HyperHouse
NeXT Hyper ObscureArchivio per Alessio Brugnoli
Prima recensione a Tuono d’Estate
Sul blog di Alessio Brugnoli la prima recensione al suo appena uscito Tuono d’Estate, a cura di Davide Del Popolo Riolo. Un estratto del post che omaggia anche il Connettivismo, di cui Alessio è comunque una componente importante:
Davvero un bel romanzo questo di Alessio: in una Roma Anni ’20 ucronica in cui la marcia su Roma l’ha fatta il Vate D’Annunzio l’oppositore Mussolini viene rapito (davanti a Matteotti!). La vicenda ucronica è però più che altro un pretesto per un pastiche divertente e colto che mescola Gadda e Brancati, fa comparire Crowley, cita Emilio Lussu e chissà quanti altri di cui non mi sono accorto. Nota di merito per l’eccellente uso di vari dialetti. Unica pecca del romanzo secondo me è che è troppo breve e lascia tante curiosità, è praticamente la prima parte di un affresco più complesso. Confido però che il bravo autore, di cui questa secondo me è l’opera migliore, troverà voglia e tempo per completare il quadro.
L’altra questione ben identificata da Davide è quella della lingua: una volta la fantascienza aveva una straordinaria capacità di sperimentazione. Ampliava il ridotto ambito semantico della lingua letteraria italiana, introducendo termini provenienti dal lessico scientifico e tecnico e soprattutto è stata una inesauribile fucina di neologismi e sperimentazioni sintattiche. Questo aspetto, con rare eccezioni, come il Connettivismo, si è progressivamente perso: la lingua della fantascienza italiana è diventata sempre più anonima, fredda e vuota, appiattendosi sul doppiaggese (l’italiano del doppiaggio filmico) e quella del traduttese (l’italiano delle traduzioni). Per recuperare la forza eversiva dell’innovazione linguistica, bisogna ritornare a Gadda. Ricordiamolo: una delle caratteristiche principali della lingua usata dal gran Lombardo è la presenza del dialetto, anzi, di molti dialetti: soprattutto del milanese e del romanesco, ma anche del fiorentino (come supporto espressivo autobiografico), del molisano, del napoletano, del veneziano (come supporto espressivo al protagonista del Pasticciaccio, il commissario Ingravallo, e ad altri personaggi, il dottor Fumi e la contessa Menegazzi).
Ma ciò che importa non è tanto il numero dei dialetti e la loro capacità di resa espressiva, quanto il motivo – il significato etico – del loro uso: Gadda, come il poeta Giochino Belli, ma in condizioni storiche e ambientali, culturali, molto diverse e molto più complesse e difficili, aggredisce sia la lingua comune (che esprime il “senso comune”) sia la lingua letteraria (che esprime il conformismo letterario), quando diventano una media d’espressione di per se stessa falsa e ipocrita. L’obiettivo dello scrittore era quello di evidenziare la profonda ipocrisia sottesa alla realtà dello stile di vita della borghesia a lui contemporanea, giocando su un tono sarcastico impietoso e corrosivo, con un linguaggio sferzante ed innovativo, costruito attraverso una miscellanea di strutture dialettali (in parte lombarde, in parte toscane e in parte laziali) unite a termini della lingua colta e ad espressioni e modi del linguaggio scientifico, filosofico e burocratico; costringendo anche i registri stilistici a continui mutamenti, fondendoli in un particolare ed efficace melting pot linguistico, che – seppur spesso di non agevole lettura – appare sempre in grado di produrre nel lettore effetti sbalorditivi: i repentini ed improvvisi passaggi dal sublime al comico, dal tragico al patetico, dal sarcastico al grottesco, colgono infatti sempre di sorpresa anche il lettore più avvertito.
La basilica neopitagorica di Porta Maggiore | ilcantooscuro
Sul blog di Alessio Brugnoli un articolo che illustra la storia della basilica neopitagorica di Roma, scoperta casualmente un secolo fa e di cui non si aveva notizia alcuna dalle fonti storiche. Vi lascio a uno stralcio del lungo intervento, interessante fino in fondo (anzi, alla fine la suggestione diviene ancora più esplosiva).
