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Archivio per Mario Gazzola

Hyde in Time finalmente a Torino e nelle librerie | PostHuman


Su PostHuman un post che spiega bene cosa succede con l’operazione di Mario Gazzola “HydeInTime”, edito da Edikit, in cui Stevenson e il suo JeckyllHyde c’entra con tutte le metaforiche scarpe. Ringrazio per le citazioni/ringraziamenti, ma io sono solo rimasto abbagliato dall’operazione, assai geniale. Un estratto:

Tre manoscritti inediti, un unico killer dall’800 al 2000, crimini come opere d’arte nel romanzo-trilogia di Mario Gazzola per Edikit, in anteprima al Salone del Libro di Torino 2023, con le visioni pittoriche di Roberta Guardascione e le note del concept album dei Death SS sul tema del doppio malefico.

L’unica cosa che ormai è già stata svelata dall’intervista dell’ANSA è che… si tratta di un brillante gioco di finzione architettato dal Gazzola medesimo, che ha finto di ritrovare manzonianamente l’inedito in soffitta e inventato di sana pianta i suoi sanguinari seguiti, destreggiandosi fra imitazioni della lignua letteraria ottocentesca, citazioni di autori che Stevenson poteva conoscere (Baudelaire, De Quincey, De Sade, scienziati e parapsicologi della sua epoca etc.) e divertiti omaggi celati nel testo ad autori a lui successivi come Lovecraft, Clark Ashton Smith, Bradbury – come noterete in quest’altra anteprima su Fantasy Magazine, del primo ingresso di Hyde al Marébito – ma anche Robert Bloch e Harlan Ellison, Alan Moore, Valerie Martin, persino a registi come Stephen Frears, Roy Ward Baker e Walerian Borowczyk.
Costruzione postmoderna spalleggiata altrettanto brillantemente dalla musa visuale Roberta, che supera se stessa triplicandosi nelle finte stampe alla Doré di Jane Mason, nei Sickert apocrifi e nell’Eddie in cui impiega come pattern cromatici ‘sauvage’ frammenti di Picasso, Bacon, Kandinskij, Pomodoro e Abramovic.

Hyde in time | FantasyMagazine


Su FantasyMagazine l’anteprima del volume Hyde in Time, curato da Mario Gazzola. Una silloge che potrebbe svelare un mistero nascosto nella storia della letteratura: l’inedita versione del capolavoro del 1886 di Robert Louis Stevenson e due seguiti ideali, anch’essi inediti, firmati dal figlio e dal nipote dello scrittore scozzese.

Guardai attentamente il parallelepipedo cristallino: attraverso lo strato di brina potei scorgere effettivamente il corpo di una giovane distesa come in una cassa da morto; era completamente nuda e, a quanto era dato scorgere, davvero appetitosa.Per avvicinarsi meglio al parallelepipedo di ghiaccio, naturalmente era necessario deporre una moneta nell’apposita fessura. Mi sono fermato qualche istante a meditare che senso potesse avere, anche per un dissoluto come me, pagare per il privilegio di baciare una lastra di ghiaccio… oppure c’era anche lì qualche trucco, per cui al cadere degli scellini nella fessura, il ghiaccio si sarebbe dissolto come la nebbia che sembrava avvolgere le membra della fanciulla, offrendola finalmente al naturale alle labbra del suo liberatore? Ma no, non era possibile che un tale piatto venisse servito a un visitatore per così pochi spiccioli, meno di quanti ne avrebbe chiesti una donnaccia di strada… doveva per forza essere un trucco. L’avido avventore avrebbe dilapidato le sue monete per il solo privilegio d’appoggiare le labbra su un blocco di ghiaccio… all’improvviso le mie riflessioni furono interrotte da un robusto garzone che superò la mia incertezza passandomi davanti con uno sbrigativo “permesso”, seguito dalla sua riottosa fidanzata imbronciata. Il giovane, tutto compreso nel suo ruolo di preteso principe azzurro, brontolò qualche scusa in risposta agli stizziti “cerchi di baciare un’altra anche quando sei con me?” della morosa, depose l’obolo nell’urna e s’accostò al blocco di ghiaccio, cercando di posizionarsi in corrispondenza del volto dell’evanescente fata del gelo ridacchiando stupidamente, come il volgare energumeno che era.

