Su Tribunus un lungo articolo che tratta la foggia e l’evoluzione delle armature romane, da Romolo fino alla caduta di Costantinopoli. Duemila e passa anni di storia bellica vista attraverso le forme di difesa estrema del soldato, rivalutata filosoficamente nel corso dei secoli dalla cultura che ha via via permeato lo Stato romano. L’incipit:
Quando pensiamo alle armature dei soldati romani, il primo pensiero va inevitabilmente alla lorica segmentata, la corazza a piastre metalliche del legionario iconico e, come ripetiamo sempre, spesso molto stereotipato.
Tuttavia, nei loro duemila e più anni di Storia, i Romani hanno in realtà prodotto, acquisito e indossato una gran quantità di tipi di corazze diverse – e la lorica segmentata, a parte non essere stata sempre uguale a se stessa, non è nemmeno la tipologia più utilizzata.
Senza la pretesa di essere esaustivo (sarebbe impossibile parlare, in un solo articolo, di tutte le fonti disponibili sul tema), con questo articolo vedremo una panoramica delle principali tipologie di armature indossate dai soldati romani nel corso dei secoli, dalla fondazione di Roma alla caduta di Costantinopoli.
“La speranza è una questione politica. Se pensi di poter cambiare le cose speri, e questo ti porta a sinistra. Se non credi nella tua forza, sei cinico, disperato, allora passi alla destra”.
Per Loach la destra italiana “ha seguito lo stesso corso, forse in modo più estremo, del resto dell’Europa. Le persone che sostengono la destra sono le stesse che ti sfruttano sul posto di lavoro. Conosci i tuoi nemici. Le persone che ti chiedono di lavorare con stipendi da fame e senza previdenza sono quelli che promuovono i partiti perché dividano la gente. Le persone che dicono ‘rispettiamo l’umanità di tutti’ saranno quelle che ti difenderanno quando sarai attaccato. Basta guardare indietro nella storia. Chi ha sostenuto il fascismo e il nazismo in Spagna e Germania erano le grandi imprese, la vecchia aristocrazia. Non erano lì a sostenere la classe operaia. Hanno sostenuto il fascismo perché avevano molta più paura del comunismo, E questo ben prima che conoscessimo i danni dello stalinismo. E la Gran Bretagna non è innocente, hanno sostenuto i fascisti in Spagna dal ’36 al ’39, fino all’inizio della Guerra”. Per Loach è errato dire che la destra sia sostenuta dalla classe operaia, “lo è solo da alcune parti. La maggior parte sostiene la sinistra ed è a favore di un cambiamento radicale”. E allora “organizziamo eventi che facciano incontrare le persone. Se la gente si incontra e ride, la risata è un atto di grande sovversione, ai razzisti non piace. Queste sono le campagne politiche, alla fine noi, come dice il film ‘siamo buoni vicini'”.
Su Letture.org un’intervista a Giusto Traina, autore di “428 dopo Cristo. Storia di un anno”, un saggio storico che m’intriga molto perché piazzato nell’apice iperbolico del disfacimento romano d’Occidente, un momento su cui oscillava quel mondo prima di cadere definitivamente. Ecco la chiacchierata:
Prof. Giusto Traina, Lei è autore del libro 428 dopo Cristo. Storia di un anno pubblicato da Laterza: qual è l’importanza del 428 dopo Cristo? Nella storia globale, il concetto di importanza è piuttosto elastico. Scegliere una data insolita come il 428 può stupire, e del resto ha stupito anche molti dei miei colleghi, compresi gli esperti di tardo antico. D’altra parte, anche se nel 428 sono accaduti eventi di un certo interesse, non si tratta esattamente di eventi epocali: l’unico episodio più o meno cruciale, che poi è il punto di partenza del libro, è la caduta di Artashes e la fine del regno della Grande Armenia, documentata solo da fonti locali, e praticamente oscurata dagli altri autori. Più di dieci anni fa (la prima edizione del libro, oggi ristampato in paperback, risale al 2007), l’ottimo redattore che aveva seguito la preparazione del manoscritto si era preoccupato della mia scelta di partire da una realtà marginale come l’Armenia, temendo che il prodotto finale risultasse un libro di nicchia, e trovasse pochi lettori interessati. Per fortuna è andata diversamente.