La mattina del 23 aprile 1917 ai vertici delle Ferrovie va di traverso la colazione: in seguito a un cedimento del terreno, all’altezza di Porta Maggiore, la linea Roma-Cassino è interrotta: il primo pensiero, siamo durante la guerra, va un sabotaggio austro ungarico. Arriva di fretta in furia una commissione del Genio, per ripristinare la ferrovia e scoprire le tracce di qualche bomba nemica: fortuna, non è nulla di tutto ciò. Per conoscere la causa del cedimento le Ferrovie eseguono uno scavo rinvenendo a 3 m di profondità un pozzetto circolare di 90 cm di diametro costruito sopra la volta di una galleria.
Per capire cosa diavolo sia, si infilano delle sonde, che permettono di scoprire una profondissima cavità del terreno, un’aula interrata per un terzo della sua altezza. Potete immaginare l’espressione perplessa del Genio: per cui, per venire a capo del mistero, si decide di scavare un pozzo accanto ai binari attraverso per asportare la terra, in modo che si possa esplorare la sala sotterranea. Così, a ben 13,34 m sotto il livello della ferrovia, è scoperta la nostra cosiddetta Basilica Neopitagorica.
Viene alla luce questo che è uno degli esempi più singolari e interessanti di edificio romano, sia pure di modeste dimensioni (m 12 di lunghezza per m 9 di larghezza). Lo schema è lo stesso che si ritroverà poi nelle basiliche cristiane a partire dall’età costantiniana (IV secolo d.C.): tre navate, con la centrale più grande e terminante in un’abside. L’unica differenza è che, trattandosi di un edificio sotterraneo (il pavimento è a 7,25 metri sotto il piano della via Prenestina), la luce arrivava attraverso un lucernario praticato nel vestibolo. Vi si accedeva in origine da un lungo andito discendente che si apriva in un luogo appartato, appena fuori delle mura.
Una volta liberata la basilica, per renderla accessibile si provvede a scavare un ingresso a livello della strada sottostante e fabbricare una lunga e comoda scala elicoidale che raggiungesse il vestibolo della basilica, completamente interrato al momento della scoperta. Anche se siamo nel pieno della Grande Guerra, a Roma ci si rende subito conto che si trattava di una scoperta archeologica sensazionale, non solo dal punto di vista artistico, ma anche per la storia delle religioni. La basilica, infatti, conserva il complesso più ricco di stucchi decorativi che il mondo romano ci abbia finora tramandato. Essi si rifanno ad alcuni motivi fondamentali della mitologia greca che dovevano avere, quasi sicuramente, un preciso significato simbolico.
Francesco Fornari, già nel 1918, avanzò l’ipotesi che l’edificio fosse adibito al culto di qualche religione iniziatica legata al mondo ctonio, visto che la decorazione a stucchi, faceva intendere un legame con la trasmigrazione dell’anima. Nel 1923 lo studioso francese Jérôme Carcopino arrivò alla conclusione che la basilica dovesse appartenere a una setta neopitagorica. Per un caso fortunato, egli si era imbattuto in un passo di Plinio il Vecchio (Storia Naturale, XXII, 20) in cui si parla dell’erba, chiamata centocapi (centum capita), la cui radice aveva la prodigiosa proprietà di rendere irresistibile per l’altro sesso la persona che l’avesse trovata e raccolta. Cosa che accadde a Faone di Lesbo, di cui si innamorò perdutamente la poetessa Saffo, che, non venendo corrisposta, si suicidò gettandosi dalla rupe di Leucade. Aggiunge Plinio che a questa storia “credono non solo quelli che si interessano di magia, ma anche i Pitagorici”. Il fatto che la raffigurazione della morte di Saffo occupa una posizione importante tra le decorazioni della basilica, situata com’è nella parte superiore dell’abside, ha fatto pensare a Carcopino che il luogo avesse a che fare con la dottrina di Pitagora. Nel 1924 i gravi problemi di umidità portarono alla decisione di realizzare una cappa impermeabile di argilla plastica, che purtroppo non eliminò il problema. Nel 1951 il monumento fu incapsulato all’interno di una struttura in cemento armato, con un’intercapedine realizzata nel solettone di copertura.
