Archivio per Margaret Thatcher
9 febbraio 2023 alle 21:38 · Filed under Creatività, Deliri, Disumano, InnerSpace, Oscurità, SF, Tersicore and tagged: Anarchia, Animals, Classifiche, Distopia, Luce oscura, Margaret Thatcher, Pink Floyd, Punk, Ridefinizioni alternative, Roger Waters
Su OndaMusicale un articolo che elegge il miglior albume dei Floyd; quale? Animals, of course…
Taluni amici sono riusciti a sparare la pallonata che Wish You Were Here sia invece il migliore, commettendo diversi reati di opinione in rapida sequenza. Aggiungo che, ovviamente, quando parlo di album dei Pink Floyd parlo di quelli veri, quelli con Syd Barrett al comando e poi quelli guidati da Roger Waters. Una volta uscito Roger dalla band, i Floyd valgono il dieci per cento del valore totale, in termini artistici compositivi. Hanno suonato a Venezia sulla bagnarola galleggiante? Sempre dieci per cento, forse anche meno. Se per ottemperare all’assenza di Waters devi mettere su una band con più del doppio dei musicisti e portarli a Venezia per distrarre il pubblico dal vero show… (Mi andava di dirlo questo, per aumentare l’astio e la strafottenza di questo articolo.)
Togliamo di mezzo Syd a cui vogliamo tutti bene, togliamo di mezzo The Piper at the Gates of Dawn e lo mettiamo tra i più grandi dischi di musica psichedelica — così nessuno si spazientisce. Poi togliamo (sono belli, eh!) Meddle, Atom Heart Mother, Ummagumma, Obscured by Clouds, A Saucerful of Secrets. E anche More. Rimangono i Fantastici Cinque: The Dark Side of the Moon (il più bell’album della storia della musica), Wish You Were Here (l’album più fortunato della storia della musica perché segue il più bell’album della storia della musica), Animals (il miglior album dei Pink Floyd, se conosci i Pink Floyd), The Wall (il muro, ma per gli amici il mattone, con affetto), e The Final Cut (un album di una bellezza sconcertante, quando chiunque altro sarebbe andato invece in vacanza alle Bahamas con la valigia piena di royalties).
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12 gennaio 2023 alle 20:53 · Filed under Cognizioni, Digitalizzazioni, Futuro, Passato, Sociale, Tecnologia and tagged: CarmillaOnLine, Cristiani, Donald Trump, Guerra, Imperialismo, Infection, Joe Biden, Liberismo, Luce oscura, Margaret Thatcher, Ridefinizioni alternative, Russia, Sandro Moiso, Ucraina, USA
Su CarmillaOnLine considerazioni di Sandro Moiso sparse sullo stato attuale del consenso globale, da leggersi ognuna per suo conto ma sapendo che insieme forniscono il quadro mondiale della compressione liberista e politica. Vi lascio ad alcuni stralci, mentre sullo sfondo continua ad agitarsi la guerra:
«Accorrevano folle per farsi ipnotizzare dalla sua voce, dagli inni di partito, dalle parate alla luce delle torce […] Erano disposte in file e squadre, su sfondi elaborati, con vessilli color sangue e uniformi nere»5. Oggi le cattedrali del consumo, i social network, la Rete, i media riescono a ricreare solo in parte tale tipo di assembramento unitario. Vale per coloro che convocano su Facebook o TiKTok e WhatsApp manifestazioni e flash mob cui di solito non partecipa nessuno o pochissimi oppure si trasformano in assalti spettacolari ma privi di risultato alle istituzioni del potere, ma anche per le grandi reti di vendita di dati e merci che iniziano a dover licenziare i dipendenti a migliaia o decine di migliaia. Manca il collante comune, il minimo comune denominatore che la tanto decantata società aperta si è persa da qualche parte per strada.
La celebre massima di Margaret Tatcher, la società non esiste esistono solo gli individui, si è sostanziata nella realtà attuale, ma il risultato “politico” è stato che, mentre un tempo le grandi folle si radunavano per perdere la propria individualità in nome di un’identità comune, semplicemente, oggi le “masse” hanno perso qualsiasi tipo di identità, sia individuale che comune. Senza nemmeno trasformarsi in quelle moltitudini costituenti che han fatto gran parlare di sé fino a qualche anno or sono e senza alcun costrutto materiale. Se non l’esser fondato sulla costante e instancabile ricerca di un “nuovo soggetto” che ha sempre caratterizzato certe teorizzazioni dell’operaismo italiano (di derivazione più gramsciana che marxiana).
