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Archivio per Interviste

Ken Loach a Cannes: “La speranza è una questione politica, ed è di sinistra” – la Repubblica


“La speranza è una questione politica. Se pensi di poter cambiare le cose speri, e questo ti porta a sinistra. Se non credi nella tua forza, sei cinico, disperato, allora passi alla destra”.
Per Loach la destra italiana “ha seguito lo stesso corso, forse in modo più estremo, del resto dell’Europa. Le persone che sostengono la destra sono le stesse che ti sfruttano sul posto di lavoro. Conosci i tuoi nemici. Le persone che ti chiedono di lavorare con stipendi da fame e senza previdenza sono quelli che promuovono i partiti perché dividano la gente. Le persone che dicono ‘rispettiamo l’umanità di tutti’ saranno quelle che ti difenderanno quando sarai attaccato. Basta guardare indietro nella storia. Chi ha sostenuto il fascismo e il nazismo in Spagna e Germania erano le grandi imprese, la vecchia aristocrazia. Non erano lì a sostenere la classe operaia. Hanno sostenuto il fascismo perché avevano molta più paura del comunismo, E questo ben prima che conoscessimo i danni dello stalinismo. E la Gran Bretagna non è innocente, hanno sostenuto i fascisti in Spagna dal ’36 al ’39, fino all’inizio della Guerra”. Per Loach è errato dire che la destra sia sostenuta dalla classe operaia, “lo è solo da alcune parti. La maggior parte sostiene la sinistra ed è a favore di un cambiamento radicale”. E allora “organizziamo eventi che facciano incontrare le persone. Se la gente si incontra e ride, la risata è un atto di grande sovversione, ai razzisti non piace. Queste sono le campagne politiche, alla fine noi, come dice il film ‘siamo buoni vicini'”.

Così Ken Loach su Repubblica

“428 dopo Cristo. Storia di un anno” di Giusto Traina – Letture.org


Su Letture.org un’intervista a Giusto Traina, autore di “428 dopo Cristo. Storia di un anno”, un saggio storico che m’intriga molto perché piazzato nell’apice iperbolico del disfacimento romano d’Occidente, un momento su cui oscillava quel mondo prima di cadere definitivamente. Ecco la chiacchierata:

Prof. Giusto Traina, Lei è autore del libro 428 dopo Cristo. Storia di un anno pubblicato da Laterza: qual è l’importanza del 428 dopo Cristo?
Nella storia globale, il concetto di importanza è piuttosto elastico. Scegliere una data insolita come il 428 può stupire, e del resto ha stupito anche molti dei miei colleghi, compresi gli esperti di tardo antico. D’altra parte, anche se nel 428 sono accaduti eventi di un certo interesse, non si tratta esattamente di eventi epocali: l’unico episodio più o meno cruciale, che poi è il punto di partenza del libro, è la caduta di Artashes e la fine del regno della Grande Armenia, documentata solo da fonti locali, e praticamente oscurata dagli altri autori. Più di dieci anni fa (la prima edizione del libro, oggi ristampato in paperback, risale al 2007), l’ottimo redattore che aveva seguito la preparazione del manoscritto si era preoccupato della mia scelta di partire da una realtà marginale come l’Armenia, temendo che il prodotto finale risultasse un libro di nicchia, e trovasse pochi lettori interessati. Per fortuna è andata diversamente.

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Cristiana Astori | ThrillerMagazine


Su ThrillerMagazine una bella intervista a Cristiana Astori; un estratto:

Dove sei quando scrivi? Sia fisicamente che mentalmente

Nella mia stanzetta tappezzata di libri e dvd, in genere con uno dei miei due gatti aggrappato al braccio ormai anchilosato mentre tento di battere sulla tastiera, e con una delle mie tazze preferite colma di tè bollente anche d’estate, di solito alla fragola, gelsomino o vaniglia. Ma nello stesso tempo sono con i miei personaggi, a vedere come vanno a finire le situazioni estreme in cui li ho appena cacciati, e a prendere rapidamente nota di come reagiscono… e degli accidenti che mi mandano! Ma in generale, quando scrivo, sono sempre al cinema: mi immagino di essere in una sala al buio su una poltrona imbottita di velluto, e di assistere sul grande schermo allo spettacolo che vorrei raccontare.

Come scegli le tue vittime, e i tuoi assassini?

Durante la stesura del mio primo romanzo, Tutto quel nero, chiesi al critico di cinema Paolo Spagnuolo come avrei potuto ricambiare la cortesia di avermi fornito alcune esclusive interviste al regista Jesus Franco e all’attrice Lina Romay, utili per la storia. Paolo espresse il bizzarro desiderio di morire nel mio libro, e io non ho potuto non accontentarlo. Da allora, diverse persone hanno chiesto di poter fare la stessa fine, non ultimo un importante direttore di festival cinematografici che in Tutto quel viola sarà vittima di un killer efferato. Riguardo alla scelta degli assassini, invece, preferisco non rivelare i criteri seguiti per non rovinare la sorpresa a chi mi legge.

Archeologia e cioccolata fondente. Intervista a Enrico Giannichedda – Carmilla on line


Su CarmillaOnLine una singolare intervista a un singolare archeologo: Enrico Giannichedda. Un botta e risposta assai significativo del tenore dell’intervista e dell’intervistato.

