Su CarmillaOnLine la recensione a Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze, saggio politicoeconomico di Raffaele Sciortino uscito per Asterios; uno largo stralcio:
Lo scontro tra Cina è Stati Uniti è solo all’inizio. Si tratta di una complessa e inevitabile sfida sistemica dagli esiti quanto mai incerti. La Cina, per quanto rapidamente ascesa al rango di potenza mondiale, è ben consapevole di essere più debole del suo avversario e per questo non può e non vuole sfidare l’egemonia americana a livello planetario, per quanto essa risulti indebolita. E questo sia detto con buona pace degli antimperialisti d’antan, quelli che mai hanno elaborato fino in fondo il lutto per la scomparsa della vecchia Unione Sovietica e per questo immaginano un mondo multipolare in cui possa risplendere la stella del nuovo stato guida socialista. Ciò detto l’imperialismo è una questione quanto mai seria e gli esiti dello scontro tra Cina e America saranno fondamentali per le sorti dell’umanità intera. Con buona pace, questa volta, dei puristi della lotta di classe per i quali l’unica cosa importante è lo scontro diretto tra borghesia e proletariato, concepito in una sorta di vuoto geopolitico generalmente privo di riferimenti alla dimensione bellica. Questo è solo un piccolo assaggio, con l’aggiunta da parte nostra di un pizzico di pepe polemico, dal ricco ed elaborato piatto rappresentato dall’ultimo libro di Raffaele Sciortino, Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Si tratta di un testo in cui la geopolitica non è considerata come mero scontro tra potenze statuali ma è concepita come “economia e politica concentrate allo stadio dell’imperialismo”, capace di tenere insieme contraddizioni inter-borghesi e di classe, competizione inter-capitalistica e crisi socio-politica. Strutture, strategie, contingenze è il sottotitolo del libro che esprime il tentativo di dare conto sia degli ineludibili meccanismi oggettivi che governano il nostro mondo a livello planetario sia delle istanze progettuali collettive che cercano di modificare il contesto di riferimento. Il tutto nell’ambito di un processo che rimane aperto a differenti esiti, benché essi non risultino certamente infiniti e indefiniti. “Il sistema dollaro-centrico è in prima istanza una struttura costituitasi e consolidata nei decenni tra dinamiche concorrenziali inter-capitalistiche e lotte di classe nel quadro dell’egemonia mondiale statunitense. Serve a oliare e a “chiudere” il circuito internazionale della produzione di valore; non è dunque una pura escrescenza monetaria e finanziaria così come l’economia statunitense non è “vuota” di attività produttive detenendo ancora la leadership in molti settori a tecnologia avanzata, intrecciati alla ricerca e produzione di guerra, dall’informatica alle tecnologie della comunicazione, dall’industria della salute all’agro-industriale, ai brevetti e ai diritti di proprietà intellettuale. Siamo, piuttosto, di fronte alla forma assunta dalla riproduzione del capitale sociale complessivo nel quadro del passaggio alla sussunzione reale del lavoro1“.
Marco Maculotti propone su AxisMundi un momento molto particolare degli anni ’60, vedendola dall’ottica di Kenneth Anger e della sua sensibilità occulta, capace di ordinare il mondo attraverso altri algoritmi. La chiosa della traduzione di Elizabeth Horkley, che razionalizza un testo che di razionale ha solo l’empatia dei dettagli e della vertigine sensoriale:
Per i primi decenni della sua carriera, Anger ha operato al di fuori di un sistema di studios a cui era vietato pubblicare film come il suo. Lavorando nel ventre del movimento controculturale, si è trovato in una posizione unica per esporne le contraddizioni. Invocationè in definitiva una testimonianza del potere della visione di Anger. Non ha previsto gli omicidi di Manson con il casting di Bobby Beausoleil, né le morti ad Altamont filmando gli Hells Angels. Ma Anger ha riconosciuto le forze subliminali che costringevano le persone ad agire in modi che altrimenti non avrebbero fatto.
Su L’Indiscreto un interessante articolo che prova ad analizzare, storicamente, le cause del conflitto in Ucraina, scavando nel passato e formulando alcuni avvenimenti che illuminano parecchio; il resto è non detto, però la lettura integrale dell’articolo rimane obbligatoria.