Su Tribunus un lungo articolo che indaga i dettami e le suggestioni della danza nel mondo romano antico. Un estratto illuminante, che riporta invariabilmente allo sciamanesimo:
La danza ha da sempre caratterizzato l’esistenza dell’uomo, accompagnandolo nei momenti salienti della vita sociale e religiosa. Il corpo è infatti il primo mezzo che l’uomo ha per esprimersi. Nel mondo antico, la pratica della danza, la quale ovviamente è strettamente connessa alla musica, è legata all’universo, e si riteneva che avesse un’origine divina, come un dono degli dèi agli uomini e il mezzo per accostarsi a loro, poiché il ballo e i suoi ritmi producono uno stato alterato di coscienza, atto a elaborare esperienze mistiche ed estatiche, e stabilire una connessione fra il mondo terreno e quello divino.
I primi ludi scaenici sembrerebbero risalire al 365 a.C., quando a seguito di un’epidemia vennero indetti a Roma per propiziare il favore degli dèi. La fonte a cui si può far riferimento è Tito Livio (Ab Urbe Condita, libro VII, 2), il quale spiega anche la derivazione dall’etrusco del termine ister, istrione: “senza nessun canto, senza gesti tesi a imitare mimicamente il canto, dei ballerini fatti arrivare dall’Etruria, danzano al suono dell’aulos, eseguivano movimenti pieni di grazia secondo il modo etrusco. I giovani cominciarono poi a imitarli, scambiandosi nel contempo motteggi in versi volgari e accordando i movimenti alle parole. La novità piacque e si affermò sempre di più. In seguito agli artisti indigenti, poiché il ballerino era chiamato con parola etrusca ister, fu dato il nome di istrioni”.
Con MidJourney a esplorare le profondità vertiginose dell’Impero Romano ancora vivo, una sorta di Impero Connettivo che sprofonda nelle distopie quantisticamente possibili.
Su Tribunus un bell’articolo sul poema – e implicitamente sul film – De Reditu, del poeta tardo latino Claudio Rutilio Namaziano. Un estratto:
Il De Reditu è un poemetto in distici elegiaci, scritto da Claudio Rutilio Namaziano.
Il manoscritto originale, oggi perduto (ma ancora attestato nel 1706), venne scoperto nel 1493 nel monastero di Bobbio da Giorgio Galbiate, filologo e umanista.
L’opera si compone di due libri, ma il secondo si interrompe bruscamente. Nel 1973 vennero ritrovati due frammenti, i quali fanno cenno a un incontro tra Rutilio Namaziano e tale Marcellino in una località non ben individuata fra Luni e Albingaunum, e l’altro riguarda proprio la ricostruzione della città di Albingaunum (Albenga). Nonostante l’opera sia giunta incompleta, è proprio l’esistenza del poemetto stesso a darci la certezza del successo e del raggiungimento della destinazione del viaggio da parte di Rutilio Namaziano.
L’autore è a noi noto appunto solo dal poema stesso. Appartenente a una famiglia aristocratica di origine gallica, Rutilio fece una lunga carriera politica a Roma: fu dapprima magister officiorum e in seguito praefectus Urbi (nel 413 o 414). Rutilio era forse legato a circoli culturali pagani e conservatori, di cui facevano parte anche numerosi esponenti dell’aristocrazia senatoria romana. Alcuni di questi personaggi sono citati nell’opera.
Il clima del periodo, seppur filtrato dalla visione dell’autore, è restituito dai versi del De Reditu. Il motivo del viaggio di ritorno di Rutilio Namaziano verso la terra natìa (probabilmente era originario di Tolosa o comunque di una cittadina nella Gallia Narbonense. La meta del viaggio non viene esplicitamente citata nel testo) è causato dall’arrivo dei Goti e dalle distruzioni da essi causate, che costringono l’autore ad abbandonare Roma per curare i suoi possedimenti devastati in Gallia. L’invasione gota investì infatti fra il 412 e il 414 i territori della Gallia, sotto la guida del re Ataulfo.
In base a tali dati e a poche sporadiche indicazioni fornite dai versi del poemetto è possibile stabile due probabili date del viaggio: la prima datazione proposta è quella di metà novembre – dicembre del 415; mentre la seconda cade negli ultimi giorni di ottobre del 417. In entrambi i casi, il viaggio è effettuato durante il periodo del mare clausum, periodo che va da ottobre a marzo, in cui la navigazione è quasi del tutto ferma o sottocosta. L’imbarcazione utilizzata da Rutilio è una nave di piccole dimensioni, detta cymba.
