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Cosmogonia – Intervista a Mariano Equizzi: Diana, 6 1 mito!
Bella intervista di Fabrizio Catalano a Mariano Equizzi sul tema, sul progetto tecnologico e culturale di realtà aumentata 6 1 mito. Ascoltatela attentamente: sviscerare il tessuto urbano delle nostre città italiche – Roma, nel caso in questione – in funzione dei miti ancestrali che in età classica si sono condensati in divinità è cultura, e che oggi sono diventati supereroi e altre amenità americane varie.
Andreas Bülhoff and Marc Matter – ɅV / A Sonic Writing Tool | Neural
[Letto su Neural]
Per l’etichetta berlinese Research and Waves, un progetto artistico curatoriale di Jasmina Al-Qaisi, Maria Karpushina, Gustavo Méndez Lopez, Norman Neumann ed Henrik Nieratschker, è uscito un vinile dodici pollici composto da parole, una sorta di tool per dj che può essere utilizzato allo scopo di comporre un dialogo artificiale. ɅV (trascrizione fonetica per of o off) è per Andreas Bülhoff e Marc Matter – gli autori di questa opera molto particolare – una versione post-digitale di poesia sonora che fa uso di trentadue parole monosillabiche su ogni lato, parole che sono state raccolte nell’inverno 2018/19 dal sito web del New York Times e da un subforum intitolato Politically Incorrect. Le parole sono recitate da due voci sintetiche e le piattaforme prese in considerazione rispecchiano estremi opposti dell’attuale dibattito online in bilico fra liberalismo mainstream e sottocultura reazionaria, linguaggio formale e informale, approccio giornalistico e chiacchiere da messaggeria. ɅV è anche considerato dagli autori e dal collettivo redazionale una sorta di punto di partenza per Attune, la piattaforma online di Research and Waves che esplora e coltiva processi e gesti sonori, focalizzandosi sulle pratiche di remixing, sampling, cutting, mashing, quoting, covering, morphing e fading, innescando così un dibattito interculturale su varie forme di oppressione come il razzismo e la supremazia bianca, il patriarcato e il neoliberismo. Le parole possono essere neutre? Evidentemente no, ma molto dipende da cosa s’intende per neutro. Il linguaggio non è qualcosa di statico, vive di continui cambiamenti e i contesti d’uso di chi lo parla e lo scrive non sono a loro volta neutrali. Tantomeno il linguaggio non è mai neutro dal punto di vista politico, poiché la narrazione di quella che ci appare la realtà è sempre mutevole e cambia per come percepiamo e agiamo nel quotidiano. Negli intenti degli attivisti di Attune è importante mostrare quelli che sono gli esempi di una tangibile distanza culturale intorno all’identità e alla politica di classe, innestando una discussione critica sul linguaggio tutt’altro che banale e trita. Non resta che ricollegare i punti mancanti tra le parole e le loro fonti, frammenti di un discorso non certo semplice su quello che è lo stato della società attuale, medicalizzata e sottoposta ad assalti virali fino allo stesso cuore della lingua.
Bricolage, what if a cell were to escape, like a tiger from the zoo? | Neural
[Letto su Neural]
Bricolage è un’installazione che cresce nell’incubatrice che la custodisce. In questo ambiente protetto creato ad hoc crescono dei “bio-bot”, strutture cellulari autonome, specificamente bioingegnerizzate da Nathan Thompson, Guy Ben-Ary e Sebastian Diecke. I bio-bot sono fatti di cellule di sangue, muscolo cardiaco e seta e crescono assembrandosi autonomamente in forme sempre diverse: si contraggono, si dimenano e si aggregano, diventando man mano visibili a occhio nudo. Il loro aspetto è simile a una medusa senza tentacoli, nei minimi movimenti si percepisce un ritmo che ricorda il (nostro) battito cardiaco. La mancanza di intermediazione di strumenti tecnici specifici (come per esempio il microscopio) rende l’interazione con queste entità immediata e diretta, quasi familiare. Nell’allestimento, l’installazione è accompagnata da un testo visivo della scrittrice Josephine Wilson, che esplora il concetto di “bricolage” come processo creativo che mette in relazione caotica l’arte e la scienza. “What if a cell were to escape, like a tiger from the zoo?”, “Can you feel sorry for a cell, or does it depend where they come from?”, si legge nei suoi scritti. È difficile prevedere quali forme emergeranno dal processo di autoassemblaggio, ed è in questa incertezza che lo spettatore è invitato ad entrare e osservare.