L’Ucraina è una nazione che ha la stessa origine della Russia, ma che si è trovata storicamente smembrata fra la Polonia, l’Impero austriaco e la Russia zarista, che alla fine la integrò in gran parte. Essa ha mantenuto la propria lingua, affine al russo, e, come in altre nazioni asservite, nel diciannovesimo secolo alcuni intellettuali vi suscitarono una corrente indipendentista.
Durante i disordini e le guerre che seguirono la Rivoluzione d’ottobre, l’Ucraina, sotto la guida dell’anarchico Machno, proclamò la propria indipendenza, ma fu conquistata dai bolscevichi e incorporata nell’URSS.
L’URSS lasciò che esprimesse la sua lingua e il suo folklore, ma vi represse ogni velleità di autonomia. La ricca terra d’Ucraina fu la principale vittima della kolchozificazione forzata, della deportazione in massa dei kulaki e soprattutto della gigantesca carestia del 1931. Da qui, un enorme risentimento nei confronti della Russia, cosa che spiega gli applausi, filmati dai nazisti, di una parte degli abitanti di Kiev all’arrivo della Wehrmacht.
Ma la cosa più grave fu che il movimento indipendentista ucraino, esiliato in Germania, si era legato al potere nazista sotto la direzione di Bandera, e poi cooperò con la Wehrmacht nell’invasione dell’Ucraina e nella sua occupazione. Costituì un’amministrazione agli ordini dei nazisti e partecipò alle vessazioni perpetrate dall’occupante, compreso il massacro degli ebrei. Vasilij Grossman espresse il suo dolore quando, alla liberazione dell’Ucraina dai nazisti, apprese che sua madre era stata uccisa dagli ucraini. Come riporta Serge Klarsfeld, il motto dei nazionalisti ucraini di Bandera collaboratori dei nazisti, affisso per le strade di Kiev nel 1941, era: “I tuoi nemici sono la Russia, la Polonia e i giudei”. Nel 1941, sotto l’occupazione della Wehrmacht, Bandera proclamò anche una “Repubblica ucraina indipendente”. Ci furono coinvolgimenti militari di ucraini nella “Legione ucraina” che appoggiava le truppe di occupazione naziste; l’UPA (Armata insurrezionale ucraina) continuò dopo la guerra a combattere l’Armata Rossa, fino al proprio annientamento nel 1954. Bisogna però d’altra parte dire che migliaia di ucraini si arruolarono come partigiani contro l’occupante tedesco.
Così, si comprende come i volontari stranieri che nel 2022 si arruolano per l’Ucraina siano di due tipi: il primo animato dall’ideale democratico, il secondo dall’ideale fascista.
Con la sua situazione geopolitica strategica vicina alla Russia e il suo patrimonio economico, l’Ucraina è una preda importante, tanto per la Russia putiniana che conserva il sogno di ricostituire l’Impero slavo, quanto per gli Stati Uniti che insedierebbero cosi la NATO alle frontiere occidentali della Russia. Di fatto, l’Ucraina è la posta in gioco di due volontà imperiali, l’una che vuole salvaguardare il proprio dominio sul mondo slavo e proteggersi da una nazione vicina sotto l’influenza degli Stati Uniti, l’altra che mira a integrare l’Ucraina nell’Occidente e a togliere alla Russia il titolo di superpotenza mondiale. Gli Stati Uniti, indebolendo permanentemente la Russia per interposta Ucraina, eliminerebbero uno degli ostacoli al mantenimento della propria egemonia planetaria (l’altro ostacolo è la Cina).
Su CarmillaOnLine considerazioni di Sandro Moiso sparse sullo stato attuale del consenso globale, da leggersi ognuna per suo conto ma sapendo che insieme forniscono il quadro mondiale della compressione liberista e politica. Vi lascio ad alcuni stralci, mentre sullo sfondo continua ad agitarsi la guerra:
«Accorrevano folle per farsi ipnotizzare dalla sua voce, dagli inni di partito, dalle parate alla luce delle torce […] Erano disposte in file e squadre, su sfondi elaborati, con vessilli color sangue e uniformi nere»5. Oggi le cattedrali del consumo, i social network, la Rete, i media riescono a ricreare solo in parte tale tipo di assembramento unitario. Vale per coloro che convocano su Facebook o TiKTok e WhatsApp manifestazioni e flash mob cui di solito non partecipa nessuno o pochissimi oppure si trasformano in assalti spettacolari ma privi di risultato alle istituzioni del potere, ma anche per le grandi reti di vendita di dati e merci che iniziano a dover licenziare i dipendenti a migliaia o decine di migliaia. Manca il collante comune, il minimo comune denominatore che la tanto decantata società aperta si è persa da qualche parte per strada.