Materia del De Reditu sono propri i luoghi che Rutilio vede costeggiando le sponde del Tirreno e le tappe sulla terraferma, ma non mancano riflessioni e incontri con amici, mescolati da frequenti e raffinati richiami letterari e mitologici. L’autore infatti aveva ricevuto un istruzione elevata e colta, studiando letteratura, retorica, e diritto. Il suo bagaglio culturale riaffiora proprio dai versi, in cui vi sono richiami a Ovidio, Orazio, e Virgilio, ma anche nella scelta stessa del distico elegiaco, che rimanda ai toni e ai motivi delle elegie dell’esilio ovidiano. Per Rutilio la partenza da Roma è vissuta con nostalgia e rimpianto, tutta l’ammirazione e l’amore per l’Urbe sono espressi nel cosiddetto “inno a Roma”, che si colloca nel momento in cui Rutilio con un piccolo seguito lascia la città per giungere a Portus, punto di partenza del suo viaggio. Nel poemetto non si fa mai riferimento al sacco subito dall’Urbe nel 410, ma Roma appare ancora gloriosa e come unica e vera capitale dell’Impero. Semmai, le preoccupazioni dell’autore sono incentrate su quella che lui percepisce come una decadenza dei costumi.
La lettura dell’opera doveva essere forse destinata a una cerchia ristretta e fidata di persone, probabilmente amici.
Su Studia Humanitatis un lungo articolo che delinea l quadro sociale e politico del V sec. d. C. nell’Impero Romano d’Occidente, quando le orde barbare – in questo casi di Genserico e dei suoi Vandali – imperversò sempre più pressante e coprente sulle poche volute dell’Imperium rimaste nelle mani degli ultimi imperatori. Un estratto:
Genserico sapeva bene che ogni conquista andava consolidata e, siccome la guerra cominciava a pesare anche per la sua gente, avendo preso il controllo di una sola città, ebbe l’accortezza di intavolare trattative con l’imperatore Valentiniano III (PLRE 2, 1138-1139): così l’11 febbraio 435 si addivenne a un trattato di pace, in forza del quale i Vandali furono individuati come foederati al servizio dell’Impero per la Numidia Cirtana (Chron. min. I 474 Mommsen). Ciononostante, ben presto, Genserico iniziò a comportarsi come un sovrano autonomo, esercitando sulla regione un potere assoluto: tutte le terre, sia pubbliche sia di proprietà privata, furono confiscate e annesse al demanio regio, quindi suddivise in lotti e distribuite ai più fedeli soldati del re (sortes Vandalorum). Quanto alle popolazioni locali, scampate alla morte o alla servitù, le comunità africane furono costrette al pagamento di tributi assai onerosi, nonostante la formale conservazione della legislazione imperiale (cfr. Procop. Bell. III 5, 16). Le fonti documentali, confluite nel corpus di Vittore di Vita, come la già nominata Historia persecutionis Africanae provinciae, la Notitia provinciarum et civitatum Africaee la Passio beatissimorum martyrum, tramandano una delle pagine più terribili della storia della repressione ariana contro l’ortodossia nicena: sono innumerevoli gli episodi di torture inflitte agli ecclesiastici e ai fedeli, che, durantes in catholica fide, preferirono subire il martirio piuttosto che abiurare. Si narra come gli sfortunati fossero costretti a bere aceto o liquidi corporali, o a trascinare enormi pesi; coloro che rifiutavano di abbracciare l’Arriana impietas erano messi all’ergastolo, condannati all’esilio o, preferibilmente, uccisi. Si racconta di prelati arsi sul rogo, dilaniati dalle belve nel circo o legati a cavalli e trascinati su terreni accidentati. Tutti gli eventi narrati, comunque, vengono tendenzialmente ridotti a uno scontro fra omousiani e ariani, nel quale i primi vengono rappresentati come pii sottoposti alle più atroci torture, descritte finanche con eccessiva dovizia di particolari, mentre i secondi risultano sempre essere spietati carnefici, protagonisti negativi di una concatenazione di piccole rappresentazioni agiografiche (cfr. Vict. Vit. HP I 3-4; I 6; I 8; I 10; I 12; Nov. Val. II 12, 13, 6; Ferrand. Vita Fulg. I 4). Chiaramente negli episodi dello scontro vengono meno le considerazioni politiche, economiche e militari dei soggetti agenti.