DreamBank – Dreaming is not (just) human | Neural
[Letto su Neural]
L’esperto di sogni G. William Domhoff, illustre professore e ricercatore di psicologia presso l’UC Santa Cruz ha speso decenni nello studio dei sogni e il loro significato. Nell’arco degli anni egli ha spostato la propria attenzione dalla comprensione dei sogni alla comprensione delle condizioni e delle parti del cervello che danno vita ai sogni. Nella sua teoria neurocognitiva integrata egli ipotizza che durante l’atto creativo del sogno lo stato mentale è del tutto simile alla deriva del pensiero da svegli. A quell’indefinito momento durante il quale (sembra ce ne siano diversi durante la giornata di ciascuno di noi) la mente vaga senza un preciso pensiero logico, in un percorso indefinito, imprevedibile e creativo. È proprio a questa teoria che fa riferimento DreamBank, l’opera d’arte generativa dell’artista Claire Malrieux che con il suo lavoro indaga il rapporto tra forma e narrativa, tra potenza creativa e potenza computazionale. DreamBank si mostra al pubblico in una forma estetica essenziale e come una TV in un salotto non punta a nessuna spettacolarizzazione. L’opera attinge da una banca di sogni e basandosi su una classificazione tridimensionale delle emozioni e sullo studio neurocognitivo del processo cerebrale dei sogni, è concepito come un ecosistema che fonde l’analisi semantica ed emotiva dei racconti dei sogni con i comportamenti reattivi e i gesti grafici di un algoritmo in un principio di apprendimento continuo ed evolutivo. Il sogno (o gli infiniti sogni) assume la forma di uno storytelling grafico, generato e raccontato in tempo reale dalla macchina che dismette i panni funzionali in cui siamo abituati a vederla, non più come uno strumento nelle mani dell’uomo, essa non imita ma crea e racconta, disegna imprevedibili forme, in uno spettacolo i cui meccanismi di creazione costituiscono la realizzazione visiva autonoma di una precisa intenzione visionaria.
Chthulupunk, sottogenere del solarpunk? | NAZIONE OSCURA CAOTICA
Riflessioni sulla natura del reale intorno noi. Sul blog della Nazione Oscura.
Le discussioni intorno alla letteratura solarpunk, considerata parte della climate science-fiction (che peraltro ha i precedenti della ecological science-fiction degli anni ’60) sono molto attuali negli ultimi anni. Ci si chiede come la fantascienza – come punta di diamante della letteratura nel proiettarsi verso il futuro e considerare le problematiche che questo presenterà agli uomini e alla Terra – deve affrontare l’argomento. Negli anni ’90 e Duemila ha prevalso la distopia (il successo di Black Mirror è un chiaro esempio), ovvero una visione più o meno negativa del futuro. Qui la fantascienza (o semplicemente la letteratura speculativa) adotta il metodo del monito, mostra infatti il risultato delle politiche sociali, economiche ed ecologiche attuali. Un’ombra lunga sul futuro. Ma questi moniti, vuoi perché sono eccessivi, vuoi perché sono aumentati, vuoi perché vengono percepiti come minacce, sembrano aver perso la loro efficacia. O forse, al contrario, il messaggio è stato recepito dai più, e ora viene da pensare: “Ecco come va a finire se andiamo avanti così. Ma se NON andiamo avanti così?” La risposta, apparentemente, arriva dal solarpunk, che suggerisce strade alternative, anche qui, comunque, prendendo spunto da indizi e segnali (ancora minoritari) dall’attualità. Il metodo non è più quello del monito, ma del suggerimento. Detto questo, è inevitabile sospettare che in generale, questo metodo, possa scadere nella didascalità, nella dissertazione saggistica, nella visione aproblematica new age. Chi conosce bene il funzionamento della letteratura, dall’800 a oggi, sa che per essere persuasiva non deve spiegare le proprie argomentazioni, ma semplicemente mostrarle (il classico “show, don’t tell”, in fondo), per cui il rischio concreto è che il solarpunk scoppi come una bolla, nonostante abbia delle potenzialità che vanno decisamente oltre al subgenere.