La celebre massima di Margaret Tatcher, la società non esiste esistono solo gli individui, si è sostanziata nella realtà attuale, ma il risultato “politico” è stato che, mentre un tempo le grandi folle si radunavano per perdere la propria individualità in nome di un’identità comune, semplicemente, oggi le “masse” hanno perso qualsiasi tipo di identità, sia individuale che comune. Senza nemmeno trasformarsi in quelle moltitudini costituenti che han fatto gran parlare di sé fino a qualche anno or sono e senza alcun costrutto materiale. Se non l’esser fondato sulla costante e instancabile ricerca di un “nuovo soggetto” che ha sempre caratterizzato certe teorizzazioni dell’operaismo italiano (di derivazione più gramsciana che marxiana).
Una non recensione, di quelle che piacciono a me: Linea gotica, dei CSI, su Rockol.
“Linea Gotica” per me ha sempre simboleggiato un viaggio. Lo era il disco precedente, una necessaria fuga dallo sgretolamento delle certezze. Lo sarebbe stato il disco successivo, per andare a riscoprire nella lontana Mongolia il bisogno di ritornare a casa. In questo album di mezzo, invece, siamo scaraventati brutalmente nel cuore dell’Europa squarciata e stuprata dalla guerra e dall’odio cieco e fratricida. La partenza è nei Balcani, a piedi in una Sarajevo che brucia in cupe vampe. Il cammino prosegue spedito attraversando resistenze partigiane, lotte tra il divino e la carne, il bisogno di essenziale. Il punk filo-sovietico del decennio precedente si spoglia dei canoni e dei cliché, la batteria, quando non assente, rimane in penombra. L’elettricità plumbea e minimale delle chitarre di Zamboni e Canali riverbera le lacerazioni di un momento storico doloroso. Il basso di Maroccolo dirige il Consorzio con le sue linee eleganti e commoventi. Ferretti Giovanni Lindo, voce di quei miei anni, narra gli spasmi di questo tempo detestabile, scorteccia le parole aride e secche col suo salmodiare, più sussurrato e armonioso che d’abitudine. Inarrivabile la sua scrittura, la sua visione, in questo disco. Ricordo che sovente mi limitavo a leggerne il libretto, dove i testi veri e propri dei brani sono inframmezzati da pensieri e storie, esegesi ai significati che ne aggiungevano altri.
“E ti vengo a cercare”di Battiato, col maestro che si palesa umilmente sul finale, è la purezza che persevera tra i cumuli di macerie: la più bella cover della storia della musica italiana. Un quarto di secolo dopo, i tempi sono forse ancora più detestabili, ma ho dalla mia l’esperienza di chi sa che anche l’infelicità può essere preziosa. Da quel chiostro soleggiato ho portato con me “Irata”e Pasolini, la voce rassicurante di Ginevra Di Marco ad ammorbidire le parole, le rose, le spine, i cavalli, tanti cavalli, i comandanti, i monaci e la mia fascinazione infinita.