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4 aprile 2022 alle 20:57 · Filed under Cognizioni, Digitalizzazioni, Sociale, Tecnologia and tagged: Éric Sadin, CarmillaOnLine, Gioacchino Toni, Infection, Liberismo, Margaret Thatcher, Ridefinizioni alternative
Su CarmillaOnLine lunghe riflessioni di Gioacchino Toni che recensiscono Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune, di Éric Sadin, cercando di dare risposte alla deriva individualista e connessa che caratterizza il percorso collettivo occidentale da almeno una decade. Uno stralcio:
Con la svolta neoliberista, la caduta muro di Berlino – simbolo per eccellenza di un ordine mondiale che sembrava divenuto immutabile –, il dilagare dei processi di globalizzazione e l’avvento delle tecnologie digitali, può dirsi iniziata una nuova storia caratterizzata da un disordine mondiale che per la velocità con cui muta e per il suo aspetto globale, tende a risultare pressoché incomprensibile, tanto da generare visioni oscillanti tra l’apocalittico e il trionfalistico. Tra queste due visioni, accomunate dal non derivare alcuna lezione dal passato e dal non attendersi nulla dall’avvenire, trova posto quell’ideologia dell’eterno presente che conduce ad arrendersi/abituarsi all’incomprensibilità e all’evitare di mettere davvero in discussione l’esistente al punto tale da allarmarsi di fronte ad ogni evento che sembrerebbe contraddirlo, persino quando si tratta di un upgrade del sistema (che nei fatti non viene messo in discussione) che si trascina generando un incredibile repertorio di guerre civili claniche. A distanza di tempo, la celebre affermazione di Margaret Thatcher “There is no such thing as society”, piuttosto che come una perentoria asserzione volta a negare l’esistenza della società, potrebbe essere letta come una compiaciuta rivendicazione di un’attentato commesso ai danni di questa, dalla cui detonazione si sarebbero liberati individui tenuti, sostanzialmente, ad arrangiarsi con ogni mezzo necessario. Insomma, un’orgogliosa affermazione di “missione compiuta”: la società è stata minata alle fondamenta, inutile ormai anche solo nominarla.
Nel corso del primo decennio del nuovo millennio si delinea un’esperienza soggettiva inedita: «uno spossessamento di sé unito alla sensazione di un maggiore potere in certi ambiti della propria vita» (p. 20). Si percepisce con angoscia di non appartenersi più, di essere deprivati sempre più di una rete sociale su cui fare affidamento per affrontare le difficoltà della vita, e al tempo stesso si vive la gratificazione di sentirsi incredibilmente autonomi grazie alla disponibilità di tecnologie che facilitano l’esistenza, l’accesso alle informazioni e la possibilità di esprimersi direttamente e pubblicamente. Il Web stava gettando le basi «di una nuova rappresentazione degli individui, che si sentivano provvisti di nuovi attributi superiori, meno dipendenti da alcuni vincoli e perfettamente equipaggiati per far sentire la propria voce ed esistere agli occhi degli altri» (p. 73).
Non a caso “Time magazine” nomina “YOU” come Person of the Year 2006 mentre l’anno prima lo slogan che accompagnava l’avvento di YouTube recitava “Broadcast Yourself” invitando gli utenti a divenire i programmatori di se stessi e a darsi visibilità. «Quando l’i decide di beneficiare a proprio vantaggio dei dispositivi messi a sua disposizione, diventa un You agente che può conoscere una popolarità più o meno estesa grazie alla messa in scena, sotto varie forme, della sua persona» (p. 77).
