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Hyde in time | FantasyMagazine
Su FantasyMagazine l’anteprima del volume Hyde in Time, curato da Mario Gazzola. Una silloge che potrebbe svelare un mistero nascosto nella storia della letteratura: l’inedita versione del capolavoro del 1886 di Robert Louis Stevenson e due seguiti ideali, anch’essi inediti, firmati dal figlio e dal nipote dello scrittore scozzese.
Guardai attentamente il parallelepipedo cristallino: attraverso lo strato di brina potei scorgere effettivamente il corpo di una giovane distesa come in una cassa da morto; era completamente nuda e, a quanto era dato scorgere, davvero appetitosa.Per avvicinarsi meglio al parallelepipedo di ghiaccio, naturalmente era necessario deporre una moneta nell’apposita fessura. Mi sono fermato qualche istante a meditare che senso potesse avere, anche per un dissoluto come me, pagare per il privilegio di baciare una lastra di ghiaccio… oppure c’era anche lì qualche trucco, per cui al cadere degli scellini nella fessura, il ghiaccio si sarebbe dissolto come la nebbia che sembrava avvolgere le membra della fanciulla, offrendola finalmente al naturale alle labbra del suo liberatore? Ma no, non era possibile che un tale piatto venisse servito a un visitatore per così pochi spiccioli, meno di quanti ne avrebbe chiesti una donnaccia di strada… doveva per forza essere un trucco. L’avido avventore avrebbe dilapidato le sue monete per il solo privilegio d’appoggiare le labbra su un blocco di ghiaccio… all’improvviso le mie riflessioni furono interrotte da un robusto garzone che superò la mia incertezza passandomi davanti con uno sbrigativo “permesso”, seguito dalla sua riottosa fidanzata imbronciata. Il giovane, tutto compreso nel suo ruolo di preteso principe azzurro, brontolò qualche scusa in risposta agli stizziti “cerchi di baciare un’altra anche quando sei con me?” della morosa, depose l’obolo nell’urna e s’accostò al blocco di ghiaccio, cercando di posizionarsi in corrispondenza del volto dell’evanescente fata del gelo ridacchiando stupidamente, come il volgare energumeno che era.
I martiri | FantasyMagazine
Su FantasyMagazine la segnalazione di I martiri, di Lucio Besana, uscito per la mitica Hypnos. La quarta:
Un giovane poliziotto ansioso di mettersi in mostra viene assegnato al pattugliamento di un anonimo quartiere residenziale, uno di quei luoghi di pace fatto di tranquille villette a schiera, parco giochi e giardini ben curati in cui si è istintivamente portati a pensare che non accadrà mai nulla. La sofferenza e il dolore invece si annidano nascoste, sottopelle, e si presenteranno all’improvviso e con un impeto tale da stravolgere per sempre le convinzioni del ragazzo.
“Il veterinario che aveva effettuato l’autopsia mi strinse la mano con un trasporto quasi sensuale. Percepii una strana durezza nel palmo della sua mano, una callosità granulosa che premeva sotto pelle. Era un uomo dall’incarnato vivo, come per un qualche tipo di eczema, che parlava e si muoveva a scatti rapidi, come se persino l’aria attorno a lui scottasse”.
Anteprima di “Hyde in Time”, Pt. 2
Seconda anteprima di Hyde in Time (qui la prima parte) tratta dal primo manoscritto chiamato Hyde e l’Altro (versione originale ritenuta perduta per sempre de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di R.L. Stevenson), libro a cura di Mario Gazzola dato in anteprima dall’editore Edikit, riusciti chissà come a mettere le mani sul prezioso manoscritto-scoop che riscrive la storia della letteratura gotica e weird; l’immagine è di Jane Mason, coetanea di Stevenson e illustratrice dell’intero Hyde e l’Altro:
…Sensazioni forti.
Corpi.
Frusciar di sete.
Estasi, ebbrezze: il “ragionato sregolamento di tutti i sensi” predicato da quello scellerato poeta francese; fino in fondo all’Ignoto, sia esso il Paradiso o l’Inferno, per scoprire qualcosa di nuovo. Perché le parole ideali per esprimere quel che sentivo appartenevano tutte alla decadente lirica francofona?
