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Due parole sull’antologia novocarnista “Tenebre future”
Ho terminato in questi giorni la lettura dell’antologia Tenebre future, curata da quello che potrebbe essere identificato come l’ensamble novocarnista (Alessandro Pedretta e Stefano Spataro su tutti) e che suppongo sia intimamente collegato a realtà editoriali e ideologiche nascoste, ben conosciute nel fantastico italiano.
Due cose vorrei precisare subito. La prima: benché io sia presente all’interno della raccolta, non parlerò assolutamente del mio contributo, sarà come se non ci fossi; due, è un’antologia davvero da urlo, una perla rara nel panorama editoriale e autoriale, nonché creativo, italiano.
Sedici (anzi, quindici) gli autori presenti, e non esagero se dico che quattro quinti delle storie pubblicate nel libro sono di livello eccelso, e che le rimanenti hanno comunque una qualità molto più che accettabile; si spazia da un violento e disturbante horror splatter a varianti cyberpunk e decadenti verso una fisicità organica, anticamera della putrefazione biologica, mentre inserti SF più o meno eterei e a volte di matrice connettivista – oh yes, dopo vent’anni di militanza il connettivismo ha lasciato eccome il segno nel fantastico italiano – si coniugano con deliri disumani che si rifanno alle convenzioni del vivere quotidiano, senza che spazino in una lotta sociale: infatti, non c’è un vero messaggio politico nell’antologia, ed è forse questo ciò che manca nella raccolta, però c’è comunque un devastante senso d’impotenza, di annichilimento, di ricerca di vie alternative d’esistenza che sfociano poi nella devastazione organica, nella ricostruzione vomitevole di corpi dilaniati dalla mutazione biologica, in un brodo rivoltante di liquami vivi che finisce per riportare tutta l’umanità – o postumanità – nel limbo disperato del nulla più totale.
Nessuna speranza in Tenebre Future – non ne avremmo comunque, anche se il caos sa trovare vie impensabili per la mutazione – perché vi si respira una disperazione di cieli plumbei e modificati, ibridati verso un tempo dimensionale che fatichiamo a riconoscere come il nostro, che in fondo sappiamo essere proprio così.
Il Novocarnismo è quindi il Movimento (attivissimo) di questo scorcio temporale, così come il connettivismo lo fu poco dopo l’inizio del millennio? A suo modo sì: non esiste dalle nostre parti un’altra novità dissonante, creativa e furibonda come la loro; la bellezza di tale consapevolezza è che questi autori ci sono, che scrivono senza sosta come delle bestie e che hanno dalla loro la freschezza creativa, mentre narrano della bruttezza che è insita nell’ibridazione di un orrendo mondo figlio delle mutazioni e che – questo lo dico io – si è originata con l’apoteosi mondiale asfissiante e senza spiragli del paradigma liberista, vero orco dell’umanità postumana.
Lunga vita ai novocarnisti e alle iniziative editoriali come questa: c’è vita fantastica in Italia.
Il fisico Melvin Vopson vuole dimostrare che viviamo in una realtà virtuale | Fantascienza.com
Su Fantascienza.com un’interessante segnalazione riguardo al nostro ecosistema reale che alcuni ritengono sia invece una simulazione virtuale – tipo Matrix, insomma. Vi lascio ad alcuni passi significativi dell’articolo:
Il cinema e le serie tv/in streaming giocano da anni con l’idea che la nostra vita sia solo una realtà virtuale particolarmente evoluta, passando da Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor, 1999) a ovviamente la saga di Matrix ma anche al Sublime di Westworld, questi sono solo alcuni degli esempi di fiction in cui i protagonisti scoprono di vivere in una realtà virtuale (potremmo aggiungere Tron, ma lì ne sono consapevoli). Ma ci sono scienziati convinti che non si tratti solo di finzione e uno di loro è convinto di poterlo dimostrare.
Nel 1989 il matematico John Archibald Wheeler aveva postulato che l’universo fosse fondamentalmente matematico e che poteva essere un costrutto non di materia ma di informazioni, coniando il termine It From Bit. Nel 2003 il filosofo Nick Bostrom della Oxford University aveva formulato la sua ipotesi sulla simulazione, partendo dal concetto che una civiltà può aver raggiunto un tale livello di evoluzione per cui la tecnologia è diventata così sofisticata che la simulazione sarebbe indistinguibile dalla realtà e i partecipanti non sarebbero consapevoli di esserne parte. Il fisico dell’M.I.T. Seth Lloyd si è portato ancora oltre, ipotizzando che l’intero universo sia solo un gigantesco computer quantistico. Infine, come potete vedere qui sopra, nel 2016 Elon Musk si era detto convinto che viviamo in una simulazione. E se può servirvi, anche Scott Adams, creato del geniale fumetto Dilbert ne è assolutamente convinto. Ma c’è chi di recente si è spinto ancora più in là: il fisico Melvin Vopson della Portsmouth University ha dichiarato di poter dimostrare che viviamo in una simulazione. Partendo dal principio di massa-energia-informazione che potete scoprire qui (ma è parecchio tecnica) Vopson ha dichiarato in un saggio per The Conversation che una realtà simulata contiene una grande quantità di Information Bits ovunque e che questi bit rappresentano il codice, “Quindi rilevare questi bit proverà la teoria della simulazione”.
