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Cristianesimo psichedelico (parte I): Maria Sabina e l’«eucarestia fungina» – Axis ✵ Mundi
Su AxisMundi operazioni di sincretismo tra cattolicesimo e sciamanesimo, applicati in uno dei territorio più istintivi della Terra: il Messico (ma non solo lì, il discorso poi si sposta anche altrove, ed è tutto un fiorire vegetale). Un estratto:
Il titolo che si propone per questo intervento può sembrare una provocazione bella e buona, un attentato alla sacralità stessa della religione cattolica. Tuttavia, passato il comprensibile trasalimento, proviamo a spiegare le limpide ragioni che ci hanno portato ad adottare una così inconsueta titolazione per presentare questo lavoro. L’idea di questo intervento è nata dalla volontà di proporre un breve ed essenziale ritratto di un’esperienza spirituale, nata dopo la prima metà del secolo scorso, che ha coinvolto in maniera totalmente inaspettata una sciamana mazateca, una “Sabia” (e non una “semplice” curandera come si riporta in alcune biografie), la celebre Maria Sabina. In quelle terre, oltremodo oltraggiate da una predazione secolare, era da tempo in atto un processo sincretistico in cui gli elementi propri dello sciamanesimo dell’area, che ha forti e ovvie comunanze con tutto lo sciamanesimo centro e sud americano ed in cui l’uso delle “piante degli dèi” era elemento costitutivo della consultazione o, comunque, della liturgia, si sono commischiati con il provato cattolicesimo di Maria Sabina che, nonostante l’insorgere della sua vocazione sciamanica e la pedissequa pratica che da certi eventi scaturì, mai smise di partecipare attivamente al processo di apostolato presso il suo popolo, mantenendosi parte attiva di un paio di confraternite, quale, ad esempio, quella del Sacro Cuore di Gesù. In alcune foto la si vede ritratta mentre procede ad incensare i “funghi bambini” (di cui subito dopo si parlerà), prima della seduta di Velada (veglia notturna) a dimostrazione che non v’era contraddizione tra la sua fede e la sua pratica scamanica. V’è da dire, a premessa di tutto, che quindi Lei, come altri sciamani locali, non fece mai opera di proselitismo di una religione basata su un ipotetico “culto del fungo”, non propose revivals nativi, piuttosto Maria Sabina spese i sui naturali e/o soprannaturali talenti, lasciando libero l’interprete di qualificarli secondo il proprio orientamento, in una instancabile opera di soccorso e guarigione rivolta ai suoi conterranei afflitti da numerosi malanni che, da tempo immemorabile, li perseguitano.
“Non ho mai visto i demoni, anche se per andare là dove devo andare, attraverso i domini della morte. Mi sprofondo e arrivo fino in fondo. So cercare nelle ombre e nel silenzio. In questo modo, arrivo là dove le malattie si nascondono. Molto in fondo”.
“Un altro elemento essenziale deve essere preso in considerazione le piante sacre, deità, in sé, agiscono in virtù delle loro proprietà mistiche; cioè non è la pianta propriamente detta che guarisce, ma la divinità, una parte della divinità, o il potere magico con essa nascosto. Affinché la pianta conservi questo potere, e indispensabile adottare tutto un complicato rituale, sia per la raccolta che per la preparazione e la somministrazione; se questo rituale non viene rispettato, essa non ha alcun effetto curativo, poiché non sono le proprietà farmacologiche delle piante che agiscono, ma le loro proprietà mistiche.”
Dare a Cesare. Martin Lutero sul rapporto tra autorità spirituale e spada secolare 1/3 – Carmilla on line
Su CarmillaOnLine la prima puntata di una ricognizione attorno al concetto, sostanzialmente, di cesaropapismo, ovvero la tendenza delle autorità ecclesiastiche di comportarsi come gli imperatori romani.
Martin Lutero è considerato a ragione un imprescindibile elemento di quella trasformazione sociale conosciuta come la Riforma che, assieme ad altri fattori, ha traghettato la realtà europea e l’intera tradizione culturale europea verso la cosiddetta Modernità.