Infine si arriva all’Ucraina. USA ed Europa, come è ampiamente documentato, hanno foraggiato il fascismo ucraino, politicamente, economicamente e militarmente, al fine di rovesciare il Governo filo russo e portare l’Ucraina all’interno dell’orbita Occidentale. Da qui la “secessione” della Crimea, l’occupazione da parte dell’esercito russo delle basi militari e navali ucraine presenti in Crimea ma non solo. Se la Crimea è stata l’epicentro dell’intervento russo, altre zone dell’Ucraina, giorno dopo giorno, sono finite tra le mani di milizie popolari armate, ampiamente foraggiate da Mosca, che hanno dato vita e forma a nuovi ordinamenti statuali. Ciò le rende, a tutti gli effetti, ben distanti dall’essere ascritti all’ambito dell’impolitico ma, pur a denti stretti, viene riconosciuto loro lo status di hostis. Nei loro confronti non esiste altra relazione se non quella propria della politica. In poche parole, anche in questo caso, al di là dei balbettii di maniera, i potentati imperialisti Occidentali non sembrano in grado di reggere il colpo. Ma perché? Cosa comporterebbe, nel contesto, l’intervento militare? “Semplicemente” il riaffiorare di un conflitto bellico dove, tra i contendenti, la relazione non può che porsi sul piano della più completa simmetria. Un intervento militare contro la Russia o la Cina, o contro entrambe, non potrebbe essere ricondotto a quella sorta di videogame a cui, andando al sodo, si sono risolti i vari interventi bellici imperialisti compresi tra la Prima Guerra del Golfo e la disarticolazione della Libia. La guerra in Ucraina non potrebbe che assumere forme e tratti di un conflitto “classico” dove, per forza di cose, a essere coinvolti non sono semplicemente gli specialisti bensì le popolazioni. Esattamente dentro la “crisi ucraina” riaffiora prepotentemente il volto interstatuale della guerra. Un volto che, per molti versi, sembrava definitivamente essersi eclissato. Non si tratta di rimettere al centro il carattere simmetrico della guerra bensì di tenere a mente come, nel contesto attuale, simmetria e asimmetria rimandino ai contorni che la forma guerra ha assunto nella fase imperialista globale. Le due forme non si escludono e non è escluso che finiscano con il compenetrarsi. In Ucraina ciò si è già prefigurato. In questo senso appaiono per lo meno dubbie tutta quella serie di argomentazioni, provenienti per lo più dai vertici militari Occidentali, che considerano del tutto superato e inattuale l’ipotesi della guerra interstatuale e, in conseguenza di ciò, la possibilità del ripetersi di un conflitto avente come protagonisti raggruppamenti politicamente organizzati. A nostro avviso, in tale argomentazione, vi è un errore di fondo poiché si finisce con il ribaltare alla radice la relazione mezzi – fini finendo con lo spostare l’attenzione sulla tecnica e ponendo la dimensione del “politico” fuori dalla scena. In tale ottica, il militare e tutto ciò che lo comprende, avrebbe esautorato il ruolo egemone del “politico” diventando forza autonoma e indipendente e non più “semplice” appendice del “politico”. Paradossalmente, le trasformazioni tecniche, avrebbero finito con il ribaltare la relazione classica tra politica e militare. Non sarebbe più il militare a essere compreso nella politica bensì il contrario. Che cosa avrebbe fatto saltare il paradigma della guerra tra blocchi statuali? La risposta è sin troppo semplice: la presenza dell’arma atomica prima e nucleare poi renderebbe obiettivamente obsoleto il combattimento di tipo tradizionale ma non solo. La presenza di questo armamentario renderebbe, di per sé, impensabile una reiterazione del conflitto nella sua forma “classica”. Certo, se nella politica prendesse il sopravvento un tratto decisamente irrazionale, il potenziale distruttivo a disposizione delle più diversificate forze militari è tale che, a noi, non resterebbe altro da fare che scrivere un Urania con al centro le vicende dei pochi umani, per di più sotto le sembianze di mutanti, sopravvissuti al post bomba. Scenario possibile, come ipotesi di scuola, ma altamente improbabile e, questo il punto, neppure troppo nuovo. Nel corso della Seconda guerra mondiale le armi di distruzione di massa “non convenzionali” erano equamente suddivise tra tutti i contendenti. A nessuno, neppure ai nazisti, venne minimamente in mente di farvi ricorso. Certamente non per bontà d’animo ma per il semplice motivo che, la reazione, sarebbe stata di pari portata. Hitler avrebbe potuto intossicare Londra ottenendo il solo risultato di vedersi Berlino asfissiata tanto quanto.
Questo è l’incipit, per quanto mi riguarda da incorniciare, di un articolo di Emilio Quadrelli comparso oggi su CarmillaOnLine; e cosa c’è da aggiungere, se non un applauso per la fredda e lucida analisi che Emilio fa?