Vopson ritiene che i bit abbiano una piccola massa che, se rilevata, dimostrerà la loro esistenza. Come? Per il fisico l’informazione rappresenta la quinta forma di materia nell’universo e il suo esperimento per provare la sua teoria è il seguente: cancellare le informazioni all’interno delle particelle elementari e delle relative anti-particelle e annientarle con un flash di energia, il che le farebbe esplodere e e rilasciare fotoni rivelatori. Per farlo ha anche lanciato una pagina di crowdfunding su Indiegogo per realizzare una sistema di annientamento positroni-elettroni contente una tecnologia creata appositamente per rilevare contemporaneamente fotoni gamma e infrarossi.
Non fa tutto il computer: il ritorno di vecchie perplessità nell’arte digitale – L’INDISCRETO
Il contributo di Francesco D’Isa, su L’Indiscreto, alla discussione di quest’estate, se cioè TTI (“Text To Image”, il software IA che, partendo da un dettagliato testo, realizza delle immagini sbalorditive) può danneggiare o meno la creatività degli artisti grafici (e in futuro magari degli scrittori, dei musicisti, di ogni forma di arte che l’umanità ha sempre conosciuto. Vi lascio ad alcuni brani del suo intervento e v’invito a leggere poi tutto l’articolo, a farvi un’idea che non sarà mai banale, qualsiasi opinione vi facciate.
PS – L’immagine qui sopra è di Alessandro Bavari, che anni fa illustrò il penultimo numero di NeXT, il 17: pur filtrata da una IA, la sua resa è esattamente ciò che ci si attenderebbe da Bavari.
È ormai un cliché dire che la nascita delle tecnologie TTI (text-to-image) che permette la creazione di immagini attraverso comandi testuali sia una rivoluzione tecnologica pari a quella della fotografia – l’ho ripetuto spesso anch’io, in recenti articoli sugli aspetti filosofici ed estetici di questi strumenti. La reazione del mondo dell’arte davanti a questa novità è stata anch’essa prevedibile: entusiasmo da un lato e rifiuto dall’altro. Di recente un fumettista che stimo, Lorenzo Ceccotti, ha scritto un lungo testo in cui dà voce a dubbi e critiche piuttosto diffusi sia qua che all’estero, contro i quali si schierano altrettanti “entusiasti” dei TTI di cui faccio parte, sebbene non voglia ignorarne le evidenti criticità. Abituato a letture filosofiche so bene che si può trovare un testo proficuo e interessante anche se non si condivide molte delle tesi di fondo; i temi affrontati da Ceccotti sono importanti e valgono la lettura, ma voglio argomentare le ragioni del mio accordo e disaccordo, considerato che le tesi sostenute dal fumettista si ritrovano spesso anche altrove.
Ceccotti sembra dividere la produzione di arte visiva principalmente in due prassi. La prima (la conceptual visual art) «è una forma di speculazione puramente visiva, che prende ispirazione da un brief per sviluppare un concetto visivo originale: permette ad altri di visualizzare le immagini vicine a quelle nella mente dell’artista, non le parole del brief». L’autore pare suggerire che la creazione coincida con la rappresentazione fedele di un’immagine mentale, una specie di “sbobinamento visivo dell’immaginazione”.
Crimes Of The Future – il ritorno di Cronenberg al body horror @ PostHuman
Mario Gazzola su PostHuman recensisce Crimes Of The Future, la nuova fatica di David Cronenberg. Ed è un brivido leggere certe impressioni, per alcuni maestri il tempo sembra davvero non passare mai e anzi, divengono ancora più espressivi, ancora più maestri. Un estratto:
Organi tumorali mutanti, mangiatori di plastica e glaciali performance di body art: dopo l’erotizzazione del video e delle macchine, ora “è la chirurgia il nuovo sesso” nell’ultimo plumbeo capolavoro del Canadese che “installa porte nel futuro”.
Non facile scrivere qualcosa d’intelligente all’altezza di un film cupo e geniale come Crimes Of The Future, filosoficamente lucido quanto visionario sul futuro della nostra specie, come da sempre è il miglior Cronenberg, autore di una filmografia straordinariamente coerente e compatta, anche nelle sue evoluzioni dal body horror (praticamente sua invenzione) ai mostri dei media, della psiche, dai soggetti originali a monumentali riduzioni letterarie e ritorno.Crimes Of The Future è infatti summa e superamento di eXistenZ, (le porte corporee per il gioco virtuale), Crash da Ballard (il sesso “macchinale”) e su tutti del burroughsiano Naked Lunch: le macchine organiche, il cospirazionismo paranoico dove tutti sono agenti di qualche bizzarra fazione politica.
