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L’incoronazione imperiale tra tarda antichità e alto medioevo – TRIBUNUS
Su Tribunus alcuni cenni storici sulle cerimonie d’investitura dei tardo imperatori romani e di quelli cosiddetti bizantini, cerimoniale che parte da basi barbare per sfociare in vere e proprie consacrazioni religiose. Un estratto:
Qualunque fosse il modo in cui otteneva il potere, nel periodo tardo antico e altomedievale il nuovo imperatore veniva proclamato con una solenne cerimonia. L’investitura imperiale attingeva dalla tradizione romana, ma si arricchì nel corso del tempo con l’introduzione di nuovi elementi.
Se in un primo momento conservava pienamente l’aspetto e il carattere militare, a partire dal VII secolo prevalse sempre più l’aspetto religioso.Nel V e nel VI secolo esistevano due diverse procedure di proclamazione. Se il predecessore era ancora in vita, la cerimonia era molto semplificata e si limitava ad alcuni e pochi atti essenziali.
Nel caso contrario, la proclamazione si articolava in tre passaggi: il rito militare, l’incoronazione e la presentazione ai sudditi.
Il rito militare consisteva nella sollevazione del nuovo sovrano sullo scudo, usanza d’origine germanica, e nella consegna del maniakis, meglio noto come torques, una decorazione portata al collo dai soldati, ma che qui veniva posta sul capo dell’imperatore da un sottufficiale istruttore.In termini simbolici, il rituale significava la delega dell’autorità di comando all’imperatore, in cui l’esercito riconosceva il proprio comandante. Questo uso è attestato per la prima volta per la proclamazione di Giuliano ad Augusto da parte delle sue truppe nel 363.
Alla sollevazione sullo scudo si accompagnava poi la consegna delle insegne del potere, tra cui la corona, da parte di un alto funzionario. La sollevazione sullo scudo prese man mano l’essenzialità delle origini come rito di legittimazione da parte dell’esercito, ma si conservò come formalità tradizionale, tanto che si trova ancora nel XIV secolo.
In quest’epoca così tarda lo scudo non era sollevato più dai soldati, ma dall’imperatore anziano che aveva associato al trono un collega, oppure dal patriarca, o ancora dai dignitari di corte.
La inumanità del potere
Scendo nei sotterranei di un’antica villa a respirare le angosce e le inumanità del potere, fino a disturbarmi con le trascendenze inumane.
Il fisico, ogni altra energia, ma non la dissimulazione abbandonavano Tiberio. Identica la freddezza interiore; circospetto nelle parole e nell’espressione, mascherava, a tratti, con una cordialità manierata il deperimento pur evidente. Dopo spostamenti più frenetici, si stabilì da ultimo in una villa, vicino al promontorio di Miseno, appartenuta in passato a Lucio Lucullo.
Si trovava là un dottore valente, di nome Caricle, il quale, pur non occupandosi direttamente dello stato di salute del principe, era però solito offrirgli tutta una serie di consigli. Costui, fingendo di accomiatarsi per badare a questioni personali, presagli la mano, come per ossequio, gli tastò il polso. Ma non lo ingannò perché Tiberio, forse risentito e tanto più intenzionato a nascondere l’irritazione, ordinò di riprendere il banchetto e vi si trattenne più del solito, quasi intendesse rispettare la partenza dell’amico.
Ciononostante Caricle confermò a Macrone che Tiberio si stava spegnendo e che non sarebbe durato più di due giorni. Da allora tutto fu un rapido intrecciarsi di colloqui tra i presenti e un susseguirsi di missive ai legati e agli eserciti. Il sedici di marzo Tiberio rimase privo di respiro e si credette concluso il suo corso terreno; arrivò poi la notizia che gli tornava la voce, che aveva riaperto gli occhi e che chiedeva che gli portassero del cibo, per rimettersi dallo sfinimento.
Si diffuse il panico in tutti, e si dispersero gli altri, fingendosi ognuno affranto oppure sorpreso; Macrone, senza perdere la testa, fece soffocare il vetusto sotto un mucchio di coperte e allontanare tutti dalla soglia. Così finì la vita di Tiberio a settantotto anni