Media-Trek » Blog Archive » Siouxsie and the Banshees a Milano


Sul blog-repubblica di Ernesto Assante la recensione di Mario Gazzola al recente concerto di Siouxsie Sioux a Milano, in cui si sottolineano i tratti salienti di quest’ennesimo ritorno geriatrico. Vi lascio alle  parole di Mario:

Il ritorno imprevisto di Siouxsie sul palco per i suoi fedeli avviene a 10 anni dalla sua ultima apparizione a un Meltdown festival, quando ormai la si dava per pensionata nella campagna inglese: i Banshees non ci sono più dal ’96, intorno a lei sul palco un chitarrista (Chris Turtell), un bassista (Joe Short), un batterista (Robert Brian) e un polistrumentista (Steve Evans), che si alterna fra tastiere e seconda chitarra, ma che alla Regina non sembra necessario sprecare qualche minuto per presentare al pubblico. Una Regina bizzosa che, per quanto propensa al dialogo col pubblico tra un pezzo e l’altro, a una richiesta urlata in sala da un fan risponde “Blah blah blah… don’t talk. Listen!”.
Efficacemente supportata dai suoi anonimi “operai” del rock, la Regina spazia ampiamente nella sua ormai quarantennale carriera, facendo scorrere la pellicola di classici come Christine, Happy House, Arabian Knights e Cities in Dust, ma anche di gemme minori come But Not Them e l’avvolgente Dear Prudence (il cui video passato a Mr. Fantasy nell’83 fu il mio primo incontro con la band e con la canzone, che all’epoca nemmeno sapevo essere una cover dei Beatles!), fino a oscure b-side racchiuse nella raccolta Downside Up (2004) come Catwalk, o alla Into a Swan tratta dall’unico, ma sempre valido, album firmato da solista (Mantaray del 2007) solo come Siouxsie. Una set list variegata e non prevedibile, che evita al concerto l’effetto juke-box dei cliché, in cui per esempio è caduto il live dell’estate scorsa dei Bauhaus, altri paladini del dark ’80.
Come di prassi in un concerto di area new wave, nessuna particolare prodezza strumentale in scena – a parte la canzone dei Creatures eseguita con tutti gli strumentisti impegnati alle percussioni – ma in compenso eleganti video proiettati sullo schermo di fondo: mari procellosi, liquide sirene nuotatrici riflesse nelle acque in cui fluttuano, ballerine in tutù, geometrie policrome che ben assecondano il caleidoscopio di colori degli arrangiamenti (supportati dal vivo coi campionamenti) in cui l’originale dark punk di Siouxsie ha saputo evolversi nel corso del tempo, qua e là conquistando anche gli onori delle classifiche e arricchendo la sua tavolozza dark dei colori dell’electro pop, di una personale rivalutazione della psichedelia e di diverse spezie etniche, che hanno evitato alla Regina di inaridirsi nel cliché del tuttosemprenero di marca Bat Cave.
Un concerto non molto lungo, altra caratteristica tipicamente new wave: circa un’ora e un quarto, concluso dai bis di Spellbound e dell’altra cover attesa dai fan: l’immortale, saltellante The Passenger di Iggy Pop, singolo dell’album Through the Looking Glass dell’87 (spumeggiante raccolta di omaggi a Disney, Dylan, Ferry e Television), originalmente riarrangiata con un supporto di fiati soul, ieri sera inevitabilmente campionati.
Pubblico – stagionato e non – entusiasta, finalmente accalcato verso il palco nell’omaggio alla cavernosa Sovrana in tunica-pantalone argentata, dopo un’ora di serrati controlli delle maschere del teatro sull’ormai inarginabile abuso di foto e video da cellulare.
Dopo ieri sera la Musica non intravede nuovi, arditi corsi da sviluppare, ma è stata una bella serata. Speriamo che preluda a un nuovo album perché anche le prove recenti di Siouxsie valevano l’ascolto. E – curioso strabismo temporale – anche un Peepshow, che nell’88 mi sembrava un “saldo di stagione” dell’era dark, sentito oggi si rivela un album valido, ben arrangiato e piacevolissimo, lontano da quelle radici solo perché la sua autrice si è evoluta nel tempo e non è rimasta la fotocopia del proprio mito. Quel che in fondo sarebbe il compito principale di un artista.