Nel 2004 faceva la sua comparsa Facebook con la sua promessa agli utenti di godere di una sensazione di improvvisa centralità rafforzata dai post pubblici mentre la console Wii di Nintendo del 2006 permetteva un’inedita esperienza immersiva. Le tecnologie personali contemporanee si riveleranno sempre più abili nel catalizzare l’attenzione e nel dare l’impressione di offrire una ricchezza tale da rendere privo di interesse il mondo circostante. L’individuo contemporaneo, sostiene Sadin, ha la sensazione di poter sopperire autonomamente alle proprie carenze grazie alle tecnologie digitali che sembrano poter piegare la realtà ai suoi desideri e, soprattutto, permettergli espressività, ossia di raccontarsi agli altri ricevendo feedback di consenso, gratificandosi così dell’eccezionalità della sua esistenza. La sensazione provata è quella di non essere vittima impotente; alle quotidiane umiliazioni è possibile rispondere grazie alle possibilità di narrazione compensatoria offerte dall’universo digitale che consentono un’illusoria magnificazione della propria esistenza e/o la possibilità di scaricare l’ira accumulata prendendosela con qualcuno o qualcosa a distanza di sicurezza.
Secondo Sadin nella contemporaneità l’espressività ha finito per occupare uno spazio sempre più importante; gli individui tentano insistentemente di dare prova della propria singolarità attraverso pratiche di esposizione pubblica di sé. «Oggi l’esperienza non basta più a sé stessa. Deve essere quasi sistematicamente accompagnata – e nel preciso istante in cui avviene – dal suo racconto, senza il quale viene giudicata troppo povera. Soltanto allora, attraverso al sua pubblicizzazione, sembra acquisire pieno valore, e la sua importanza, nonché la sensazione di rivincita sulle incognite della vita, prendono corpo» (p. 22).
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23 dicembre 2021 alle 21:21 · Filed under Cognizioni, Disumano, Inumano, Oscurità and tagged: Arthur Scargill, CarmillaOnLine, David Peace, Infection, Inghilterra, Liberismo, Margaret Thatcher, Proteste
Su CarmillaOnLine un articolo per ricordarci cos’è effettivamente il liberismo, cosa ha già fatto ai tempi della Thatcher in UK e cosa continuerà a fare ovunque – non si capisce perché debba migliorare e non incattivirsi e inumanizzarsi ancor di più. Un estratto:
1984. U.K. miners’ strike rappresentò la lotta dell’Unione Nazionale dei Minatori di Arthur Scargill, una lotta che voleva impedire la chiusura di venti giacimenti carboniferi del Regno Unito e che avrebbe portato il licenziamento di circa 20000 lavoratori.
Lo sciopero ebbe inizio il 6 marzo 1984. Durò oltre un anno in seguito all’annuncio della chiusura della miniera di carbone di Cortonwood nello Yorkshire per contrastare il disegno del Primo Ministro Margareth Thatcher di diminuire il numero e la produzione dei pozzi di estrazione del carbone.
Nell’ambito della sua politica industriale e sindacale la Thatcher mise all’opera un programma ben definito: 1) un piano energetico nazionale per diminuire l’uso del carbone, troppo costoso da estrarre e fuori mercato. 2) adozione di norme per limitare il diritto di sciopero, soprattutto riguardo alla pratica “illegale” dei picchetti.
Il 18 giugno 1984, nello Yorkshire scozzese, ebbe luogo quella che passerà alla storia come “la battaglia di Olgreave” l’evento più drammatico del lungo sciopero in corso. Quel giorno l’immagine che gli inglesi avevano dei loro governanti cambiò improvvisamente. Fu una battaglia, una guerra mossa dal governo contro il suo stesso popolo.
Nel libro GB 1984 di David Peace c’è il racconto di cinquantatré settimane di guerra civile con picchetti, arresti, violenze e intimidazioni, famiglie disperate, crumiri, corruttori e corrotti. A combattere questa battaglia che dilaniava interamente il paese, ci furono uomini come Terry Winters, braccio destro del dispotico leader del sindacato che doveva farsi carico del destino di migliaia di lavoratori, come l’ebreo, un mediatore senza scrupoli deciso a spezzare lo sciopero con ogni mezzo e che reclutava neonazisti da sguinzagliare contro i picchettatori, che manipolava gli organi di informazione e faceva in modo che i cameramen della televisione inquadrassero soltanto il lancio di sassi da parte dei minatori e non le cariche violente e le manganellate della polizia.