Persino gli esterni squallidi girati la scorsa estate in un’Interzona di anonimi vicoli ateniesi, fra relitti navali e graffiti urbani, dove ormai non si deambula per comprare una dose di paradiso artificiale o sesso a buon mercato, ma per farsi incidere la pelle. Esterni che ben dimostrano come si possa ricreare un’ambientazione autenticamente minimal-dystopic-cyberpunk anche con gli angoli marginali del nostro mondo mediterraneo e non solo con grattacieli luccicanti.Del resto, qual migliore set per una storia in cui una frangia d’umanità mutata si scopre in grado di nutrirsi orgogliosamente di plastica – ossia degli scarti della nostra civiltà in procinto di sommergerci – mentre il protagonista Saul Tenser (Viggo Mortensen) passa quasi per un “conservatore” dato che non nasconde il fastidio che gli crea la spontanea generazione di nuovi organi tumorali da parte del suo corpo. Organi che poi si fa rimuovere dall’ex chirurga Caprice (Léa Seydoux) tramite un avveniristico macchinario biotecnologico che pare sbucato da un incubo di Giger, facendo dell’atto estreme performance di body art che ben avrebbero potuto ispirare dei seguiti dell’Outside di Bowie.
Pur essendo una star riconosciuta e coccolata, Saul rifiuta d’arrendersi all’inesorabilità della mutazione della specie umana professata invece da Lang (Scott Speedman), padre del bambino Brecken, il primo nato con la capacità di digerire la plastica ereditata geneticamente senza mutazioni. Bambino ucciso all’inizio del film dalla madre Djuna (Lihi Kornowsky), che non lo riconosce più come “umano”.
Lang ora vuole da Saul un’autopsia-performance del figlio morto, per alzare i riflettori del mondo sulla sua fazione plastivora, mentre la “Nuova Buoncostume” per cui il performer è agente sotto copertura vuole assolutamente arrestare l’azione degli apostoli di quest’evoluzione umana neogastrica.La sensazione è che – al di là del cupo gelo in cui ti lascia – questo sia IL film del presente, che renderà insignificante qualunque altro film per i prossimi dieci anni. Vedetelo alla svelta quando (da domani) farà capolino nelle sale italiane (distribuito da Lucky Red), perché prevediamo che non resterà in circolazione a lungo. Ma resterà a lungo in chi lo seguirà con la necessaria partecipazione “performativa”.
David Cronenberg. Estetica delle mutazioni | FantasyMagazine
Su FantasyMagazine la segnalazione del saggio David Cronenberg. Estetica delle mutazioni, a cura di Roberto Lasagna, Rudy Salvagnini, Massimo Benvegnù e Benedetta Pallavidino, con la prefazione di Danilo Arona e in uscita per i tipi di WeirdBook. La quarta:
L’opera cinematografica del cineasta canadese più eversivo e visionario in un libro che ne racconta i motivi e l’estetica, sin dai primi lavori che tra gli anni Sessanta e Settanta sono già espressione delle sue caratteristiche formali e tematiche. Con Il demone sotto la pelle (1975), David Cronenberg sorprende il mondo del cinema e inverte i quadri di riferimento, ricordando che i mostri nascono dall’interno, sono un’espressione della nostra identità contaminata. Presto il suo cinema si fa notare e si confronta con la perdita della percezione del corpo, in un labirinto di visioni che dissolve l’identità e intercetta le riflessioni di McLuhan, inscenando nuovi scambi tra l’uomo e la macchina. Emergono inquietanti ed eversive pagine di cinema che portano i titoli di Scanners (1981) e Videodrome (1983). La prospettiva tradizionale del cinema horror viene rivoluzionata da Cronenberg, che anzi si eleva dal genere e continua a esplorare la dimensione della visione in opere che ne affinano lo stile e fanno del cineasta uno degli autori più moderni e originali.
In anticipo rispetto alla letteratura cyberpunk, Cronenberg porta al cinema quella dimensione virtuale che prende il sopravvento sul reale, dettando scenari di dominazione sulla dimensione corporea. Film come La zona morta (1983), La mosca (1986), Inseparabili (1988), Il pasto nudo (1991), M. Butterfly (1993), Crash (1996), eXistenZ (1999), Spider (2002), aboliscono il confine tra l’interno e l’esterno, creano un laboratorio mentale dove il fascino ambiguo delle relazioni si confronta con scenari e identità abitati dai temi del doppio, delle dipendenze per la tecnologia, dell’attrazione che unisce la carne e la materia inorganica. In una riflessione sulle gabbie della mente, sulla violenza repressa e le mutazioni dell’identità al cospetto delle tecnologie e dei poteri che abitano il nostro presente, Cronenberg è un indagatore delle pulsioni, un artista della body art attraverso il cinema, un antropologo e un fine psicologo, ma anche un cineasta politico, come conferma anche l’ultima parte della sua ricca filmografia. Titoli come A History of Violence (2005), La promessa dell’assassino (2007), A Dangerous Method (2011), Cosmopolis (2012), Maps to the Stars (2014) e il recentissimo Crimes of the Future (2022), confermano infatti la straordinaria coerenza e le ispirazioni di un cineasta che ha spesso anticipato temi e inquietudini, incarnando, attraverso il suo cinema delle mutazioni, la figura preziosa di cineasta profetico in grado di accompagnarci lucidamente nella contemporaneità abitata dai mostri che l’uomo ha creato.