Osservando le azioni e i pensieri della figura storica si può rimanere interdetti non solo di fronte alla complessità, ma anche all’apparente discontinuità del personaggio e della sua esperienza. Questo lavoro vuole parlare della visione di Martin Lutero sulle responsabilità del potere temporale in relazione alle materie di fede concentrandosi in parte su un evento particolare, la condanna dei moti contadini: il Lutero precedente dal 1925 è coerente con quello successivo? È plausibile l’accusa di essere il grande maestro della “Libertà di coscienza” ed il nonno dell’illuminismo, oppure il suo lascito culturale è stato diverso rispetto a quanto certe semplificazioni vorrebbero suggerire?Il cristianesimo prende le distanze dall’atteggiamento persecutorio di cui era vittima; la concezione della “forza” del cristianesimo, in antitesi con la repressione subita per conto delle istituzioni imperiali, si avvalora della nozione di centralità della realtà spirituale per esemplificare la necessità di ricorrere ad armi alternative alle lame terrene per difendere la fede o fare proselitismo, quali la mitezza e la forza della propria superiorità morale, nonché l’ostracizzante della scomunica come estremo rimedio contro “pertinaci”, “anticristi” o “maghi”, che mettano in pericolo con le loro sregolatezze il successo dell’unanime missione del consorzio cristiano; nessun predicatore o legislatore si deve permettere di alzare le mani contro chiunque.
Una novità costituita dal cristianesimo è la prorompente divisione in due spazi della comunità/legalità: la comunità del cristiano, realizzazione in terra della comunità spirituale, la cui partecipazione viene scelta in virtù della propria coscienza in risposta alla rivelazione, si sommava alla comunità civile, la cui autorità temporale doveva giustamente far rispettare le norme del diritto pubblico, ma non farsi carico della vita spirituale dei cittadini[2].
Dopo le macchinazioni di Costantino, la crescente fortuna politica del Cristianesimo cambiano le carte in tavola: mentre il Cristianesimo diventa il nuovo instrumentum regni di un ordine imperiale necessitante un rinvigorimento intellettuale, gli imperatori si trasformano da persecutori a garanti e successivamente difensori di questa fede monoteista e perciò salutare per la tenuta del dominio politico, cosicché° il potere temporale si risolse infine in protettore ed impositore della fede cristiana e del suo dogmatismo, in contrasto con le minacce rappresentate dal rinnegato paganesimo e da correnti eretiche e scissioniste; il rifiuto della novella divenne reato di lesa maestà come lo era stato il rifiuto del culto dell’autorità imperiale. Anziché creare da subito una connivenza di poteri, il cesaropapismo scatenò un putiferio intellettuale per tutto il periodo della tarda antichità, con numerosi teologi ed ecclesiastici che sconsigliavano non solo l’eccessivo coinvolgimento del braccio secolare, adducendo l’abolizione della regalità ierofora dell’antico Testamento e i discorsi di Cristo sui due regni, ma addirittura il ricorso a misure temporali eccessivamente crude e sanguinarie nella persecuzione persino dei più tracotanti eretici; e non mancarono neanche parole favorevoli all”intervento statale”.
Nel caso di Agostino d’Ippona (che avrà una sua influenza pesante su Lutero) si assiste ad un processo di mutamento: il padre si mostrò dapprima favorevole ad un atteggiamento clemente contro i disturbi donatisti nel nord Africa, ma col tempo, arrivò a giustificare l’intervento dell’autorità contro gli eretici elaborandolo anche grazie ad una rilettura della parabola della zizzania, in nome dell’ordine sociale e della sicurezza della cittadinanza, scongiurando certamente i rimedi più sanguinari, ma offrendoci un esempio calzante di questo atteggiamento ambivalente[3].Diversi secoli dopo, il vecchio mondo in lento declino della romanità ormai traviato e sublimato da un’apocalisse civile inaudita, in Europa sorge una nuova civiltà, che come succede abitualmente rielabora gli spunti dei predecessori ridotti in polvere: la nuova grande autorità civile è un imperium basato su una realtà feudale che tenta di combinare la cultura del diritto a principi politici nordici, e accanto a lui sorge un’autorità spirituale ormai radicata e potentissima, dotata di un monopolio culturale inedito che ha relegato il paganesimo a vestigia di ceti umili, o ad enclavi poste ai confini dell’oikumene, destinate ad essere assimilate nella grammatica con il proselitismo mansueto e nella pratica con episodi di conversione forzate, o alle alterità minacciose in agguato al di fuori di esso. Questo mondo non vanta più due civitas separate: di fatto il Sacro Romano Impero assomiglia ad un mostro bicefalo, un guerriero che impugna le due spade, quella dell’autorità celestiale e temporale, e sull’utilizzo delle quali i due cervelli continuano a litigare tranne quando le coordinano contro i nemici da schiacciare, ammettendo inconsciamente o esplicitamente di condividere però gli stessi visceri.