Leggendo Chthulucene di Donna Haraway è evidente che il futuro non potrà essere una redenzione dei peccati dell’antropocene o del capitalocene, ma una nuova consapevolezza, un nuovo “pensiero che pensa altri pensieri”, che caratterizzerà il futuro. Prima fra tutte la consapevolezza che noi NON siamo gli unici attori di questo pianeta, cioè rigettare l’antropocentrismo e accettare il non umano (e l’inumano) è la premessa necessaria a ogni altro pensiero sul futuro. Per cui Haraway definisce lo chthulucene (scritto così, diversamente da Lovecraft, senza “h” dopo la “l”, ) come questo nuovo atteggiamento/consapevolezza (che lei chiama chiama responso-abilità, cioè la responsabilità di avere l’abilità di rispondere agli stimoli del pianeta e della natura).
Tornando ai generi e alla “letteratura del futuro”, è necessario quindi che il solarpunk non rimanga uno sterile esercizio di “immaginazione ottimista”, ma che contenga le problematiche dei molteplici rapporti che noi abbiamo con il mondo, con i parassiti, i batteri, i virus e tutti i biomi che ci circondano. Di più: ridefinire il “noi” oltre l’essere umano, e intenderlo come intero sistema biologico, come olobioma. Per questo propongo il temine Chthulupunk per definire questo subgenere di letteratura.
FANTAROCK – Un’ambigua utopia
Su GrandeComeUnaCittà un lungo articolo di Mario Gazzola che approfondisce con la sua consueta maestria e conoscenza le tematiche e gli scenari che fanno da supporto a Fantarock, l’antologia di rock& SF da lui curata qualche mese fa. Vi lascio a un estratto del suo flusso di conoscenza.
“Fantarock”, chi era costui?
O meglio… cos’è? Ok, parlare di rock vuol dire parlare di una galassia musicale in cui c’è dentro di tutto: dalle canzonette di Elvis al maledettismo di Marilyn Manson, dai Beatles agli Stones, dal folk rock di Dylan, Crosby, Neil Young fino ai cantautori italiani, a Tom Waits e Springsteen, dall’hard di Deep Purple e Led Zeppelin al metallo pesante di Iron Maiden e Metallica, le aeree ricercatezze di Pink Floyd e Genesis, la furia iconoclasta dei Sex Pistols e il reggae bianco di Clash e Police, l’elettronica glaciale di Brian Eno, i robotici Kraftwerk e i Tuxedomoon, l’epica degli U2, il funk di James Brown, la disco di Moroder e dei fantascientifici Rockets, fino al gioco ricombinatorio di tutto quanto sopra, cui l’hip hop e poi la techno da rave hanno dato vita grazie alla tecnologia cut-up del campionamento…
Per una teoria universale dell’utopia e delle sue contraddizioni | Holonomikon
Articolo come solo Giovanni De Matteo sa redigere, espansione di quello della settimana scorsa, sempre sulle utopie-distopie-ucronie-discronie. Un estratto – non esaustivo, ma intrigante – di un concetto che Luigi Acerbi e Daniele Bonfanti avevano sviluppato con il mio modesto ausilio, circa dieci anni fa: Discronia.
Come abbiamo visto per le distopie e più in generale per la fantascienza, nel caso dell’utopia è forse altrettanto appropriato parlare di meta-genere. I lavori citati nel capitolo precedente sono, in maniera abbastanza trasparente, opere di fantascienza che evolvono da una premessa utopica: diffondere una civiltà pacifica tra le stelle, realizzare una società ideale su un altro pianeta, risolvere i problemi legati alla scarsità delle risorse che affliggono una civiltà planetaria, guidare il progresso di società meno avanzate con ricadute benefiche per la loro popolazione.