Instaurato il proprio regno nel Nordafrica, Genserico divenne ben presto una figura importantissima negli equilibri mediterranei e influì di molto sulle vicissitudini dell’Impero d’Occidente: difatti, fra i sovrani barbarici insediati entro i confini di Roma, Genserico fu sotto molti riguardi quello che ottenne i maggiori successi. Quanto alla gestione del regno, a quanto pare, egli operò una serie di riforme: il sovrano doveva essere coadiuvato da ministri e burocrati, in massima parte di stirpe vandalica, ma anche di origini romane. Nella persona del re erano concentrati tutti i poteri, come il comando degli eserciti e l’esercizio della giustizia. Inoltre, solo a lui era consentito elargire donativa, in moneta sonante o in beni immobili, ai propri sudditi.
Su L’Indiscreto un interessante articolo che prova ad analizzare, storicamente, le cause del conflitto in Ucraina, scavando nel passato e formulando alcuni avvenimenti che illuminano parecchio; il resto è non detto, però la lettura integrale dell’articolo rimane obbligatoria.
L’Ucraina è una nazione che ha la stessa origine della Russia, ma che si è trovata storicamente smembrata fra la Polonia, l’Impero austriaco e la Russia zarista, che alla fine la integrò in gran parte. Essa ha mantenuto la propria lingua, affine al russo, e, come in altre nazioni asservite, nel diciannovesimo secolo alcuni intellettuali vi suscitarono una corrente indipendentista.
Durante i disordini e le guerre che seguirono la Rivoluzione d’ottobre, l’Ucraina, sotto la guida dell’anarchico Machno, proclamò la propria indipendenza, ma fu conquistata dai bolscevichi e incorporata nell’URSS.
L’URSS lasciò che esprimesse la sua lingua e il suo folklore, ma vi represse ogni velleità di autonomia. La ricca terra d’Ucraina fu la principale vittima della kolchozificazione forzata, della deportazione in massa dei kulaki e soprattutto della gigantesca carestia del 1931. Da qui, un enorme risentimento nei confronti della Russia, cosa che spiega gli applausi, filmati dai nazisti, di una parte degli abitanti di Kiev all’arrivo della Wehrmacht.
Ma la cosa più grave fu che il movimento indipendentista ucraino, esiliato in Germania, si era legato al potere nazista sotto la direzione di Bandera, e poi cooperò con la Wehrmacht nell’invasione dell’Ucraina e nella sua occupazione. Costituì un’amministrazione agli ordini dei nazisti e partecipò alle vessazioni perpetrate dall’occupante, compreso il massacro degli ebrei. Vasilij Grossman espresse il suo dolore quando, alla liberazione dell’Ucraina dai nazisti, apprese che sua madre era stata uccisa dagli ucraini. Come riporta Serge Klarsfeld, il motto dei nazionalisti ucraini di Bandera collaboratori dei nazisti, affisso per le strade di Kiev nel 1941, era: “I tuoi nemici sono la Russia, la Polonia e i giudei”. Nel 1941, sotto l’occupazione della Wehrmacht, Bandera proclamò anche una “Repubblica ucraina indipendente”. Ci furono coinvolgimenti militari di ucraini nella “Legione ucraina” che appoggiava le truppe di occupazione naziste; l’UPA (Armata insurrezionale ucraina) continuò dopo la guerra a combattere l’Armata Rossa, fino al proprio annientamento nel 1954. Bisogna però d’altra parte dire che migliaia di ucraini si arruolarono come partigiani contro l’occupante tedesco.
Così, si comprende come i volontari stranieri che nel 2022 si arruolano per l’Ucraina siano di due tipi: il primo animato dall’ideale democratico, il secondo dall’ideale fascista.
Con la sua situazione geopolitica strategica vicina alla Russia e il suo patrimonio economico, l’Ucraina è una preda importante, tanto per la Russia putiniana che conserva il sogno di ricostituire l’Impero slavo, quanto per gli Stati Uniti che insedierebbero cosi la NATO alle frontiere occidentali della Russia. Di fatto, l’Ucraina è la posta in gioco di due volontà imperiali, l’una che vuole salvaguardare il proprio dominio sul mondo slavo e proteggersi da una nazione vicina sotto l’influenza degli Stati Uniti, l’altra che mira a integrare l’Ucraina nell’Occidente e a togliere alla Russia il titolo di superpotenza mondiale. Gli Stati Uniti, indebolendo permanentemente la Russia per interposta Ucraina, eliminerebbero uno degli ostacoli al mantenimento della propria egemonia planetaria (l’altro ostacolo è la Cina).