La inumanità del potere
Scendo nei sotterranei di un’antica villa a respirare le angosce e le inumanità del potere, fino a disturbarmi con le trascendenze inumane.
Il fisico, ogni altra energia, ma non la dissimulazione abbandonavano Tiberio. Identica la freddezza interiore; circospetto nelle parole e nell’espressione, mascherava, a tratti, con una cordialità manierata il deperimento pur evidente. Dopo spostamenti più frenetici, si stabilì da ultimo in una villa, vicino al promontorio di Miseno, appartenuta in passato a Lucio Lucullo.
Si trovava là un dottore valente, di nome Caricle, il quale, pur non occupandosi direttamente dello stato di salute del principe, era però solito offrirgli tutta una serie di consigli. Costui, fingendo di accomiatarsi per badare a questioni personali, presagli la mano, come per ossequio, gli tastò il polso. Ma non lo ingannò perché Tiberio, forse risentito e tanto più intenzionato a nascondere l’irritazione, ordinò di riprendere il banchetto e vi si trattenne più del solito, quasi intendesse rispettare la partenza dell’amico.
Ciononostante Caricle confermò a Macrone che Tiberio si stava spegnendo e che non sarebbe durato più di due giorni. Da allora tutto fu un rapido intrecciarsi di colloqui tra i presenti e un susseguirsi di missive ai legati e agli eserciti. Il sedici di marzo Tiberio rimase privo di respiro e si credette concluso il suo corso terreno; arrivò poi la notizia che gli tornava la voce, che aveva riaperto gli occhi e che chiedeva che gli portassero del cibo, per rimettersi dallo sfinimento.
Si diffuse il panico in tutti, e si dispersero gli altri, fingendosi ognuno affranto oppure sorpreso; Macrone, senza perdere la testa, fece soffocare il vetusto sotto un mucchio di coperte e allontanare tutti dalla soglia. Così finì la vita di Tiberio a settantotto anni
Io, Druso: continua la saga di De Bello Alieno | Fantascienza.com
Su Fantascienza.com la segnalazione di una nuova pubblicazione per Alessio Brugnoli, autore in grado di impressionare per la sua erudita conoscenza della Storia e delle Scienze, nonché della Matematica, colto di un Fantastico che non ha confini. Per la collana Ucronica di DelosDigital è uscito Io, Druso, continuatore dell’universo creato da Davide Del Popolo Riolo, recente vincitore del Premio Urania.
Giulio Cesare, invece di dedicarsi all’arte della guerra, si è dedicato alla scienza e alla tecnica. E Roma ha fatto un balzo nel progresso (attirandosi l’attenzione malevola dei marziani, ma quello è un problema già risolto). La conosciamo perché l’abbiamo letta nel romanzo Premio Odissea di Davide Del Popolo Riolo, De Bello Alieno; Brugnoli riprende la stessa ambientazione qualche anno più tardi, quando i romanzi grazie alla loro nuova tecnologia hanno attraversato l’oceano e colonizzato quella che loro chiamano Iperborea, cioè l’America del Nord. Qui si trasferisce Druso, in cerca di fortuna. La sinossi:
Due generazioni sono passate da quando, grazie alle invenzioni del Machinarum Magister, la minaccia aliena che incombeva sull’Urbe è stata sventata. La Repubblica ha dovuto affrontare nuove sfide e i romani, la cui curiosità è tale che, per dirla alla Tacito, che né l’Oriente né l’Occidente possono saziare, hanno cominciato a colonizzare la misteriosa Iperborea, abitata da popoli tanto bizzarri quanto affascinanti. Terra che è lo sfondo della strana vita di Tiberio Druso Nerone Germanico eccetera eccetera (perché non voglio infastidirvi enumerando tutti i suoi nomi), per gli amici Claudio, che soprannominato l’Idiota o il Balbuziente dai propri parenti, in compagnia di un pubblicano negato per la matematica, di un inventore iperboreo, di due liberti cialtroni e di un ebreo misantropo, distillò nuovi liquori, scongiurò guerre, sottomise popoli, anche se la Repubblica ne avrebbe fatto a meno, rubò il cuore a una splendida donna, con qualche trascurabile difetto, ma chi non ne ha, e divenne l’uomo più ricco dell’Urbe. Urbe che è lo sfondo delle imprese di Sesto Aullio, il cosiddetto filosofo pratico, del suo biografo e amico, il medico ebreo Giovanni di Tiberiade e del loro mortale nemico, l’Annibale del crimine, Lucio Massovio.