Carni esili e sfibrate.
Avvizzite nei bracieri del demonio.
Femminee o infantili, incestuose, animali… come consunte, sfibrate nelle paludi del vizio.
La gratuità del male come unico gesto autenticamente personale. Istintivo, primordiale.
Brutalmente artistico.
E tutto questo senza il marchio della colpa, perché la metà che avrebbe peccato sarebbe sempre stata separata e autonoma dalla metà virtuosa. È stato così che ho iniziato il mio cammino di esperimenti finalizzati ad arrivare alla distillazione di un farmaco che non si limitasse a donare l’oblio onirico alle membra assediate dalla malattia, ma che al mio comando potesse aprire le porte di quella dimensione, della sua conoscenza e della sua esperienza.
Anzi, forse proprio grazie a quello la metà oscura avrebbe potuto definitivamente separarsi dall’altra e vivere stabilmente nel reame del Sogno, non solo in quei brevi e agitati intervalli notturni di cui poi poco o niente io mi ricordavo una volta sveglio. Lui, l’Altro, ancor più e meglio che proiettare le proprie visioni oniriche su un sipario con un nuovo tipo di lanterna magica, avrebbe dimorato stabilmente in quel mondo oltreumano e inesplorato, avrebbe percepito con chiarezza i suoi colori accecanti, i suoi suoni fantastici. Avrebbe varcato tutte le porte della percezione verso l’infinito e gustato, divorato avidamente tutte le esperienze che nella nostra limitata fantasia possiamo solo pallidamente immaginarci e mai davvero toccare con mano. Concepito quel pensiero, quel folle progetto, furono lunghi mesi febbrili, e non solo a causa dell’affezione polmonare. Dopo una serie di fallimenti, che in capo a circa un anno cominciavo a rassegnarmi fossero senza speranza, alla fine sono riuscito ad estrarre dalla Claviceps Purpurea un alcaloide di cui intuivo il grande potere psicotropo: un parassita delle graminacee il cui nome comune è ergot, che in francese significa “sperone” (ho sorriso fra me, pen- 10 sando che la spocchiosa lingua del depravato autore de I Paradisi Artificiali continuava a perseguitarmi).
Ero convinto, e tuttora lo sono, che l’infestazione dei cereali da parte di questo fungo possa causare una contaminazione anche degli alimenti che ne derivano, su tutti il pane di segale. Probabilmente quest’ultima è responsabile di fenomeni d’intossicazione come quelli conosciuti a livello popolare sin dal medioevo con il nome di “fuoco di Sant’Antonio”, “fuoco sacro” o anche “male degli ardenti”, che la superstizione dei tempi andati ha condotto a spiegare come forme di possessione demoniaca. Forse non allontanandosi poi molto dal vero.
Mi accingevo a iniziare una serie di prove scientifiche su cavie animali per saggiare i potenziali effetti venefici dell’alcaloide, peraltro già riscontrati dalle comunità contagiate attraverso il pane, quando una notte di estremo sfinimento febbrile mi ha indotto a sperimentare il farmaco su me stesso senza prima averle portate a termine. Come si capirà, anche se a mia insaputa stavo già siglando la mia fine. (…)>>
Tanto per chiudere lo scoop, posso dire che il racconto di Mario Gazzola presente sull’antologia da me curata LaPrimaFrontiera, penso proprio fosse un attingere segreto al tesoro dissepolto? Se così fosse, sarebbe stato un vero splendido crimine…
Anteprima di “Hyde in Time”, Pt. 1
Tratto dal primo manoscritto di Hyde in Time, ossia Hyde e l’Altro (versione originale ritenuta perduta per sempre de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di R.L. Stevenson), libro a cura di Mario Gazzola dato in anteprima dall’editore Edikit, riusciti chissà come a mettere le mani sul prezioso manoscritto-scoop che riscrive la storia della letteratura gotica e weird; l’immagine è di Jane Mason, coetanea di Stevenson e illustratrice dell’intero Hyde e l’Altro:
<<(…) Sotto l’effetto di alcuni dei farmaci che ho provato per alleviare gli accessi di tosse, le emorragie e le febbri che mi debilitavano fino al deliquio, ho viaggiato lungamente nelle indefinite, sconfinate distese del sogno. Una dimensione lussureggiante e opulenta, fiorita d’informi policromie e di voraci parassiti della mente, che a propria volta in quelle fasi debilitate hanno banchettato lautamente della consunzione delle mie carni. Fantasmi che accendevano la mia psiche quando il corpo giaceva inerte e già quasi senza vita e mi chiamavano a danzare con le loro bizzarre sirene, finché non mi risvegliavo, ancora più esausto e consumato di quando mi ero assopito, incapace persino di gridare gli orrori che mi turbinavano dentro. Peregrinazioni che talvolta mi hanno portato a considerare l’arcipelago dell’onirico una realtà più vera del reale stesso. E la cui conseguenza a lungo termine mi è sempre risultata un inesorabile sgretolamento della vita “reale”, fino al definitivo crollo delle barriere che si presume separino i due mondi.
