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Archivio per BandCamp

Orson Hentschel – Heavy Light | Neural


[Letto su Neural]

Sono passati già tre anni dal suo ultimo album in studio e Orson Hentschel ritorna con una nuova prova, Heavy Light, suo quarto progetto su formato esteso che è composto da otto tracce d’un elettronica sensuale e rarefatta, ricca d’atmosfere space-cosmiche, oniriche e avvolgenti, sonorità che comprendono ritmiche spesso fratturate e misuratissime. Alle composizioni presentate fanno seguito un’installazione cinematografica a 3 canali e una performance visiva dal vivo: fondendo elementi di film, danza e musica in una sintesi espressiva eclettica e formalmente impeccabile. Hentschel espande il formato dell’album convenzionale e l’ispirazione per il tutto, ci spiega, sono state le strade di una Berlino praticamente deserta, durante il primo lockdown causato dall’infezione di Covid 19, evento per il quale la luce è diventata l’elemento più vibrante della metropoli, influenzando sia le immagini che i suoni sui quali stava lavorando. Per Hentschel, insomma, è la stessa vita urbana ad essere caratterizzata da impulsi differenti e i droni, i trattamenti elettronici vari, non fanno che restituire questa complessità mantenendo sempre alta la tensione nella modulazione dei vari tappeti sonori che sono dipanati in maniera assai eclettica e coinvolgente. “Fare una passeggiata in una città vuota ti rende estremamente sensibile all’ambiente circostante, al suono, alla luce o ai movimenti”, racconta Hentschel, che era curioso di sapere come un danzatore avrebbe interagito con questo speciale stato di percezione in un processo di improvvisazione. La collaborazione con la talentosa e magnetica Michelle Cheung è a questo proposito particolarmente riuscita proprio nel video della title track, dove preponderanti sono anche le ambientazioni, razionaliste e notturne, siderali e ballardiane. Stilisticamente lo sperimentatore sembra a suo agio con tecniche musicali che occhieggiano a una qualche narrazione ma la sua operatività infine è indipendente dalle immagini, che sono apparentate alla musica solo successivamente, come in una cronaca soggettiva che ha già interiorizzato le dinamiche del tessuto urbano. A seguito dell’emergenza Coronavirus molte sono state le limitazioni per il settore dei beni, delle attività culturali e dello spettacolo, quella che però non si è mai fermata è la voglia di sperimentare e conservare pronte le energie e la creatività anche in una situazione di forte privazione.

Haptic – Ladder of Shadows | Neural


[Letto su Neural]

Gli Haptic, ovvero Steven Hess, Joseph Clayton Mills e Adam Sonderberg, sperimentatori instancabili alla loro quindicesima prova insieme, con ben otto album in carriera, sono avvezzi nell’esplorazione di zone di confine molto sfumate, incerte fra composizione ed improvvisazione, vantando concerti, installazioni site-specific, residenze e perfomance che comprendono una vasta gamma di collaborazioni, oltre ad attraversare approcci stilistici alquanto differenti. Individualmente, i membri del gruppo hanno registrato per una moltitudine di etichette, tra cui Editions Mego, Relapse, Touch, Thrill Jockey, Kranky e Another Timbre, tra le altre. In questo nuovo progetto, Ladder of Shadows, edito per la 901 Editions di Fabio Perletta, rilascio che è composto da tre distinte composizioni, due che vanno oltre gli undici minuti e un’altra di oltre diciannove, sostanziale è anche la partecipazione di Olivia Block all’organo nella prima traccia e di Salvatore Dellaria ai synth analogici in tutte e tre le incisioni. “We Too Just“ c’introduce subito a una sorta di delicatezza delle trame, che non sono propriamente quietiste pur fra scampanellii e un piano onnipresente, dilatato nei tempi e accompagnato da un flusso incantatorio e ripetitivo. Nella successiva “Once”, la struttura portante del brano è sostanzialmente d’impronta drone-ambient, con frequenze arrovellate su se stesse e feedback ipnotici altrettanto sinuosi e ammalianti. Si chiude con “And Never Again”, con un piano ancora a scandire pause e tempi assai stratificati e meditativi, con synth dalla grana più reticolare, quasi rumori d’insetti e lamentii metallici, persistenti e in contrasto all’instabile ed ellittico flusso melodico. L’effetto è decisamente avvolgente, le spirali e le molte pulsazioni non danno punti di riferimento, risucchiando l’ascoltatore in un vortice lento ma fatale. L’album è stato registrato in un’unica sessione, seppure poi quei suoni sono stati – con la dovuta cura e precisione – manipolati e assemblati, procedimento che è abbastanza usuale per il trio, con Steven Hess e Adam Sonderberg che suonano nel loro studio a Chicago e Joseph Clayton Mills a Tempe, in Arizona, a migliaia di miglia di distanza. Notevole come sempre per 901 Editions anche il packaging dell’uscita che vede ancora il Mote Studio all’opera, abile nello sfornare un elegante e ispirato 6 panel digisleeve.