Hyde in time, ovvero la prima versione di La strana storia del Dr. Jekyll e del sig. Hyde?


Su FantasyMagazine la spiegazione delle anteprime che ho offerto al mondo 🙂 di Hyde in Times, in cui Mario Gazzola spiegava alcune cose del manoscritto di Stevenson fortunosamente ritrovato. Un gran bel colpo, devo dire!

Edikit si accinge a pubblicare Hyde in time, un volume in cui Mario Gazzola, secondo quanto comunicato dall’editore, raccoglierebbe l’inedita versione del capolavoro del 1886 Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde scritto da Robert Louis Stevenson e due seguiti ideali, anch’essi inediti, firmati dal figlio e dal nipote dello scrittore scozzese. Si tratta di un palese omaggio? Di una burla letteraria felicemente ispirata? Al lettore il compito di scoprirlo da maggio, quando il volume sarà nelle librerie, fisiche e online. Noi vi lasciamo ai contenuti diffusi dall’editore che entrano nei dettagli dell’operazione.

Quarta: Una scoperta che promette di cambiare per sempre la storia della letteratura gotica e non solo, quella che Edikit annuncia in uscita nelle librerie per il prossimo maggio. Com’è noto, Stevenson aveva vergato una prima versione della vicenda del Dottor Henry Jekyll e del suo doppio malvagio Edward Hyde, che poi diede alle fiamme dopo un diverbio con la moglie Fanny. Di quella versione è stata rinvenuta una copia inviata dalla stessa Fanny al poeta William Henley, amico e collaboratore di Stevenson, come ci rivela la missiva riprodotta qui sopra e nell’introduzione del libro a cura di Mario Gazzola. Henley trasgredì all’ordine della moglie di Stevenson di bruciarla dopo la lettura, regalandoci così la possibilità di riscoprirla.

L’originale stesura del capolavoro di Stevenson però non è l’unica sorpresa che ci riserva l’autore milanese. Hyde in Time, infatti, è una silloge composta da anche altri due romanzi brevi: Il lupo di Whitechapel, a firma del figliastro e a sua volta collaboratore di StevensonSamuel Lloyd Osbourne (1868-1947), e Hyde in time, del nipote Samuel Osbourne II, oscuro personaggio di cui nessuno aveva mai saputo di una produzione letteraria.
Nelle note del curatore interposte fra un manoscritto e l’altro anche alcune tracce su come Gazzola è riuscito a disseppellire le tre gemme letterarie perdute, a propria volta un’avventura letteraria ai confini del crime.
Molti gli interrogativi letterari aperti da Hyde in Time, una sola certezza: la storia del fantastico non sarà più quella che credevamo.

Anteprima di “Hyde in Time”, Pt. 2


Seconda anteprima di Hyde in Time (qui la prima parte) tratta dal primo manoscritto chiamato Hyde e l’Altro (versione originale ritenuta perduta per sempre de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di R.L. Stevenson), libro a cura di Mario Gazzola dato in anteprima dall’editore Edikit, riusciti chissà come a mettere le mani sul prezioso manoscritto-scoop che riscrive la storia della letteratura gotica e weird; l’immagine è di Jane Mason, coetanea di Stevenson e illustratrice dell’intero Hyde e l’Altro:

…Sensazioni forti.
Corpi.
Frusciar di sete.
Estasi, ebbrezze: il “ragionato sregolamento di tutti i sensi” predicato da quello scellerato poeta francese; fino in fondo all’Ignoto, sia esso il Paradiso  o l’Inferno, per scoprire qualcosa di nuovo. Perché le parole ideali per esprimere quel che sentivo appartenevano tutte alla decadente lirica francofona?
Carni esili e sfibrate.
Avvizzite nei bracieri del demonio.
Femminee o infantili, incestuose, animali… come consunte, sfibrate nelle paludi del vizio.
La gratuità del male come unico gesto autenticamente personale. Istintivo, primordiale.
Brutalmente artistico.
E tutto questo senza il marchio della colpa, perché la metà che avrebbe peccato sarebbe sempre stata separata e autonoma dalla metà virtuosa. È stato così che ho iniziato il mio cammino di esperimenti finalizzati ad arrivare alla distillazione di un farmaco che non si limitasse a donare l’oblio onirico alle membra assediate dalla malattia, ma che al mio comando potesse aprire le porte di quella dimensione, della sua conoscenza e della sua esperienza.
Anzi, forse proprio grazie a quello la metà oscura avrebbe potuto definitivamente separarsi dall’altra e vivere stabilmente nel reame del Sogno, non solo in quei brevi e agitati intervalli notturni di cui poi poco o niente io mi ricordavo una volta sveglio. Lui, l’Altro, ancor più e meglio che proiettare le proprie visioni oniriche su un sipario con un nuovo tipo di lanterna magica, avrebbe dimorato stabilmente in quel mondo oltreumano e inesplorato, avrebbe percepito con chiarezza i suoi colori accecanti, i suoi suoni fantastici. Avrebbe varcato tutte le porte della percezione verso l’infinito e gustato, divorato avidamente tutte le esperienze che nella nostra limitata fantasia possiamo solo pallidamente immaginarci e mai davvero toccare con mano. Concepito quel pensiero, quel folle progetto, furono lunghi mesi febbrili, e non solo a causa dell’affezione polmonare. Dopo una serie di fallimenti, che in capo a circa un anno cominciavo a rassegnarmi fossero senza speranza, alla fine sono riuscito ad estrarre dalla Claviceps Purpurea un alcaloide di cui intuivo il grande potere psicotropo: un parassita delle graminacee il cui nome comune è ergot, che in francese significa “sperone” (ho sorriso fra me, pen- 10 sando che la spocchiosa lingua del depravato autore de I Paradisi Artificiali continuava a perseguitarmi).
Ero convinto, e tuttora lo sono, che l’infestazione dei cereali da parte di questo fungo possa causare una contaminazione anche degli alimenti che ne derivano, su tutti il pane di segale. Probabilmente quest’ultima è responsabile di fenomeni d’intossicazione come quelli conosciuti a livello popolare sin dal medioevo con il nome di “fuoco di Sant’Antonio”, “fuoco sacro” o anche “male degli ardenti”, che la superstizione dei tempi andati ha condotto a spiegare come forme di possessione demoniaca. Forse non allontanandosi poi molto dal vero.
Mi accingevo a iniziare una serie di prove scientifiche su cavie animali per saggiare i potenziali effetti venefici dell’alcaloide, peraltro già riscontrati dalle comunità contagiate attraverso il pane, quando una notte di estremo sfinimento febbrile mi ha indotto a sperimentare il farmaco su me stesso senza prima averle portate a termine. Come si capirà, anche se a mia insaputa stavo già siglando la mia fine. (…)>>

Tanto per chiudere lo scoop, posso dire che il racconto di Mario Gazzola presente sull’antologia da me curata LaPrimaFrontiera, penso proprio fosse un attingere segreto al tesoro dissepolto? Se così fosse, sarebbe stato un vero splendido crimine…

Anteprima di “Hyde in Time”, Pt. 1


Tratto dal primo manoscritto di Hyde in Time, ossia Hyde e l’Altro (versione originale ritenuta perduta per sempre de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di R.L. Stevenson), libro a cura di Mario Gazzola dato in anteprima dall’editore Edikit, riusciti chissà come a mettere le mani sul prezioso manoscritto-scoop che riscrive la storia della letteratura gotica e weird; l’immagine è di Jane Mason, coetanea di Stevenson e illustratrice dell’intero Hyde e l’Altro:

<<(…) Sotto l’effetto di alcuni dei farmaci che ho provato per alleviare gli accessi di tosse, le emorragie e le febbri che mi debilitavano fino al deliquio, ho viaggiato lungamente nelle indefinite, sconfinate distese del sogno. Una dimensione lussureggiante e opulenta, fiorita d’informi policromie e di voraci parassiti della mente, che a propria volta in quelle fasi debilitate hanno banchettato lautamente della consunzione delle mie carni. Fantasmi che accendevano la mia psiche quando il corpo giaceva inerte e già quasi senza vita e mi chiamavano a danzare con le loro bizzarre sirene, finché non mi risvegliavo, ancora più esausto e consumato di quando mi ero assopito, incapace persino di gridare gli orrori che mi turbinavano dentro. Peregrinazioni che talvolta mi hanno portato a considerare l’arcipelago dell’onirico una realtà più vera del reale stesso. E la cui conseguenza a lungo termine mi è sempre risultata un inesorabile sgretolamento della vita “reale”, fino al definitivo crollo delle barriere che si presume separino i due mondi.
Nello stesso tempo, però, la consuetudine ad abitare i regni di Morfeo durante le lunghe eclissi di coscienza conseguenti alle mie inusuali terapie ha generato in me una sorta di vorace appetito per le immagini sempre più assurde ed esaltate che da quest’oceano sgorgavano alla mia mente, persino per le più orribili e irripetibili.
Talvolta, dopo una lunga immersione nei miei sogni più morbosi, tornato allo stato di veglia mi scoprivo a immaginare una possibilità tecnica che consentisse di proiettare le visioni che giungevano alla mia mente, su un sipario o una parete bianca, in tutta la loro inconcepibile tavolozza cromatica, magari addirittura accompagnandole con i suoni delle voci e delle turbolente musiche fantastiche che udivo in sogno. Una specie di evoluzione futuristica della lanterna magica: che spettacolo totale e sontuoso sarebbe! Più stordente ed emozionante di qualsiasi fantasmagoria si sia mai vista a teatro.
Subito dopo però mi trovavo a pensare sgomento come avrei potuto sopportare che insieme ad esse venissero visualizzati anche i sogni più immorali e malvagi, che del mio banchetto fantastico erano le spezie più piccanti. Come avrei potuto tollerare che i miei amici, i colleghi medici più stimati di Londra, venissero portati in un ignobile giro turistico nelle grotte più buie della mia coscienza, come in un impietoso denudamento degli aspetti più impresentabili dell’anima?
Dev’essere stato allora che ho iniziato a vagheggiare un metodo, magari un farmaco di concezione radicalmente nuova, capace di scindere le due opposte componenti dell’animo umano, da sempre compresenti in ognuno di noi e in perenne conflitto: da un lato la coscienza razionale diurna, vigile e moralmente retta, dall’altro quella che definirei “incoscienza onirica”, bramosa e priva d’alcun freno etico alle proprie fantasie. Cominciai così a pensare che, se fosse esistito un simile farmaco, la parte più buona e sana di me avrebbe potuto finalmente librarsi verso l’alto senza la zavorra dell’altra componente, sordida e bestiale. Ma, contemporaneamente, benché fossi restio ad ammetterlo anche a me stesso, la mia mente era ancor più rapita dalla possibilità di liberare nello stesso modo la componente selvaggia e sfrenata al di là di qualsiasi vincolo morale. Anzi, ormai devo riconoscerlo, quest’ultima opportunità mi seduceva assai più visceralmente dell’altra: cos’avrebbe fatto quell’identità malvagia, finalmente sciolta dal benché minimo senso di colpa? In realtà lo sapevo benissimo: il mio pensiero sgusciava come una serpe lungo i vicoli più tortuosi e oscuri, soffocati da foschie purpuree, sulle ritorte e macilente guglie della rocca del sogno in caccia di quel nero lupo predatore, la trasgressione più sfrenata… (TBC)