Nello stesso tempo, però, la consuetudine ad abitare i regni di Morfeo durante le lunghe eclissi di coscienza conseguenti alle mie inusuali terapie ha generato in me una sorta di vorace appetito per le immagini sempre più assurde ed esaltate che da quest’oceano sgorgavano alla mia mente, persino per le più orribili e irripetibili.
Talvolta, dopo una lunga immersione nei miei sogni più morbosi, tornato allo stato di veglia mi scoprivo a immaginare una possibilità tecnica che consentisse di proiettare le visioni che giungevano alla mia mente, su un sipario o una parete bianca, in tutta la loro inconcepibile tavolozza cromatica, magari addirittura accompagnandole con i suoni delle voci e delle turbolente musiche fantastiche che udivo in sogno. Una specie di evoluzione futuristica della lanterna magica: che spettacolo totale e sontuoso sarebbe! Più stordente ed emozionante di qualsiasi fantasmagoria si sia mai vista a teatro.
Subito dopo però mi trovavo a pensare sgomento come avrei potuto sopportare che insieme ad esse venissero visualizzati anche i sogni più immorali e malvagi, che del mio banchetto fantastico erano le spezie più piccanti. Come avrei potuto tollerare che i miei amici, i colleghi medici più stimati di Londra, venissero portati in un ignobile giro turistico nelle grotte più buie della mia coscienza, come in un impietoso denudamento degli aspetti più impresentabili dell’anima?
Dev’essere stato allora che ho iniziato a vagheggiare un metodo, magari un farmaco di concezione radicalmente nuova, capace di scindere le due opposte componenti dell’animo umano, da sempre compresenti in ognuno di noi e in perenne conflitto: da un lato la coscienza razionale diurna, vigile e moralmente retta, dall’altro quella che definirei “incoscienza onirica”, bramosa e priva d’alcun freno etico alle proprie fantasie. Cominciai così a pensare che, se fosse esistito un simile farmaco, la parte più buona e sana di me avrebbe potuto finalmente librarsi verso l’alto senza la zavorra dell’altra componente, sordida e bestiale. Ma, contemporaneamente, benché fossi restio ad ammetterlo anche a me stesso, la mia mente era ancor più rapita dalla possibilità di liberare nello stesso modo la componente selvaggia e sfrenata al di là di qualsiasi vincolo morale. Anzi, ormai devo riconoscerlo, quest’ultima opportunità mi seduceva assai più visceralmente dell’altra: cos’avrebbe fatto quell’identità malvagia, finalmente sciolta dal benché minimo senso di colpa? In realtà lo sapevo benissimo: il mio pensiero sgusciava come una serpe lungo i vicoli più tortuosi e oscuri, soffocati da foschie purpuree, sulle ritorte e macilente guglie della rocca del sogno in caccia di quel nero lupo predatore, la trasgressione più sfrenata… (TBC)
“Metamorfosi di primavera” è il racconto vincitore del nostro Contest | HorrorMagazine
Su HorrorMagazine il racconto Metamorfosi di primavera, di Filippo Santaniello, vincitore del Contest di Primavera, concorso indetto proprio da HorrorMagazine. Vi lascio all’incipit, che ha dell’inquietante limitaneo all’orrorre.
Io e Nadia giungemmo alla conclusione che l’infestazione avesse origine al di fuori del nostro appartamento solo con l’arrivo della primavera.