Kotra – Radness Methods | Neural


[Letto su Neural]

Già “Assemblage Tremor”, prima traccia di questo Radness Methods , ultima opera in solo di Dmytro Fedorenko, aka Kotra, è assolutamente implacabile e annichilente, una sorta di liturgia techno-sciamanica che riporta lo sperimentatore ucraino residente da tempo a Berlino alle sonorità dei suoi esordi, fitte d’un flusso duro, industriale e diretto allo stomaco più che alla mente dei suoi ascoltatori. Tutta la scrittura delle sette composizioni presentate ha come riferimento quelle che sono le tipiche scansioni della musica rituale del tamburo e delle tecniche di meditazione dinamica. Il concetto è quello di una serie di azioni sonore astratte, piuttosto che eventi musicali, il cui effetto sia un’esplorazione di stati particolari di realtà non certo ordinari. Sono iperventilazioni acustiche, alla stregua di quello che nelle tecniche sannyasin sono esternazioni del pensiero attive e irriverenti, quelle alle quali ci sottopone Kotra, forte d’una coerenza frutto d’un percorso artistico assai complesso e travagliato. Naturalmente c’è chi subito ha scorto qualcosa di “pugilistico” e “guerresco” in questi solchi, blandendo la metafora della “resistenza” senza che l’autore facesse a tal proposito una seppur minima dichiarazione. La resistenza che noi scorgiamo, invece, è la stessa che ha portato allo scioglimento della Kvitnu, quella di “un nuovo inizio”, quella di cogliere i momenti di crisi per cambiamenti ancora più radicali, quella che nell’essenza d’un suono industriale, metropolitano e urticante innesta sacralità primordiali, indirizzando la carica concettuale che ancora rimane in circolo nella società a un livello più essenziale e diretto. Non si tratta di risultare più o meno disturbanti alla stregua di un mercato oramai mainstream, quanto piuttosto di ribaltare quella che è l’alienazione quotidiana di un conformismo che penetra ogni ganglio della contemporaneità e quindi anche gli svariati ambiti della produzione artistica. Non ci sono vie di mezzo e anche le mescole, per esempio, fra suggestioni industriali e algide geometrie elettroniche, sono assolutamente funzionali al flusso, un nuovo corso che infonde una potenza metallica e straniante, battente e inquieta. L’uscita va ad arricchire il catalogo del nuovo progetto discografico di Dmytro Fedorenko, la Prostir, etichetta fondata nel 2018 e focalizzata proprio su dissonanze e suoni corrosivi innestati su ritmiche sostenute. In fondo quello che Kotra ha sempre fatto è occuparsi di forme sonore estreme: sono quelli i suoi strumenti.

 

Various Artists – Urbsounds Unpolished Fidelity | Neural


[Letto su Neural]

