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Lankenauta | Bisogna adattarsi. Un nuovo imperativo politico


Su Lankenauta la recensione a “Bisogna adattarsi. Un nuovo imperativo politico”, di Barbara Stiegler con introduzione di Beatrice Magni, un saggio sul nostro modello comportamentale e sociale che fa riflettere; ecco il testo:

Molti di noi che nel corso degli anni sono diventati sempre più intolleranti alle pretese di adattamento ad una società “performante”, ad una velocità a tutti i costi, probabilmente saranno motivati a leggere un saggio come “Bisogna adattarsi” di Barbara Stiegler. Proprio per tentare di capire le origini, le motivazioni di questo mantra che ormai sembra dato per assodato, tranne da qualche coraggioso che, ovviamente, rischia di meritarsi l’epiteto di fricchettone.
Barbara Stiegler, con questa sua puntuale dissertazione – sicuramente di non facilissima lettura per i non esperti di filosofia politica, anche se alla fine perfettamente comprensibile nelle sue conclusioni – ha incentrato la sua attenzione soprattutto sull’origine della dottrina dell’adattabilità a tutti i costi, che si basa sui principi della biologia, insiste sull’arretratezza, sulla necessità di adattarsi sempre e comunque al ritmo del cambiamento; e di conseguenza ripercorre la genesi del neoliberismo come teorizzato nella prima metà del XX secolo da Walter Lippmann. Genesi piena di contraddizioni, inversioni di rotta, ma che alla fin dei conti ha voluto dire disegnare una nuova politica dove il ruolo predominante sarebbe stato quello di una classe di super esperti, competenti ma anche detentori di innumerevoli interessi privati, che avrebbero dominato la gran massa della popolazione, di fatto amorfa e inadeguata; per poi renderla finalmente “adattabile”. In altri termini una concezione del liberalismo che faceva il paio con la verticalità del potere: “un governo di esperti, che rompe l’assunto di una onni-competenza da parte dei cittadini. Una manifattura del consenso, che prevede la fabbricazione di buoni stereotipi, attraverso una propaganda ben orientata, intesa a riadattare la specie umana al suo nuovo ambiente globalizzato. Infine, una democrazia in versione minimal, e puramente procedurale, che l’ambizione di avere la meglio sull’eterocronia tra ritmi evolutivi, e di risolvere ogni forma di conflitto attraverso una riforma graduale delle regole, mimando il ritmo omogeneo delle piccole variazioni darwiniane e della loro selezione naturale” (pp.88).

Concezione diversa quella del filosofo John Dewey su cui, non a caso, nacque il cosiddetto “Dewey-Lippmann democracy debate”, ampiamente analizzato nel saggio di Barbara Stiegler: un liberalismo che prende le mosse da iniziative che partono dal basso, dallo sviluppo dell’intelligenza collettiva e dalla condivisione delle conoscenze in favore di un’umanità che non è affatto incapace, ma che semmai è da valorizzare senza alcun timore per il “ritardo”: “Pensare al ritardo della specie umana non solo come un difetto ma anche come un’opportunità per la sua evoluzione, implica innanzitutto respingere, sia contro Lippmann che contro lo stesso Darwin, la visione gradualista del ritmo evolutivo” (pp.106). Concezioni diverse che porteranno ad altrettanto diverse concezioni di liberalismo e di neoliberismo ancora oggi contrastanti “senza che i nostri contemporanei ne abbiano chiara consapevolezza” (pp.119).
Dewey, infatti, contrapponendo due individualismi, quello vecchio e quello nuovo, individua ben quattro momenti della storia del liberalismo ben distinti l’uno dall’altro “che si ibridano e si confondono più o meno attraverso le epoche”, anche se il problema più grande che si pone è quello di “costruire una nuova individualità che sia in sintonia con le condizioni oggettive in cui viviamo” (pp.126). Al contrario, mentre un nuovo liberalismo promosso dal pragmatismo americano proponeva l’intelligenza collettiva del pubblico come l’unico agente legittimo dell’azione politica, la cosiddetta grande rivoluzione neoliberale ha voluto imporre proprio l’esclusione definitiva dell’intelligenza collettiva. Quindi, se per Dewey la rivoluzione scientifica avrebbe creato le condizioni per un’apertura sempre maggiore dell’esperimento collettivo, Lippmann ha interpretato le tecnoscienze come mezzo necessario per un aumento della produttività economica attraverso il capitalismo globalizzato.

Le considerazioni finali di Barbara Stiegler ci raccontano, con grande efficacia, la genesi di una politica essenzialmente confusa, in cui tutto è improntato a un riadattamento degli individui all’ambiente e non a una vita felice: “una biopolitica disciplinare che, nel campo del lavoro, dell’educazione e della salute, passa attraverso un controllo sociale sempre più coercitivo e, nel contesto della democrazia, ottiene risultati attraverso la fabbricazione del consenso delle masse” (pp.241).
Peraltro se il tema dell’adattamento e della predominanza degli esperti dentro e fuori le istituzioni sembra davvero essere il nostro presente, non pare proprio che la “verticalità” di Lippmann – visti i risultati – ci abbia procurato questi grandissimi luminari.

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