Su CarmillaOnLine le contraddizioni – che tali non solo, ma solo ipocrisie – di un sistema economico che schiaccia e cerca soltanto la via migliore per far fluire il business. Un corposo estratto:
Anni addietro, quando i migranti cominciavano a fare capolino in quantità considerevoli nei nostri mondi, a pochi veniva in mente che quelle figure “povere” e disposte ad accettare un lavoro a qualunque condizione prefigurassero, anche solo alla lontana, lo specchio di un destino possibile per una parte degli individui del vecchio Primo mondo. Erroneamente considerati “lavoratori marginali” appetibili solo per attività residuali e di poco conto, ben difficilmente facevano immaginare che quella condizione, attraverso un processo a cascata, avrebbe funzionato da apripista per cospicue quote del lavoro subordinato locale. La convinzione e allo stesso tempo l’illusione, frutto di una visione storica evoluzionista, che i rapporti di forza tra capitale e lavoro salariato, stabilizzatisi pur con gradazioni diverse nel cosiddetto Primo mondo, avessero raggiunto un equilibrio non più “storicizzabile” e pertanto non soggetto a nuova negoziazione, era un credo condiviso dai più. Le stesse retoriche sulle ricadute apportate dall’avvento del capitalismo globale apparivano, nel comune sentire, la semplice omologazione a modelli e “stili di vita” condizionati da mode e gusti sovranazionali. In altre parole, a un primo sguardo, la globalizzazione sembrava andare non molto oltre un’eccessiva presenza di hamburger e patatine fritte allo strutto sulle nostre tavole oltre a qualche cappellino da baseball di troppo. Nella peggiore delle ipotesi il massimo effetto nefasto che ci si potesse aspettare era l’andare incontro a una sorta di “imperialismo culturale”. Prospettiva che, a molti, più che criticabile si mostrava appetibile. Sia come sia, oltre all’hamburger e ai cappellini le ricadute che il capitalismo globale ci avrebbe riservato non sembravano molte di più. In tutto questo la figura del migrante c’entrava poco o nulla. Anzi, per molti versi, quella presenza “culturalmente” così diversa e in fondo pre – globale non faceva altro che rendere ancora più appetibile la globalizzazione. Era su di loro, infatti, che si sarebbero riversati i lavori e le mansioni tipiche della tarda modernità che, in qualche modo, continuavano a essere fastidiosamente presenti nei nostri mondi. Mentre le nostre società entravano nell’era cosiddetta del post – lavoro i suoi residui e cascami potevano essere tranquillamente appaltati alle popolazioni che, loro malgrado, continuavano a essere qualche passo indietro al “progresso”. Una visione fiabesca e idilliaca, repentinamente tramontata.
Ieri 6 settembre Roger Waters ha festeggiato 79 anni. Quale modo migliore di farlo che lanciare un siluro verso i vertici politici mondiali, liberisti e guerrafondai, in particolare verso la moglie di Zelensky? Ogni giorno che passa ringrazio che ci siano ancora persone come lui, pronte alla lucidità politica e all’estrema trasparenza dei gesti, anarchie di fatte che rendono il mondo un posto un po’ migliore. Da RockOl:
Nella tarda serata di ieri l’artista di Great Bookham ha pubblicato sui propri canali social ufficiali una lunga lettera aperta alla first lady ucraina, Olena Zelenska. Rivolgendo alla moglie del presidente Volodymyr Zelensky un appello per fermare il prima possibile il conflitto che sta martoriando la regione e provocando grande instabilità sugli equilibri geopolitici internazionali, Waters dà una sua personale lettura della situazione attuale. Citando un verso del classico dei Pink Floyd “Wish You Were Here” – “Did you exchange a walk on part in the war for a lead role in a cage? – Waters, per esprimendo solidarietà a entrambe le parti coinvolte nel conflitto, condanna fermamente il supporto militare offerto dall’occidente al governo di Kiev, invitando Zelensky a “portare pace nel Donbass” concedendo “autonomia parziale alle province di Donetsk e Luhansk” e a “ratificare e attuare integralmente degli accordi di Minsk 2”. L’artista, inoltre, addossa ai “nazionalisti ucraini” la responsabilità del conflitto, scaturito dal “superamento di un certo numero di linee rosse che erano state chiaramente indicate nel corso di diversi anni dalla Federazione Russa”. “Se mi sto sbagliando, mi può aiutare a capire come fare?”, conclude Waters, sempre rivolgendosi a Zelenska: “Se invece non mi sbaglio, mi aiuti nel mio sforzo volto a convincere i nostri leader a fermare questo massacro, utile solo alle classi dirigenti e ai nazionalismi sia in Oriente che in Occidente”.