L’epico “taglio finale” di Roger coi palchi | PostHuman


Su PostHuman la recensione di Mario Gazzola al concerto milanese del 28 marzo di Roger Waters. Vi lascio a Mario, benvolentieri, lui c’era e si è beato di cotanta bellezza…

Prossimo agli 80 anni, facile che questo sia davvero un addio ai palchi; sempre in guerra con Gilmour, di certo non vedremo mai più i tre Floyd superstiti ancora in scena insieme, magari con un Brain One (pardon, Brian Eno!) alle tastiere in luogo del compianto Wright, come sognerei io. Ma Roger è fatto della pasta indistruttibile dei Grandi Antichi del Rock (come Dylan, Jagger, McCartney, Plant, Springsteen): a 79 suonati è ancora in forma e trotta su e giù, a destra e a sinistra del nuovo palco ipertecnologico che è la vera novità spaziale del suo luna park 2023; al centro dell’arena, visibile a 360 gradi dal pubblico che lo circonda, non lascia mai nessuno ‘di spalle’ rispetto alla scena. Quando lui è su un lato a cantare, il megaschermo a croce ce lo rimanda su ogni lato del poliedro spaziale, ripreso dalle videocamere a definizione più che cinematografica, sembra d’avercelo ovunque di fronte, mixato col consueto caleidoscopio psichedelico di filmati, schegge animate di The Wall, cartoon-clip completamente inediti per visualizzare ogni brano della lussureggiante scaletta (che vi riproduciamo completa in calce).

Gazzola snocciola impressioni sui singoli brani proposti dall’ex Floyd, e chiosa la sua esaltante rece con:

Esaltiamoci, sì, perché almeno una volta ci siamo stati (purtroppo, personalmente non ero mai riuscito a vedere in concerto i Pink Floyd finora, né uniti né divisi). Abbiamo visto “navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, (…) raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti NON andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia“. Quando cioè il destino ci toglierà anche i duellanti Waters, Gilmour o il nostalgico e più pacifico Mason, portando il nostro orologio generazionale un passo più vicino alla fine di quell’era dei giganti fondatori della chiesa del rock, la cui grandezza – come forse quella dei divi della Hollywood della golden age – non potrà mai essere eguagliata da alcun epigono.

Grazie Roger, e grazie Mario, l’appuntamento è al prossimo gig floydiano di una delle menti più creative di questo nostro tempo.

Ritratto di Dora M. divorata dal Genio | PostHuman


Su PostHuman la recensione di uno spettacolo teatrale che vede come protagonista la figura di Dora Maar, musa ispiratrice di Picasso (o forse ben altro, come si evince dalla rappresentazione teatrale e soprattutto dalla storia di Dora).