Un omaggio una delle pietre miliari della fantascienza italiana, De Bello Alieno di Davide del Popolo, autore del racconto in appendice, e un altro tassello di uno straordinario universo narrativo peplumpunk.
I Lupercalia | ilcantooscuro
Sul blog di Alessio Brugnoli un articolo sui Lupercalia, festa di metà febbraio dell’antica Roma. Un estratto:
Infatti la festa sacra dei Lupercali ebbe inizio per opera di Romolo e Remo, quando, esultanti per il permesso avuto dal loro avo Numitore, re degli Albani, di edificare una città nel luogo in cui erano nati, sotto il colle Palatino, già reso sacro dall’arcade Evandro, fecero per esortazione del loro maestro Faustolo un sacrificio e, uccisi dei capri, si lasciarono andare, resi allegri dal banchetto e dal vino bevuto in abbondanza. Allora, divisosi in due gruppi, cinti delle pelli delle vittime immolate, andarono stuzzicando per gioco quanti incontravano. Il ricordo di questo giocoso rincorrersi intorno si ripete da allora ogni anno
Con queste parole Valerio Massimo descrive i Lupercalia, che si celebravano a metà febbraio, sulla cui natura si discute da secoli. Cosa sappiamo di questa festa ?
Per prima abbiamo chiaro il luogo da cui partivano le celebrazioni, ossia il Lupercale, posto
“a ridosso del lato del Palatino sulla strada che porta al circo”
Plutarco riferisce nella vita di Romolo che il giorno dei Lupercalia, venivano iniziati due nuovi luperci (uno per i Luperci Fabiani e uno per i Luperci Quinziali) nella grotta del Lupercale; dopo il sacrificio di capre e, pare, di un cane i due nuovi adepti venivano segnati sulla fronte intingendo il coltello sacrificale nel sangue delle capre appena sacrificate. Il sangue veniva quindi asciugato con lana bianca intinta nel latte di capra, al che i due ragazzi dovevano ridere.
Venivano poi fatte loro indossare le pelli delle capre sacrificate, dalle quali venivano tagliate delle strisce, le februa o amiculum Iunonis, da usare come fruste. Dopo un pasto abbondante, tutti i luperci, compresi i due nuovi iniziati, dovevano poi correre intorno al colle, secondo un percorso ancora non chiaro, saltando e colpendo con queste fruste sia il suolo per favorirne la fertilità sia chiunque incontrassero, ed in particolare le donne, le quali per ottenere la fecondità in origine offrivano volontariamente il ventre, ma al tempo di Giovenale, ai colpi di frusta tendevano semplicemente i palmi delle mani.
Questo insieme di suggestioni, tra loro anche contraddittorie, colpirono a fondo l’immaginario del popolo romano, diventando parte del suo folclore. I Lupercalia furono una delle ultime feste romane ad essere abolite dai cristiani. In una lettera di papa Gelasio I si riferisce che a Roma durante il suo pontificato (quindi negli anni fra il 492 e il 496) si tenevano ancora i Lupercali, sebbene ormai la popolazione fosse da tempo, almeno nominalmente, cristiana. Nel 495 Gelasio scrisse questa lettera (in realtà un vero e proprio trattato confutatorio) ad Andromaco, l’allora princeps Senatus, rimproverandolo della partecipazione dei cristiani alla festa. Così, dopo qualche anno, fu progressivamente abolita.
L’arcaica regola
Il trono è stabile quando le regole inumane lo governano al tuo posto. È una regola arcaica, stellare.