Il corvo. Una storia simbolica – TRIBUNUS
Su Tribunus un esauriente excursus sulla simbologia incarnata dal corvo nel mondo romano e antico in senso lato, e nel mondo medioevale e cristiano. Un estratto:
Il corvo era l’uccello solare per antonomasia, il creatore del Mondo, il messaggero degli dèi, la guida delle anime nel viaggio ultraterreno, l’unico animale in grado di prevedere il futuro e capire il senso di tali visioni.
Nell’Europa antica e medievale erano molti i popoli che avevano in questo uccello un vero e proprio oggetto di culto, in particolare Slavi, Celti e Germani.
Nel mondo greco il corvo era associato a molte divinità (in particolare, ad Apollo), ma non era considerato fondamentale per il culto.
Questo uccello era visto come un essere ambiguo e contraddittorio: intelligente ma vanitoso, perspicace ma iracondo, loquace e onnisciente.
Nel mondo romano, il colore nero del suo piumaggio non suscitava né diffidenza né paura. Anzi, sono molti gli autori latini che tessono le lodi del corvo e lo considerano il migliore tra i volatili.Il corvo presso i Celti
Nelle lingue celtiche, come il gaelico o il gallese, il corvo è indicato col termine bran. Questo sostantivo può però riferirsi anche alla cornacchia, dato che per molte culture questa era considerata la femmina del corvo (come invece sappiamo noi oggi, la cornacchia è un uccello diverso, anche se appartenente alla famiglia dei corvidi).
Il corvo era attributo del dio Lug (“Lugos” in Gallia, “Lugh” in Irlanda), una delle principali divinità del pantheon celtico, il quale ascoltava sempre il parere dell’animale. Per i Celti d’Irlanda, i corvi erano spesso associati alla guerra e alle battaglie. Erano infatti attributi della dea della guerra, Morrigan.
Altra divinità celtica che poteva assumere le sembianze di un corvo era Bodb, nota anche come Cathubodva (“Corvo della Battaglia”), sorella di Morrigan e ancora più temibile, amante del sangue e delle maledizioni. In battaglia non soccorreva mai i guerrieri, ma ne attendeva la morte per impadronirsi dei loro crani.
Lo spirito evapora dal passato
Da sovrapposizioni multiple focalizzi un solo simbolo, potente e determinato, in cui un’intera classi di umanità ha vissuto la sua realizzazione menomante.
Giovanna d’Arco, le Fate e “San Michele” | AxisMundi
Su AxisMundi – dove, come sempre, gli articoli sono molto interessanti – un piccolo trattato su Giovanna d’Arco e le fate, e le sue visioni mistico-surreali. Un buon estratto:
Sebbene molti ritengano che, storicamente, l’Europa sia da quasi mille anni interamente cristiana, lo studio delle testimonianze d’epoca, a partire dai processi alle streghe e dai canoni ecclesiastici, ci racconta una storia ben diversa, che emerge tra le pieghe per chi la sappia vedere. Per gli studiosi della storia delle religioni dell’ultimo secolo, d’altronde, la contrapposizione cultuale e ideologica che oppose, per quasi due millenni, il cristianesimo e le religioni native europee è cosa nota.