Dora Maar (1907-97) pubblica le prime foto di moda e pubblicità nel 1930, poi abbraccia il gruppo dei surrealisti, aderisce al gruppo Contre-Attaque di Breton, Eluard, Bataille – di cui è amante per un periodo – collabora con Brassaï e Man Ray, s’infiamma d’ideali socialisti e deambula per le fangose periferie parigine ritraendo i poveri e i ciechi in quello che verrà definito ‘street surrealism‘. Questo è il periodo più spumeggiante della sua vita, è giovane e bella, è una musa di quelli che stanno inventando il futuro, viene ritratta da Cocteau
E poi… poi, nel 1935, al caffè Les Deux-Magots di Saint-Germain-des-Prés incontra Picasso, il vertice dell’arte moderna. Lo colpisce con la propria bellezza e lo spagnolo fluente, inizia una nuova, turbinosa relazione che – come diremmo noi del fantastico – la fa volare in un’altra dimensione, ma – come Icaro – le brucia anche le ali per sempre. Il Genio è geloso, totalmente egocentrico e pure un po’ mostro: mette all’angolo le sue foto, la spinge a dipingere per avere un ruolo di pigmalione nei suoi confronti, la usa come modella per la donna con la lanterna di Guernica – la documentazione delle fasi creative dell’opus magnum di Pablo sarà il suo ultimo lavoro fotografico – ma al contempo la umilia trattandola come un cane (di lui dirà “Io non sono stata l’amante di Picasso. Lui era soltanto il mio padrone”); finché dopo nove anni la sputa via, sostituendola con la più giovane Françoise Gilot.
Lei, innamorata della vita nonostante tutto, gli sopravvive, pur passando attraverso un calvario di cliniche psichiatriche e di elettroshock – in scena genialmente evocati da un video con i chiodi animati al negativo di Man Ray proiettati su sipario di tulle con un effetto sonoro shock – nonché dalle cure di un altro nume come Lacan (psicanalista dello stesso Picasso). Però si ritira dal mondo, non fotografa più, né dipinge, non parla e non compare in pubblico. Una monaca di clausura, “l’incarnazione stessa del dolore”, come diceva di lei Picasso medesimo.

A Brera i liquidi Volti del Male nel Tempo – LiquidSky Agency


Su LiquidSky la segnalazione di un intervento di Mario Gazzola alla conferenza proprio su I Volti del Male nei quadri di Brera, a cura della storica dell’arte Anna Torterolo, che si terrà al Palazzo di Brera, Sala della Passione, martedì 27 settembre, alle ore 17,30; Roberta Guardascione ha disegnato il poster ufficiale dell’evento, prendendo spunto da un’opera del Tintoretto, che ben sintetizza il disturbo evocato dalla conferenza.

Il contributo di Gazzola alla conferenza ha come titolo “quello che non c’è”, e la curatrice ne sintetizza così il senso:

“Nei tempi moderni il Meraviglioso e il Terribile si sono allontanati dal Sacro colleghiamo l’iconografia cristiana a un repertorio di immagini scontate e consolatorie, dimenticando che la lunga storia del cristianesimo ha modellato la figura del Male (il tradimento, le tenebre, l’avidità, l’ansia e la paura) con una ricchezza di segni, forme e colori che alimentano le più sfrenate fantasie attuali. Perché l’immaginario viaggia in un cielo liquido, appunto, come il Tempo. Sono certa che gli amici di LiquidSky si troveranno d’accordo se affermo che tra passato e futuro scorre infatti un tempo liquido, in cui certe immagini scorrono e poi ritornano in forme magari nuove solo a un primo sguardo: pensiamo ad esempio al successo planetario del film L’Esorcista di Friedkin, che attualizzava agli anni ’70 gli esorcismi dei gesuiti storici.”
“Conosco da tempo Mario come un esperto (oltre che un autore letterario in prima persona) dell’evoluzione di questo immaginario – conclude la storica – che appunto dai pulp magazine degli anni ’30 c’inonda di eroi fascinosi e dannati come Byron (penso a un personaggio dei fumetti come Dylan Dog) oppure di cattivi irresistibilmente affascinanti, da Diabolik a Joker, fino al satanismo ostentatamente kitsch di tante copertine di dischi rock”. Ecco, questa valanga che possiamo definire sbrigativamente “pop” non è rappresentata nei corridoi della Pinacoteca, ma il nostro sforzo congiunto del 27 sarà quello di dare una visione il più possibile completa del concetto, pur negli inesorabili limiti temporali di una (per ora almeno) unica conferenza.”