La volontà di vincere ad ogni costo della classe dominante, la violenza delle forze dell’ordine, l’incapacità degli uomini del sindacato sempre più apparato. Una vera e cruda rappresentazione della realtà dove Margareth Thatcher comparve una sola volta con nome e cognome è sempre con attributi: “La Lady di ferro” o “La Troia di Ferro” per i minatori. Una rappresentazione dove non c’era il tempo di tirare il fiato perché tra le due parti, come nella realtà, c’erano delatori, ruffiani, spie che stavano dentro questo ingranaggio dove si rischiava di rimanere stritolati.
La terza guerra civile della Gran Bretagna. Una sconfitta che sa di fiele. Una pagina nera nel mondo del lavoro con una nazione che volta le spalle. Un grosso focolaio per l’Europa intera sotto la brutalizzazione del neoliberismo.
Segnali terribili di un tempo che cominciò a cambiare in peggio.
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18 ottobre 2021 alle 21:02 · Filed under Cognizioni, Creatività, Empatia, InnerSpace, Notizie, Oscurità, OuterSpace, Passato, Recensioni, Sociale and tagged: Alfonso Amendola, CarmillaOnLine, Dark, Esistenzialismo, Joy Division, Liberismo, Linda Barone, Luce oscura, Margaret Thatcher, Spleen
Su CarmillaOnLine la recensione a Our Vision Touched the Sky. Fenomenologia dei Joy Division, saggio di Alfonso Amendola e Linda Barone che analizza la breve stagione dei Joy Division raffrontandola col maelstrom sociale che in UK si respirava in quegli anni, grazie all’omicida neoliberismo thatcheriano. Un estratto dalla rece:
Se il punk può essere visto come una sorta di risposta rabbiosa e nichilista all’incertezza sociale e politica del periodo in cui esplode espressa dai rimasugli di comunità in disarmo soprattutto in ambito londinese, il post-punk si presenta come un fenomeno proprio di alcune città del Nord dell’Inghilterra caratterizzate dalla cupezza urbanistico-architettonica ereditata dagli anni Sessanta.
Città industriali in declino come Manchester, Liverpool e Sheffield che hanno conosciuto la violenza della rivoluzione industriale sembrano ormai capaci di offrire ai figli della working class e della piccola borghesia soltanto il senso di alienazione e di inquietudine della grigia periferia lontana dal punk della Capitale presto trasformatosi in patinato fenomeno di consumo. Nelle città industriali del Nord nasce dunque una “generazione post-punk che al nichilismo dell’annientamento del futuro e al fascino della moda irriverente [del punk londinese] rispondevano con l’inquietudine e l’incertezza del presente e con il racconto dell’apatia della periferia. Allo stesso modo dei Fall, anche i Joy Division, seppur con diversi riferimenti dichiarati, dipingevano attraverso la musica e la lirica un paesaggio industriale periferico che portava con sé solo immagini di fallimento, gelo, perdita del controllo, smarrimento (p. 32)”.
Se già il punk, operando una sorta di opera di bricolage, aveva saputo attingere da diversi stili e sottoculture britanniche del dopoguerra, il post-punk, sostengono Amendola e Troianiello, ha ulteriormente ampliato i confini allargandosi all’ambito europeo attingendo, ad esempio, dai suoni metallici dei tedeschi Kraftwerk e da esperienze alle prese con sonorità sintetizzate. In una contesto urbano sempre più caratterizzato dal frantumarsi delle comunità sono spesso i mass media a proporre/costruire nuovi ambiti identitari.
“In questo modo è possibile intendere l’immagine delle culture giovanili figlie della working class protagoniste del movimento sottoculturale del post-punk (così com’è stato per la corrente punk) come l’immagine coesa di una cultura della resistenza. Pertanto se il dolore, l’introspezione, il disagio post-industriale e l’assenza di bellezza così come la sua ricerca, l’uso di droghe, la disoccupazione e l’inesorabile declino di una nazione potente diventavano le colonne portanti del discorso sottoculturale del post-punk, l’estetica, i luoghi di consumo della musica e i luoghi di creazione di nuovi network dove esercitare pratiche condivise di ascolto e condivisione secondo rituali consolidati, rappresentavano il linguaggio necessario, coerente e coeso di un movimento che, partendo da un desiderio di costruzione alternativa al rock classico, ha finito per dar vita a una nuova ondata di produzioni mainstream degli anni Ottanta (p. 30)”.
