epopea della musica dark italiana in 10 dischi (Pt. 4) | Rolling Stone Italia


Quarta incursione nell’articolo di Fabio Zuffanti apparso su RollingStone: un copioso e bell’articolo sulle realtà dark italiche di circa quarant’anni fa; è un viaggio meraviglioso tra le le band e le sonorità cupe di allora, elementi di rottura – come tutti gli anni ’80 – col decennio precedente. Un secondo estratto, che pesca tra i clips video dei brani o album citati nell’articolo:

Negli anni ’80 le città italiane pullulavano di gioventù nerovestita. Al sabato pomeriggio specialmente, quando scattava la migrazione dalle piccole e medie località verso i capoluoghi, lungo le vie dei centri sciamavano schiere di ragazzi e ragazze dall’aspetto funereo, sfoggianti spolverini e palandrane, accessori mortuari o devozionali, gramaglie assortite, volti diafani e magrezze ulteriormente svettanti grazie a chiome acrobaticamente impalcate. Erano i cosiddetti dark, filiazione all’italiana del movimento che oltremanica veniva denominato goth. E avevano una loro musica.
Come già ricordato, il gothic inglese era imperniato sull’evocazione di malessere esistenziale, malinconia, spleen, nichilismo. Il dark italiano cercava di seguire pedissequamente ciò che accadeva oltremanica, ricalcando paro paro le gesta sonore di Joy Division, Cure o Siouxsie and The Banshees. La differenza la faceva in qualche caso l’uso della lingua italiana e, in generale, una sorta di passione tutta nostrana che andava a scaldare le gelide trame dello stile, oltre a un’atmosfera che a tratti sembra riprendere le pagine più crepuscolari della nostra letteratura. Questi 10 album, nei quali si mette in scena un teatro morboso di ombre e appassionati tormenti, lo confermano.


4. Le Masque sono autori di una personalissima via al genere, con testi in italiano, riferimenti alle pagine più tormentate del cantautorato genovese e a certa musica cameristica novecentesca il cui fluire, sospeso e raccolto, precipita l’ascoltatore in suggestivi scorci di inizio secolo. Non mancano riferimenti al ramo colto della wave, dai This Mortal Coil ai Tuxedomoon. Ma ciò che rende imprescindibile il loro esordio è l’assoluta coerenza dei testi, con uno stile potentemente letterario. Il recitato tratto dal poema Un giorno, del crepuscolare Carlo Vallini, adagiato sull’elegante flusso luttuoso, mette subito in chiaro dove si andrà a parare.

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