Crimes Of The Future – il ritorno di Cronenberg al body horror @ PostHuman


Mario Gazzola su PostHuman recensisce Crimes Of The Future, la nuova fatica di David Cronenberg. Ed è un brivido leggere certe impressioni, per alcuni maestri il tempo sembra davvero non passare mai e anzi, divengono ancora più espressivi, ancora più maestri. Un estratto:

Organi tumorali mutanti, mangiatori di plastica e glaciali performance di body art: dopo l’erotizzazione del video e delle macchine, ora “è la chirurgia il nuovo sesso” nell’ultimo plumbeo capolavoro del Canadese che “installa porte nel futuro”.
Non facile scrivere qualcosa d’intelligente all’altezza di un film cupo e geniale come Crimes Of The Future, filosoficamente lucido quanto visionario sul futuro della nostra specie, come da sempre è il miglior Cronenberg, autore di una filmografia straordinariamente coerente e compatta, anche nelle sue evoluzioni dal body horror (praticamente sua invenzione) ai mostri dei media, della psiche, dai soggetti originali a monumentali riduzioni letterarie e ritorno.

Crimes Of The Future è infatti summa e superamento di eXistenZ, (le porte corporee per il gioco virtuale), Crash da Ballard (il sesso “macchinale”) e su tutti del burroughsiano Naked Lunch: le macchine organiche, il cospirazionismo paranoico dove tutti sono agenti di qualche bizzarra fazione politica.
Persino gli esterni squallidi girati la scorsa estate in un’Interzona di anonimi vicoli ateniesi, fra relitti navali e graffiti urbani, dove ormai non si deambula per comprare una dose di paradiso artificiale o sesso a buon mercato, ma per farsi incidere la pelle. Esterni che ben dimostrano come si possa ricreare un’ambientazione autenticamente minimal-dystopic-cyberpunk anche con gli angoli marginali del nostro mondo mediterraneo e non solo con grattacieli luccicanti.

Del resto, qual migliore set per una storia in cui una frangia d’umanità mutata si scopre in grado di nutrirsi orgogliosamente di plastica – ossia degli scarti della nostra civiltà in procinto di sommergerci – mentre il protagonista Saul Tenser (Viggo Mortensen) passa quasi per un “conservatore” dato che non nasconde il fastidio che gli crea la spontanea generazione di nuovi organi tumorali da parte del suo corpo. Organi che poi si fa rimuovere dall’ex chirurga Caprice (Léa Seydoux) tramite un avveniristico macchinario biotecnologico che pare sbucato da un incubo di Giger, facendo dell’atto estreme performance di body art che ben avrebbero potuto ispirare dei seguiti dell’Outside di Bowie.

Pur essendo una star riconosciuta e coccolata, Saul rifiuta d’arrendersi all’inesorabilità della mutazione della specie umana professata invece da Lang (Scott Speedman), padre del bambino Brecken, il primo nato con la capacità di digerire la plastica ereditata geneticamente senza mutazioni. Bambino ucciso all’inizio del film dalla madre Djuna (Lihi Kornowsky), che non lo riconosce più come “umano”.
Lang ora vuole da Saul un’autopsia-performance del figlio morto, per alzare i riflettori del mondo sulla sua fazione plastivora, mentre la “Nuova Buoncostume” per cui il performer è agente sotto copertura vuole assolutamente arrestare l’azione degli apostoli di quest’evoluzione umana neogastrica.

La sensazione è che – al di là del cupo gelo in cui ti lascia – questo sia IL film del presente, che renderà insignificante qualunque altro film per i prossimi dieci anni. Vedetelo alla svelta quando (da domani) farà capolino nelle sale italiane (distribuito da Lucky Red), perché prevediamo che non resterà in circolazione a lungo. Ma resterà a lungo in chi lo seguirà con la necessaria partecipazione “performativa”.

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DI JESSICA MARTINO E MARIANNA PIZZIPAOLO

Eleonora Zaupa • Writer Space

Una finestra per un altro mondo. Un mondo che vi farà sognare, oppure...

Through the Wormhole

“Siamo l’esperimento di controllo, il pianeta cui nessuno si è interessato, il luogo dove nessuno è mai intervenuto. Un mondo di calibratura decaduto. (…) La Terra è un argomento di lezione per gli apprendisti dei.” Carl Sagan

AI MARGINI DEL CAOS

un blog di Franco Ricciardiello

Tra Racconto e Realtà

Guardati intorno

Roccioletti

Arte altra e altrove.

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