Lo capimmo quando ci accorgemmo che, in un solo giorno, sul lato adesivo della trappola antitarme collocata in dispensa, si era formato un ricco ecosistema di farfalline che, per liberarsi dalla prigionia, si dibattevano così forte da lacerarsi le ali, restando tuttavia appiccicate allo strato di feromoni da cui erano attratte.
Erano camole della farina. Conclusa la metamorfosi da larve in falene, avevano volato dal loro nido alla nostra dispensa dove avevano trovato la morte tra atroci sofferenze.
L’infestazione, dunque, proveniva da fuori, e in poco tempo fummo invasi d’insetti.
Per Nadia era una buona cosa.
Era grata per l’abbondanza di ciò che, dopo l’incidente, è diventata la sua unica fonte di nutrimento.
Da quel giorno, mia moglie non è più la persona di prima. Ora si nutre solo di camole e altre specie di insetti. Ecco perché ci sembrava importante scoprire l’origine dell’infestazione: Nadia avrebbe potuto mangiare a volontà – come quando ha sminuzzato coi denti le farfalline incollate alla trappola antitarme – e io avrei protetto dai parassiti primaverili le mie scorte di pasta e carboidrati.
Per cui, avendo appurato che gli insetti non provenivano dal nostro appartamento, abbiamo collocato trappole a feromoni vicino alle porte dei nostri vicini.
La trappola con più insetti, avrebbe indicato la fonte dell’infestazione.
Questo accadeva qualche giorno fa, ma oggi, quando sono tornato a casa dal lavoro e ho letto il biglietto che Nadia mi ha lasciato in cucina, ho capito che deve aver individuato l’appartamento infestato senza di me.
Sul biglietto Nadia ha scritto in stampatello il cognome dei nostri vicini di casa, i Sistopaoli.
Non ho perso tempo…
Secondo estratto dal romanzo “Che la terra ti sia lieve”, @L’orlo dell’Impero, DelosDigital
Ecco il secondo estratto da Che la terra ti sia lieve – qui il primo – mio romanzo collocato nella saga dell’Impero Connettivo ed edito da DelosDigital nell’ambito della collana L’orlo dell’Impero; la cover è di Ksenja Laginja.
L’ebook è disponibile sul DelosStore e sugli altri portali online al prezzo di 3,99€. Buona lettura 🙂
Aureliano montò in macchina, non era nei programmi ma in quel momento, a pensarci bene, farsi un giro per il quartiere gli sembrò una buona idea. Il senso di quella passeggiata motorizzata gli accarezzava l’anima come farebbe un padre col figlio, e alla fine cosa c’era di male se per una volta prendeva l’auto senza meta, per farsi portare dal caso o dai pensieri, dalle energie o da chissà che cosa?
Imboccò il vialone che si apriva fuori dal cancello condominiale; la discesa e le balze lì intorno si coronavano di caseggiati, la vecchia borgata si era data una ripulita e accanto, a poche centinaia di metri, era nato un nuovo quartiere dormitorio dalle pretese piccolo borghesi, in realtà un coacervo di miseria morale cialtrona e ignorante, in cui i comportamenti intolleranti e fascistoidi nemmeno si nascondevano più. Così, si trovò a desiderare di contemplare una natura più vera, meno antropizzata, e se non voleva parcheggiare nei pressi di qualche grande parco – Villa Ada, in fondo, non era così lontana – allora c’era la necessità di spingersi fuori il Raccordo, sapeva già dove.
La Salaria era un serpentone di auto in entrata a Roma, ma lui ne stava uscendo e conosceva abbastanza della zona per sapere quali vie prendere al ritorno senza incappare nel traffico. In breve, la diramazione laterale della via consolare lo portò in un luogo di pace arcaica, e anche se sapeva che storicamente quell’armonia antica era stata, in realtà, la culla di battaglie, soprusi e deliberate oppressioni, si rese anche conto che nessun luogo della Terra poteva essere davvero libero da un bagaglio di crudeltà consumate nel corso dei millenni.
Quel luogo in cui transitava, però, lo sentiva davvero truce.