La scena discografica post-punk di Manchester si contraddistingue anche per un’eleganza e pulizia formale – sconosciute all’ambiente musicale londinese dell’epoca – che richiama palesemente le estetiche di alcune avanguardie europee primonovecentesche. Se a Manchester, al passaggio tra gli anni Settanta e gli Ottanta, gruppi come Joy Division, A Certain Ratio, Durutti Column, The Fall, cresciuti attorno alla Factory Records, si mostrano più inclini a sonorità cupe, a Liverpool, altra città in declino alle prese con la disoccupazione, band che gravitano attorno all’Eric’s Club, come Echo and the Bunnymen, ricavano dall’angoscia, dalla solitudine e dal dolore atmosfere decisamente meno fosche.
Un caso un po’ diverso è rappresentato da Sheffield, uno dei centri nevralgici della rivoluzione industriale: nonostante nell’immediato gli effetti del thatcherismo si rivelino meno devastanti dal punto di vista occupazionale rispetto alle alte città del Nord, anche questa realtà non manca di pagare il suo tributo in termini culturali. Se nel cuore della lavorazione dell’acciaio e dell’orgoglio operaio il punk rimane un fenomeno sostanzialmente di superficie tra i figli della working class, maggior interesse viene invece da questi riservato all’universo delle sonorità sintetizzate. Il fenomeno post-punk di Sheffield ha nell’esperienza del laboratorio creativo Meatwhistle, da cui provengono gruppi come Music Vomit, un riferimento importante sebbene non l’unico, visto che anche per altre vie nascono band destinate alla notorietà (es. Cabaret Voltaire).
“Dal racconto della periferia post-industriale al centro della cultura globale condivisa dai grandi pubblici, dai focal places, luoghi di costruzione di relazioni e rapporti, il post-punk nella sua veste eversiva eppure reificata perché inserita nei processi produttivi e distributivi, è un forte esempio di identità culturale che si muove continuamente dai bordi del racconto sovversivo verso il centro del consenso comune, creando nuove metafore, racconti e atmosfere (pp. 35-36)”.
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28 Maggio 2019 alle 15:00 · Filed under Cognizioni, Creatività, Fantastico, Oscurità, Sociale and tagged: CarmillaOnLine, Go Home – A casa loro, Horror, Infection, Interrogazioni sul reale, Liberismo, Luce oscura, Luna Gualano, Margaret Thatcher, Movie, Nefandum psichico, Ridefinizioni alternative, Ronald Reagan, Zombie
Da CarmillaOnLine un nuovo rilievo – che prende spunto dal film Go Home – A casa loro, di Luna Gualano – dell’infinita identificazione tra zombie ed emarginati, un parallelismo assai evidente che da tempo annette questo tipo di immaginario horror all’analisi del sociale e dell’economia contemporanei.
Il diffuso odio per i migranti, per i ‘diversi’, per gli stranieri si muove in modo cieco e meccanico come una massa di zombi. La xenofobia e il razzismo rappresentano perciò dinamiche sociali scaturite dalla struttura capitalista, la quale, proprio come uno zombi – un essere bulimico che non mangia per nutrirsi ma per ripetere in modo pressoché infinito il suo atto – produce un consumo di merce finalizzato alla ripetizione del consumo stesso. L’odio razziale, quindi, è un meccanismo cieco, generato dagli scarti della società capitalistica, una sorta di malattia che si diffonde per contagio.
Sempre più spesso m’interrogo su come uscire da quest’impasse planetaria che, fortunatamente morti e sepolti da tempo, Thatcher e Reagan continuavano a postulare come inevitabile, ineluttabile, l’unica via da percorrere. Il Liberismo va combattuto con la Cultura, fino a trovare la strada per un nuovo tipo di mentalità e socialità che preveda la cooperazione, non la competizione. È davvero tutto un problema di Cultura, che manca? Lo spero, forse una soluzione semplice è ciò che davvero ci serve…
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