Ventesimo anniversario per il collettivo DIY di Bratislava che fa capo alla Urbsounds, etichetta che non ha mai dimenticato il suo passato punk, nell’accezione più politica del termine, che è quella di riflettere la parte più desolata di questa società, le cicatrici d’una espansione distopica nella quale viviamo e siamo organicamente integrati. I suoni che aleggiano fra le ultime uscite dell’etichetta e anche in questa raccolta celebrativa sono ancora quelli di un’elettronica sperimentale rumorosa e abrasiva. Atmosfere che restituiscono bene lo spirito degli spazi industriali abbandonati e degli squat anarchici dei decenni precedenti. A volte, come dice Alvin Toffler, “il futuro arriva troppo presto e nell’ordine sbagliato” e – come in una sorta di macchina del tempo – generazioni differenti si rincorrono, stabiliscono chi siano i nuovi maestri e quali i fenomeni che hanno segnato veramente la storia. Certo non è una celebrazione elegiaca, “è musica che non sarà mai popolare”, affermano gli stessi fondatori del collettivo, che mantengono limitata questa volta la partecipazione al progetto ai soli sperimentatori di area slovacca. Sintetizzatori e generatori di suoni hanno sostituito le chitarre elettriche, questo è evidente e a Urbanfailure e RBNX, fondatori del progetto, sono stati affiancati Daniel Kordík, Monika Šubrtová, NDS e Dead Janitor solo per citarne alcuni. Anche i generi attraversati sono molteplici e troviamo sia techno lenta e piuttosto scura, idm, profonde immersioni psichedeliche e hard techno, intrecci che sono comunque frutto di subculture parecchio specifiche. “È musica per i fedeli”, ancora sottolineano quelli del collettivo. Le pratiche di campionamento, edit, masterizzazione e tutto quello che concerne il lavoro in studio, insomma, per quanto molti di quei punk d’un tempo siano diventati adesso stimati artisti e produttori, è sempre meno decisivo se rapportato a quella particolare magia che riesce a mettere assieme gente altrettanto disparata durante un rave, quella energia molto fisica che era il preciso condimento di pratiche musicali e di vita certo molto particolari e forse caratteristiche d’un periodo. A noi del cespo è alquanto piaciuta proprio l’ultima traccia dell’album, “Walking In My Issues”, a firma RBNX, quattro minuti di rarefatte e dissonanti dissertazioni elettroniche, nere come la pece.

Marc Matter – Could Change | Neural


[Letto su Neural]

La tradizione delle avanguardie storiche del novecento ancora produce un ideale confronto fra differenti generazioni se per presentare un’opera come Could Change di Marc Matter e spiegarne il senso si tira in ballo un assoluto classico, scritto più di 50 anni fa, I Am Sitting In A Room di Alvin Lucier, composizione nella quale l’autore metteva in evidenza le risonanze acustiche specifiche di uno spazio neutro e alcune basilari leggi della registrazione, dando inizio a tutto un filone metamusicale che letteralmente è incentrato sui processi e non sul realismo delle narrazioni o sulle atmosfere e che non si poggia sulle attentamente studiate combinazioni di accordi della vulgata dodecafonica. Matter, sound artista ed eclettico sperimentatore intermedia, ha esordito alla fine degli anni ’90, collaborando con l’Institut für Feinmotorik, del quale è stato anche uno dei fondatori. Il suo approccio sperimentale e multiforme lo ha fatto spesso spaziare negli ambiti dell’editoria d’artista, dell’arte acustica e della poesia sonora e visiva. Insieme a Marcus Maeder e Bernd Schurer, Matter ha anche interpretato un romanzo dadaista di Hugo Ball sotto forma di radiodramma sperimentale per Radio DRS2. In “Could Change”, opera di quasi 24 minuti, come nel pezzo appena citato di Lucier, più o meno della stessa durata, è sempre il loop di una registrazione vocale a focalizzare l’attenzione degli ascoltatori, una clip registrata a intervalli che cambiano progressivamente ed esibiscono il fraseggio della voce, in questo caso computerizzata, che evolve e cambia impercettibilmente un vacuo canovaccio testuale. L’effetto – al di là d’ogni tentazione di gradevolezza – è ipnotico e serrato, con cambiamenti quasi impercettibili nel tempo che fanno sprofondare all’ascolto in un ambiente virtuale indefinito e giaculatorio, come un mantra, insomma, ma dove il “verbo” non ha alcun significato intelligibile, cambiando in continuazione come il titolo stesso evoca. Tecnicamente quello che accade è che frammenti ripetuti di un linguaggio incomprensibile nella sua iterazione più o meno mozza ma efficace assurgano a una dimensione altra e degna di nota, nelle inedite sembianze di musica meditativa e di celebrazione accorata d’una avanguardia pre-internettiana.

Due anni di “Schegge di ossidiana”


Oggi cade il secondo anniversario dell’uscita di Schegge di ossidiana – Fiabe dall’Impero Connettivo, un progetto di musicalizzazione dell’Impero Connettivo, di uno Stato a metà strada tra il weird e la SF che, come l’Impero Romano, si espande sullo spazio, ma anche sul tempo. A capo dell’ecumene di postumani c’è un imperatore nephilim, la moneta corrente è l’informazione.