Su StoriaInRete una segnalazione assai interessante riguardo Roma prima di Roma, saggio storico di Gianluca De Sanctis mirabilmente stilizzato dall’articolo; un estratto:
Come avverte l’autore nella premessa, per i Romani esiste un rapporto organico tra i racconti della fondazione (e anche i relativi miti) e i luoghi in cui essa è avvenuta. «I luoghi diventano dei “ponti” tra il tempo del mito, nel quale l’evento è accaduto, e quello della storia nel quale si chiede all’evento di restare». L’evento mitico acquista così una presenza nella storia nel suo continuo e concreto svolgersi, diventa la continuità tra passato e futuro, «ma anche il nesso profondo tra memoria e “identità”».
L’identità, applicata al nostro tema, va spiegata, perché i Romani non avevano questa parola e, osserva De Sanctis, se avessero dovuto esprimerla forse avrebbero utilizzato il termine Roma, nel quale si riassumevano sia la città fisica che i suoi valori morali, politici e culturali, quei valori che avevano imposto a gran parte del mondo conosciuto l’Imperium, sintesi di potere, comando e territorio controllato e amministrato. Un potere che non significava esclusione delle popolazioni vinte, che anzi potevano essere assimilate se accettavano di entrare nell’universo della romanità, insomma se accettavano di farsi romani, con tutto ciò che ne conseguiva sul piano dell’integrazione culturale, politica e dell’osservanza delle leggi. A differenza dei Greci, per i quali l’identità era un fattore etnico, da rivendicare e difendere, per i Romani l’identità era aderenza a valori e modelli, apertura al diverso, che andava escluso quando poteva rappresentare una minaccia proprio a questa apertura. È evidente che lo studio della nascita di una città, e quindi di una civiltà, che per oltre mille anni ha monopolizzato il mondo ha da sempre affascinato gli studiosi che, fino a qualche tempo fa si sono divisi tra due diversi modelli interpretativi: quello della Stadtgrundung (nascita, creazione, fondazione) e quello della Stadtwerdung (urbanizzazione, sviluppo).
Su ThrillerMagazine la segnalazione di L’arcangelo caduto, il racconto degli eventi traumatici che nel 1922 coinvolsero Gabriele D’Annunzio; il dettaglio:
Il 13 agosto 1922, cent’anni fa, D’Annunzio precipita da una finestra del Vittoriale, procurandosi una commozione cerebrale. Uscito dal coma, riprende pian piano coscienza. I medici si alternano al suo capezzale, registrando le sue parole, culminanti in un monologo esaltato ed esaltante: «siamo spiriti azzurri e stelle…».
Sulle cause della misteriosa caduta fioriscono le ipotesi: incidente o dolo? Una schermaglia amorosa con le sorelle Baccara finita in dramma? Un complotto per tagliar fuori il Comandante dagli eventi che sfociarono, il 28 ottobre, nella marcia su Roma?
L’incidente cambiò forse la storia d’Italia, certamente la carriera dello scrittore. Rileggendo le disordinate trascrizioni delle parole pronunciate nell’infermità, D’Annunzio maturò l’idea quasi psicanalitica di una modernissima scrittura “involontaria”, sfociata poi nel Libro segreto. Questo volume propone l’edizione critica e commentata di quel testo “parlato”, corredato dagli scritti suggestivi, spesso trascurati, in cui rievocò e reinventò l’infortunio, trasfigurandolo nel «volo dell’arcangelo» Gabriele «tentato di morire».
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"Scrivete quel che volete scrivere, questo è ciò che conta; e se conti per secoli o per ore, nessuno può dirlo." Faccio mio l'insegnamento di Virginia Woolf rifugiandomi in una "stanza", un posto intimo dove dar libero sfogo - attraverso la scrittura - alle mie suggestioni culturali, riflessioni e libere associazioni.
“Siamo l’esperimento di controllo, il pianeta cui nessuno si è interessato, il luogo dove nessuno è mai intervenuto. Un mondo di calibratura decaduto. (…) La Terra è un argomento di lezione per gli apprendisti dei.” Carl Sagan