Roger Waters, lo sanno in molti, non è una di quelle persone accomodanti, che aggiusta qui e lì per non creare troppi scossoni a ciò che ha intorno; lo sanno bene i Floyd, chi ha avuto a che fare con loro e prima e dopo l’uscita di Roger dalla band nell’85, e tutti conoscono il suo temperamento politico, di sinistra molto estrema – anarchica spesso mi vien da definirlo – che sfocia di continuo nella sua arte, nei suoi concerti e nelle interviste. Ecco, questa è un’intervista che Waters ha rilasciato recentemente alla CNN sui temi della guerra in Ucraina e sulle manovre belliche che interessano Cina e Taiwan, in cui gli USA ficcano abbondantemente il naso: buona lettura.
“Taiwan non è circondata dalla Cina, Taiwan è parte della Cina: è scritto in un trattato riconosciuto a livello internazionale sin dal 1948, prendilo e leggilo!”, risponde piccato Roger Waters durante un’intervista esclusiva alla Cnn. Il breve video che riprende la leggenda del rock sottolineare le ragioni cinesi sulla questione Taiwan, viene molto commentato sui social. Il cofondatore dei Pink Floyd attualmente impegnato nel suo tour ‘This Is Not A Drill’ aveva già scritto post su Twitter in merito alla guerra in Ucraina. Nell’intervista integrale rilasciata a Michael Smerconish della Cnn non esita a commentare anche la guerra in Ucraina e la posizione americana con chiari riferimenti alla linea intrapresa dal presidente Joe Biden. La conversazione si sposta poi sulla Cina e Taiwan.
Durante l’intervista, il conduttore ha messo in discussione gli elementi apertamente politici dello spettacolo di Waters, in particolare il momento in cui mostra un montaggio di “War Criminals” con una foto di Joe Biden. “Beh, tanto per cominciare sta alimentando il fuoco in Ucraina“, ha risposto Waters. “È un crimine enorme. Perché gli Stati Uniti d’America non incoraggiano [Volodymyr] Zelensky a negoziare, evitando la necessità di questa orribile, orrenda guerra?“.
“Ma lei sta dando la colpa alla parte che è stata invasa“, ha risposto Smerconish. “Ha invertito le cose“.
“Beh, per qualsiasi guerra si può dire…quando è iniziata? Bisogna guardare alla storia e si può dire: ‘Beh, è iniziata in questo giorno’. Si può dire che è iniziata nel 2008… Questa guerra riguarda fondamentalmente l’azione e la reazione della NATO che si spinge fino al confine russo, cosa che aveva promesso di non fare quando Gorbaciov negoziò il ritiro dell’URSS dall’intera Europa orientale“.
“E il nostro ruolo di liberatori?“. Ha replicato Smerconish.
“Non abbiamo alcun ruolo di liberatori“, ha risposto Waters, poi i due hanno continuato a discutere della storia della Seconda guerra mondiale. “Ti suggerirei, Michael, di andare a leggere un po’ di più e poi cercare di capire cosa farebbero gli Stati Uniti se i cinesi mettessero missili con armamento nucleare in Messico e Canada…“.
Lucius Etruscus segnala un audiolibro (media che non amo, ma non importa) sul tema dell’invasione barbarica al termine dell’Impero Romano d’Occidente: L’Italia dei barbari, di Claudio Azzara. Mi preme sottolineare il passaggio sottostante, perché indice dell’odio feroce che si scatenò in seguito tra Occidente e Oriente, tra Costantinopoli (anch’essa in qualche modo barbara, ma ancora pregna di tutto l’orgoglioso e legittimo apparato imperiale) e Roma, il Sacro Romano Impero, annacquato dalle identità barbare e ormai altro. Conflitto che si trascina identico fino ai nostri giorni.