Giovanna d’Arco era nata a Domrémy: questo luogo era noto nell’antichità per aver dato i natali a numerosi sensitivi e guaritori, individui cui nella tradizione celtica si attribuisce la cosiddetta «seconda vista». Non lontano dal villaggio svettava un faggio, denominato dai popolani «l’Albero delle Fate» o «delle Signore». Era un faggio, da cui si ricavava ogni anno, per la festa di fine anno, il «palo di maggio» (o, più semplicemente, «il maggio»). A poca distanza sorgeva una fonte sacra, alle cui acque si attribuiva il potere di guarire le febbri. Giovanna fin da bambina danzava intorno all’Arborum Dominarum, intrecciava ghirlande di fiori freschi e ne decorava i rami in onore all’immagine di Santa Maria di Domrémy, e «cantava canti e carmi con certe invocazioni». È evidente che il substrato mitico e sacrale del luogo è tutto fuorché cristiano: siamo nell’ambito del culto delle Fate (Faés) o «Dame Bianche», di sapore inconfondibilmente celtico. Quella del fairy-tree è una tradizione ancora oggi diffusa in Irlanda: io stesso ne ho visitati un paio, presso la sacra collina di Tara e la tomba a corridoio di Carrowkeel, siti entrambi risalenti al Neolitico (il che la dice lunga sulla longevità storica di certi culti).Era inevitabile che prima o poi se ne accorgesse anche il potere ecclesiastico, ancor più allarmato in quanto correva voce tra i popolani che Giovanna avesse ricevuto la sua missione divina dall’Albero delle Fate. Sotto le sue fronde aveva udito delle voci, che da quel momento in poi la indirizzarono in tutte le decisioni più importanti della sua vita. Durante gli atti processuali, interrogata dagli inglesi, confessò che la sua madrina aveva visto le Fate e ci aveva parlato, ma sottolineò il fatto che ella era «una donna buona, e non una divinatrice o una strega». Le confessioni della giovane ricordano quelle dei Benandanti friulani quando vennero interrogati dall’Inquisizione, tra il XVI e il XVIII secoli, sui proprî caratteristici culti «estatico-agrari», di netta impronta pagana: come questi anche Giovanna riceve nottetempo le visite di un «angelo di luce», che scoprirà poi essere San Michele.
«Quelli della mia parte sanno bene che la voce mi fu mandata da Dio, hanno visto e conoscono questa voce. Anche il mio re e molti altri hanno udito le voci che venivano a me… Vidi lui [San Michele] con gli occhi del mio corpo, come vedo voi», si difese Giovanna, affermando di averlo visto molte volte prima di sapere che era San Michele, quando era ancora bambina. Obbedendo alle voci, la novella Vestale era convinta di fare la volontà delle «Persone Sante», di cui San Michele era il comandante nella millenaria guerra contro il Male. Rifiutò ostinatamente di giurare sul Vangelo e fu difficile persuaderla a fare lo stesso col messale, e quando le domandarono se avesse mai bestemmiato Dio, rispose che «non aveva mai maledetto i Santi». Chiestole se avesse mai rinnegato Dio, affermò di «non aver mai rinnegato i Santi»: «io credo alla Chiesa che è in terra».
Giovanna era convintissima della sua missione divina, e nessuno avrebbe potuto convincerla del contrario. La Francia, d’altronde, si era salvata grazie a lei, e alle voci a cui ella obbediva. All’inizio del processo disse che «era venuta da Dio» e che «non aveva niente da fare qui», chiedendo a gran voce di essere rimandata al più presto donde era giunta. Come il Salvatore cristiano, sapeva già che il suo tempo era limitato, perché glielo avevano rivelato le voci delle Persone Sante: sarebbe stata presa «prima della festa di S. Giovanni», cioè il solstizio d’estate. Tuttavia le dissero anche che non doveva affliggersi ma accettare fino in fondo il suo destino e la sua missione, che sarebbe infine giunta nel regno dei cieli. Su queste entità divine, che sebbene negli atti del processo denomini «angeli» presentano molteplici punti di contatto con i fairies (lett.: «i luminosi», «gli splendenti») del folklore celtico, aveva detto ai suoi accusatori: «Vengono spesso tra gli uomini senza che nessuno li veda; io stessa li ho visti molte volte in mezzo alla gente».