Ma in fondo, come ci ricorda Alastair Reynolds, non dobbiamo dimenticare che le speculazioni fantascientifiche hanno sempre in qualche modo a che fare con l’utopia. Al di là di tutte le sue contraddizioni, delle sue criticità, dei conflitti che i suoi abitanti si trovano a dover affrontare, già solo «pensare a una civiltà umana interstellare è quanto di più vicino ci sia a una celebrazione dell’utopia: se già solo l’impresa di inviare una missione umana tra le stelle presuppone l’allineamento di una serie così difficile di condizioni da sconfinare nell’idealismo, figuriamoci la costruzione e il sostentamento di una società diffusa tra le stelle».
E d’altro canto l’utopia è un campo che la fantascienza condivide con il mainstream. Riprendendo ancora una volta le parole di Antonino Fazio dal suo articolo La letteratura di genere nell’epoca della sua riproducibilità parziale (Anarres n. 2):
[…] fantascienza e mainstream non condividono solo le correnti “storiche” della letteratura, bensì (prescindendo dalle contaminazioni) anche generi come l’epica, la commedia, la parodia, l’utopia, la satira. Questa circostanza ci indica con chiarezza che la fantascienza non è un semplice genere della narrativa popolare, bensì una forma di letteratura diversa dal mainstream, ma certo non meno “rispettabile” (cfr. Proietti, cit.), la quale va indagata anche con strumenti concettuali non tradizionali […]
Javier Lloret – 1000 Synsets (Vinyl Edition) Vol II | Neural
[Letto su Neural]
Sin dal 1985 WordNet è un database semantico-lessicale per la lingua inglese, una classificazione gerarchica che descrive il mondo, ispirata alle teorie della memoria semantica umana sviluppate alla fine degli anni ’60. A differenza di quella episodica, quella semantica è una memoria che non è personale ma comune a tutti coloro che parlano la stessa lingua. L’organizzazione del lessico si avvale di raggruppamenti di termini con significato affine, chiamati synset, in pratica sostantivi, verbi, aggettivi e avverbi che sono stati raggruppati in insiemi di sinonimi. Ognuno esprime un concetto diverso. Da questo deriva ImageNet, che invece è un set di dati di immagini basato sulla stessa gerarchia dei nomi. Ogni nodo della gerarchia è rappresentato da centinaia e migliaia di immagini. Dal 2010 al 2017, la sfida del riconoscimento visivo su larga scala di ImageNet (ILSVRC) è stata un punto di riferimento chiave nella classificazione e localizzazione delle categorie di oggetti, con un impatto notevole sui software per la fotografia, le ricerche e il riconoscimento di immagini. 1000 synset (Vinyl Edition) contiene queste 1000 categorie di oggetti registrate. Questo lavoro di Javier Lloret vuole evidenziare l’impatto dei set di dati utilizzati per addestrare modelli di intelligenza artificiale che vengono eseguiti su sistemi e dispositivi che utilizziamo quotidianamente. Ci invita, insomma, a riflettere su di loro e ad ascoltarli attentamente. Ogni copia dei dischi in vinile mostra un diverso set e un’immagine, elementi che in particolare sono utilizzati dai ricercatori che partecipano alla sfida ILSVRC per addestrare i loro modelli. L’attenzione di Lloret è ancora una volta nell’esplorare la transizione fra la visibilità e il suo contrario attraverso i diversi mezzi di comunicazione di massa, attitudine che è peculiare e diremmo anche distintiva per un media artist. A noi è arrivato solo il secondo volume, praticamente i synset da 501 a 1000, menzionati da voce femminile e divisi in due tracce all’incirca di 18 minuti. L’essenza della memoria semantica è che i suoi contenuti non sono legati a nessuna particolare istanza di esperienza. Quello che è immagazzinato nella memoria semantica è il “succo” dell’esperienza, una struttura astratta che si applica a un’ampia varietà di oggetti esperienziali e delinea le relazioni categoriali e funzionali tra tali oggetti. Lloret, allora, compie un’operazione decisamente concettuale con questo progetto ma anche dalle venature che diremmo di certo didattiche.