Chiuso nella sua vettura, guidava sulla stretta carreggiata tra alberi, prati e grandi siepi fiorite; Aureliano si lasciò allora cullare dai pensieri senza imporgli contorni e così il rilassamento della sua mente, la condizione di esule temporaneo dalla sua casa, dalla famiglia e dal lavoro, fu così rilassante che in breve, osservando meglio il panorama in fondo alla valle alluvionale del Tevere, si accorse che il sole stava tramontando proprio in fondo a quella curva, proprio lì dove uno spiazzo erboso poteva permettergli di parcheggiare senza problemi.
“Perché no?”, si domandò, pensando all’opportunità di fare due passi lì, nel luogo bucolico senza tempo, mentre la sera stava prendendo il posto del giorno. Così accostò la macchina sulla piazzola che sembrava fatta apposta per lui, poi spense il motore e scese.
L’aria era frizzante, un certo senso di fresco selvaggio lo avvolse e pure se si era già in primavera da qualche settimana, gli sembrò evidente che dove la natura ha ancora il sopravvento le cose funzionano un po’ diversamente dalle città.
Guardò per terra, per una sorta di istinto. Una banconota da cinque euro era lì, nei pressi dei suoi piedi, accartocciata ma visibile.
“La mia solita fortuna sfacciata per le piccole cose”, pensò Aureliano con un piccolo sorriso sulle labbra, come se non riuscisse a trattenere i segnali di una breve gioia. Raccolse quel piccolo tesoro, “I segnali di qualcosa che interagisce con me ci sono sempre”, gioì ancora poi si fermò, i suoi occhi quasi si chiusero nel fissare un punto vago del terreno, a mezz’altezza, mentre era preda di una riflessione misticheggiante: il tramonto avanzava, e nel frattempo Aureliano cadenzava piccoli passi verso una profondità che aspirava a divenire trascendenza, annotandosi mnemonicamente i sintomi e i segnali di una realtà che appariva diversa da quella che lui e l’umanità, e le faccende da sbrigare in ufficio e la televisione, sembravano considerare vere.
Guardò le siepi, i loro movimenti impercettibili e ondivaghi che obbedivano alla ormai fredda brezza del crepuscolo, e si appoggiò al parafango anteriore dell’auto, ammirando il panorama con qualcosa di simile a un terzo occhio, che rare volte gli si apriva ai misteri del mondo.
“Chissà chi li ha persi quei soldi?” si chiese, mentre stava per rientrare in auto. Si fermò e visualizzò nella sua fantasia un’altra persona che si era fermata lì in precedenza, “Aveva parcheggiato qui anche lui, ma perché?”, e poi si chiese se questi avesse davvero voluto lasciare un segnale, come un semino nel vuoto per concimare qualcosa alla pari di chi, facendo book crossing, cerca di far fecondare idee e cultura lì dove non potrebbero arrivare diversamente.
Mise in moto poco dopo, mentre sull’orizzonte il cielo era già diventato buio. Sentì in tasca quella banconota vibrare di una sensazione, sembrava una suscettibilità che lo prendeva in ostaggio per non lasciarlo andare mai più. “Non si perdono cinque euro, lì, per caso: quei soldi dovevano arrivare proprio a me”, continuò a riflettere. Per analogia sfilarono allora nella sua fantasia sovraeccitata una quantità di complotti mondiali, di cui la metà sarebbe bastata per tenerlo sveglio tutta la notte, in una tensione che è genitrice di ogni paranoia.
Quarta: Aureliano De Magistris lavora nella sede romana di una multinazionale americana, i ritmi serrati di produzione non gli permettono di coltivare la sua vena creativa e così il tedio s’insinua nel suo matrimonio che arranca, mentre l’età avanza.
Su un altro piano di realtà, il sovradimensionale Impero Connettivo sopravvive tra le rovine celate di Roma ed è consapevole del marcio che serpeggia nella globalizzazione del 2018, in grado di strangolare le sparute opposizioni al Mercato e al Business: come si legano gli aspetti di un anonimo presente con alcuni ragazzi e la loro cruenta rivolta nata in un prossimo futuro, mentre fuggono attraverso il passato? Può un cortocircuito spaziotemporale influenzare positivamente l’umanità?
Roma appare a chi la sa riconoscere come una città eterna e strana, in cui sopravvivono i Genius loci del passato.