L’intero disco, nato dalle stupende realizzazioni sonore di Stefano Bertoli, Lukha B. Kremo (Krell) e Arnaldo Pontis (Magnetica Ars Lab) è ascoltabile qui sotto, mentre sulla pagina BandCamp di HyperHouse potrete reperire altre info; parole e voci su “Flaminae suit” sono mie e di Ksenja Laginja, mentre la cover è opera di Ksenja Laginja.
Il carnet dei brani è acquistabile a 5€, un singolo brano a 0,99€, il CD a 7€.

Niton – Cemento | Neural


[Letto su Neural]

“Usimende”, primo brano in scaletta di Cemento dei Niton è subito fascinoso, notturno e molto immaginifico, assolvendo perfettamente al compito d’introdurre sonorità con particolare cura lavorate, sognanti e in qualche modo neo-psichedeliche o krautrock. I pezzi proposti sono quelli suonati live nell’arco degli ultimi quattro anni dalla band, che è formata da Luca Martegani (ai sintetizzatori analogici), El Toxyque (con una ricca strumentazione che va dal banjo alla pipa, passando per il marranzano e svariati altri oggetti musicali) e Zeno Gabaglio (principalmente al violoncello elettronico), incisioni che adesso sono pubblicate dalla Pulver und Asche di Chiasso e dalla berlinese Shameless e sono state mixate e masterizzate nello studio e laboratorio di sperimentazione sonora del trio a Barasso, vicino Varese, zona di laghi alpini e pace assoluta. Il coacervo di elettronica e acustica, nervi e piacevolezza, suoni sperimentali e melodia, atmosfere cupe e lisergiche, diventa il pretesto per lo stesso titolo dell’album, che evoca il cemento, un materiale che in realtà è a sua volta l’insieme di altri materiali e tecniche, minuziosamente agite allo scopo d’ottenere qualcosa di più resistente, compatto e coerente. A questa solidità multiforme delle trame s’aggiunge una notevole dose d’estetica e concettualismo che trovano la maniera d’esprimersi anche nei video di RO-M, ovvero Roberto Mucchiut, che accompagnano ognuno dei sette brani presentati e dall’artwork decisamente raffinato, che si deve a Julian Lars Gosper e ad Alfio Mazzei che ha invertito uno dei presupposti fondamentali dell’editoria musicale, sovrapponendo contenuto e contenitore. Uno dei brani, “Maas”, è infatti stampato su un flexi-disc trasparente che mediante una saldatura plastica diventa l’imballaggio del tutto, mentre il disco di cartone posto all’interno ha delle scanalature che non gli permettono di riprodurre musica. Al contrario: il disco di cartone quando è nel suo contenitore ostruisce il foro che permette di fissare il flexi disc al piatto del giradischi. Quindi per poter ascoltare la musica occorre rimuovere il dischetto di cartone e posizionare il contenitore direttamente sul giradischi. Noi vi consigliamo di lasciare tutta la confezione com’è e di ascoltare i file digitali ad alta definizione e possibilmente in cuffia: l’effetto è comunque notevole.

Sargo / Posidonia (CSR317LP) | Sleep Research Facility / Llyn Y Cwn | Cold Spring


Storie di uno spazio profondo, sterile, concentrato su dettami non antropocentrici. Ascoltane il suono, e fluisci nell’inumano.

Matmos – Regards​/​Ukłony dla Bogusław Schaeffer | Neural


[Letto su Neural]