In questo delizioso racconto dell’Italia barbarica, Azzara ci mostra come anno dopo anno, secolo dopo secolo, la filosofia di inclusione dell’Impero, da sempre attanagliato dalla carenza di popolazione autoctona e quindi sempre in cerca di “rinforzi” esterni, aveva reso la divisione tra “romano” e “barbaro” decisamente diversa da come la intendiamo noi. Un barbaro che entrava nell’Impero, ne sposava la filosofia, ne assumeva lingua, culti e usanze, non aveva più senso chiamarlo “barbaro”, termine usato per quelli che vivevano fuori dal limes, dal confine. Come si fa quindi a definire “barbari” quelli che hanno abitato l’Italia una volta crollato l’Impero, visto che erano romani a tutti gli effetti?
Mi diverto a fare una dimostrazione per assurdo. Immaginiamo che un domani l’ennesima variante del Covid o il vaiolo delle scimmie o la peste suina o la tosse caprina o qualche altro malanno che ci piove addosso colpirà solo gli italiani: nel 2122 saranno estinti gli italiani e rimarranno solo gli “stranieri” nella Penisola. Dovremmo chiamarli barbari? E perché? Vivono qui da una vita, spesso ci sono pure nati, qui, spesso parlano italiano molto meglio degli “autoctoni”, seguono le usanze italiane, hanno vizi e virtù italici, perché mai dovremmo chiamarli “barbari” quando non fanno che preservare l’eredità italica? Premettendo che questo è un mio esempio, non voglio attribuire pessime idee al professor Azzara, i barbari che ho trovato in questo saggio non fanno nulla di “barbarico”, visto che nella loro mente si sentono romani, nel senso di successori dell’Impero appena crollato.
Ecco il secondo estratto da Che la terra ti sia lieve – qui il primo – mio romanzo collocato nella saga dell’Impero Connettivo ed edito da DelosDigital nell’ambito della collana L’orlo dell’Impero; la cover è di Ksenja Laginja. L’ebook è disponibile sul DelosStore e sugli altri portali online al prezzo di 3,99€. Buona lettura 🙂 […]
Pubblico qui sotto un primo estratto da Che la terra ti sia lieve, mio romanzo collocato nella saga dell’Impero Connettivo ed edito da DelosDigital nell’ambito della collana L’orlo dell’Impero; la cover è di Ksenja Laginja. L’ebook è disponibile sul DelosStore e sugli altri portali online al prezzo di 3,99€. Buona lettura 🙂 Bill, Tunes & […] […]
Con oggi, posso festeggiare i miei primi venti anni da blogger. Era infatti il 12 marzo 2003 quando aprivo il blog cybergoth, in compagnia di un manipolo di redattori che mi aiutarono nel corso di quei meravigliosi otto anni su Splinder; tanti lettori, tante conoscenze, tanti progetti che da allora sono nati e che hanno […]
[Letto su KippleBlog] Continuano le presentazioni online di Kipple Officina Libraria. Giovedì 16 marzo alle 21.00, sulla pagina FB della casa editrice, Marco Scarlatti presenterà il suo romanzo Il giorno dell’uragano, vincitore del Premio Kipple 2021; saranno presenti nella diretta StreamYard l’editore Lukha B. Kremo, l’editor Sandro Battisti e Ksenja Laginj […]
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Come annuncia Fantascienza.com, esce oggi Delle Eloquenti Distopie, miniantologia che ho curato per i tipi DelosDigital nell’ambito della collana, anch’essa curata da me, non-aligned objects. In questo momento storico sembra di essere caduti in un mondo di eloquenti distopie, dove entità sociopolitiche in cui ci sentiamo intrappolati ed eterodiretti ci stann […]
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"Scrivete quel che volete scrivere, questo è ciò che conta; e se conti per secoli o per ore, nessuno può dirlo." Faccio mio l'insegnamento di Virginia Woolf rifugiandomi in una "stanza", un posto intimo dove dar libero sfogo - attraverso la scrittura - alle mie suggestioni culturali, riflessioni e libere associazioni.
“Siamo l’esperimento di controllo, il pianeta cui nessuno si è interessato, il luogo dove nessuno è mai intervenuto. Un mondo di calibratura decaduto. (…) La Terra è un argomento di lezione per gli apprendisti dei.” Carl Sagan