Anche un oscuro compositore come Bogusław Schaeffer (ma non così oscuro da essere confuso con Pierre Schaeffer, il teorico della musica concreta) può assurgere a raffinato espediente per le manipolazioni elettroniche dei Matmos, ovvero Drew Daniel e Martin C. Schmidt, duo di Baltimora che negli anni ha imposto un’operatività sempre in bilico fra ricerca e piacevolezza, concettualismo e groove, rigore (a particolari vincoli autoimposti nella produzione dei loro album) e disinvoltura. In questo caso l’ispirazione è arrivata da un sample pack della musica di Schaeffer realizzato dal Polish Radio Experimental Studio (PRES), una delle prime istituzioni nell’Europa del blocco orientale dedicate alla musica sperimentale ed elettronica, particolarmente specializzata, a partire dalla fine degli anni cinquanta, nel fornire materiali per quelle che erano le nuove esigenze di cinema, radio e televisione. Nel tentativo di far conoscere più ampiamente la storia dello studio sperimentale radiofonico polacco, l’Instytut Adama Mickiewicza (IAM), ha commissionato la produzione di una libreria di campioni da alcune delle opere realizzate in quegli studi. Al giorno d’oggi, la creazione di campioni è il modo più semplice per dare una seconda vita alle registrazioni d’archivio e i Matmos hanno pensato bene di servirsene assecondando anche la tendenza imperante – in epoca post-techno – di andare alla ricerca delle radici analogiche del suono digitale contemporaneo. A livello tecnico poi, le pratiche di un centro come il PRES, proprio per la sua vocazione “commerciale”, erano piuttosto simili a quello che oggi fanno molti degli artisti elettronici ed anche i Matmos, campionare opere proprie o di altri compositori, attingere al pop (o se preferite alla musica popolare), riutilizzare lo stesso materiale in diverse composizioni in modo “simile a un remix”, aggiungendo impulsi ritmici regolari a suoni e trame sperimentali. Anche Bogusław Schaeffer, come molti altri compositori polacchi della sua generazione, si muoveva fra modernismo piuttosto classico e sperimentalismo, dando però vita a seminali suoni elettronici e partecipando all’attività del Gruppo di Cracovia guidato dal regista teatrale e pittore Tadeusz Kantor, un’assoluta icona delle scene d’avanguardia internazionali. Il risultato di questo leggiadro recupero dei Matmos, adesso, scevro da ogni velleità critica rispetto agli originali ed essendo estremamente libero ogni utilizzo dei materiali scelti, è nel complesso godibilissimo. Il ricercato taglia e cuci conferma l’abilità del duo, imbattibile in studio così come nell’inventare per le proprie uscite relazioni e teorie sempre accattivanti ed esteticamente coerenti.

 

Özcan Saraç – Copnvvvs | Neural


[Letto su Neural]

Copnvvvs è il debutto su formato esteso dell’artista, musicista e conceptual performer Özcan Saraç che va ad arricchire il catalogo della Kaer’Uiks, etichetta tedesca dedita a un experimental piuttosto rumorista, poliritmico e venato da decostruzioni digitali dalle multiformi sfaccettature. Assecondando le linee di ricerca dell’etichetta, anche in questo caso la mescola è iper-vivida, con forti venature glitch, noise e IDM, categorie stilistiche che oramai danno vita a indefinibili connubi, ai confini di molteplici pratiche artistiche e musicali. Il fuoco d’artificio elettroacustico ed elettronico è continuo nelle undici tracce presentate, senza sosta alcuna, assecondando un flusso seghettato e ansiogeno, poco propenso a soluzioni di comodo. Copnvvvs è opera vetriolitica ma elegante nel suo compact disc in policarbonato nero (con stampa negativa sullo strato superiore cromatico), accompagnata da un digipak a 6 pannelli di alta qualità in un’edizione limitata di soli 50 pezzi. La prima traccia dell’album, “AaAC7ES7F2n”, è subito rappresentativa della potenza messa in campo: sono dieci minuti d’iperboli dense e digitali, con parti vocali ricche d’effetti e manipolazioni varie, a malapena riconoscibili come tali, sottostanti ad un taglia-e-cuci assai abrasivo, martellante, pieno di gorgoglii, sciabolate sintetiche, sussulti percussivi e intrecci elettroacustici portati a uno stadio di parossismo auditivo. Non c’è nessuna melodia a far capolino fra i solchi, nessun contrasto organizzato ad arte fra le parti (pieno-vuoto, rumore-silenzio, interno-esterno). Tutto è compresente, sullo stesso piano, esibito in maniera sfacciata. Özcan Saraç vanta un curriculum e un approccio da artista globale – più che da musicista – e non cede a compromesso alcuno, sviluppando un impatto rumorista oltremodo contundente. Il suo riottoso brutalismo glitch generativo colpisce nel segno, anche in questo caso “sopra ogni cosa”, parafrasando il titolo di una sua installazione dalle altrettanto potenti istanze attiviste e politiche. Alle paure ingiustificate prodotte dalla simulazione messa in scena su scala globale la maniera di un artista di rispondere al controllo centralizzato è quella d’aumentare il grado di radicalità e scontro estetico andando a destrutturare – ad esempio – proprio le abitudini d’ascolto e i concetti di gradevolezza, decoro e armonia.

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