Nell’opinione pubblica italiana l’archeologia è percepita in modo ambivalente: osannata da una parte (un lavoro affascinante, che porta alla scoperta di oggetti belli e civiltà scomparse) e dall’altra disprezzata (un lavoro parassita, inutile, in particolare in relazione a tutta l’archeologia da cantiere, quella che si interseca con i lavori pubblici e privati sul territorio). Facendo un confronto ardito, a me sembra che la duplicità di considerazione ricordi quella che nei sistemi sociali patriarcali molti hanno avuto e hanno della donna: “santa o puttana”. Nel caso della donna, la dicotomia si fonda sull’uso del corpo che quella donna fa. Il controllo del corpo femminile è la massima aspirazione dei sistemi di cui sopra; la donna non può usare come le pare il proprio corpo e tutto quello che passa attraverso (la sessualità, la procreazione, ecc). Non ti sembra che l’archeologia sia percepita, ugualmente, come santa e puttana? I resti materiali del passato – e l’uso che se ne fa – sono un po’ la controparte del corpo, nella nostra metafora.

Forse la metafora è ardita, sì, ma potrebbe essere utilmente rovesciata. Tu ipotizzi che l’archeologia “santa” sia quella dei ritrovamenti nobili, belli, meritevoli per l’opinione pubblica. E “puttana” quella che rompe le scatole bloccando i lavori pubblici, di urbanizzazione eccetera. Forse è il contrario: l’archeologia, spesso, sputtana i propri rinvenimenti migliori rendendoli eventi. Il rischio dei ritrovamenti molto notevoli è che vengano poi variamente sviliti del loro potenziale informativo proprio per offrirli a tutti, per metterli sul mercato come una merce qualsiasi. Mentre l’archeologia di scavo, che non arriva quasi mai all’opinione pubblica ma che costituisce la massa critica dei dati archeologici, forse la si potrebbe definire santa perché per lo più finisce nei magazzini, per pochi addetti al culto i quali spesso non si preoccupano di pubblicare o di rendere disponibili i dati, se mai ci fosse qualcuno interessato a conoscerli. Il problema vero, a mio avviso, è questo: mentre di fronte a un archivio cartaceo di 100.000 documenti, in costante crescita, nessun archivista si pone l’intento di leggerli tutti e di farne il regesto, l’archeologo pensa che per studiare un sito deve conservare e studiare tutti i materiali contenuti in tutte le cassette dei reperti, strato per strato, e questo santifica le testimonianze materiali. Gli archivi e le biblioteche sono luoghi di selezione, perché tutto non si può conservare né studiare; in archeologia è un po’ diverso.
Di recente, parlando in una conferenza, ho detto che avevo studiato una ventina di recipienti di un certo tipo, una persona è intervenuta e mi ha detto che forse avrei dovuto studiarne 200, e ovviamente avrebbe potuto dire 2000 o 200000. Certo, se ne avessi studiati 2000 sarebbe stato meglio che studiarne solo 20 ma non sarei sopravvissuto e, fino a prova contraria, avrei ottenuto i medesimi risultati di fronte all’obiettivo che mi ero posto con quel lavoro. Ovviamente, altre domande potevano necessitare studi più ampi, ma comunque finalizzati. Perché il limite siamo noi stessi e la legislazione che, in Italia, impone agli archeologi di essere accumulatori seriali, e conservatori acritici senza riflettere su cosa ciò comporti.
Quindi forse la metafora si potrebbe capovolgere. I grandi rinvenimenti spesso vengono un po’ sputtanati, nel senso che nel proporli al pubblico si abbassa il livello della comunicazione e così via. Mentre gli altri, per quanto comuni, vengono messi in una teca di cristallo (leggasi magazzini chiusi al pubblico e a potenziali studiosi) e restano nella disponibilità di un culto burocratizzato che si è affermato negli ultimi 50 anni in un numero limitato di paesi occidentali.

Lib(e)ri Viaggiatori – Episodio 5 – Corpi Spenti by Giovanni De Matteo – Lib(e)ri Viaggiatori | Podcast on Spotify


Su Spotify un piccolo podcast in cui è ospite Giovanni De Matteo, che in pochi minuti traccia le linee guida della sua produzione e ideologia connettivista, compreso il suo romanzo Premio Urania di qualche anno fa e il sequel (sempre Urania).

Lucius Etruscus | ThrillerMagazine


Su ThrillerMagazine una bella intervista al mitico – quasi mitologico – LuciusEtruscus, personaggio che conosco in rete da molti anni ormai, ma di cui non so praticamente nulla e che m’incuriosisce molto. Vi lascio a uno stralcio della chiacchierata:

Dove sei quando scrivi? Sia fisicamente che mentalmente

Dappertutto e in nessun luogo, come Darkman. Scrivo per passione, il che significa che devo farlo non appena riesco ad averne occasione, fra un impegno lavorativo e una commissione domestica, nelle situazioni più scomode e meno “ispiratrici”, ma tocca fare di necessità virtù.
Per anni ho dovuto raggiungere il posto di lavoro mediante treno regionale: la maggior parte delle notizie, recensioni, racconti e saggi apparsi a mia firma su ThrillerMagazine sono stati scritti su un sedile di carro bestiame regionale, con nelle orecchie l’album “Deggial” del gruppo metal svedese Therion, sempre lo stesso per almeno sette anni, cioè la musica più sfonda-timpani che io sia riuscito a trovare così da sovrastare il berciare molesto delle scimmie urlatrici che frequentano i treni regionali, desiderosi di urlare a squarciagola i propri pensieri più segreti ad una platea più vasta possibile. Antichi miti arcaici parlano di pendolari che leggono durante il viaggio, ma sono leggende che appartengono a tempi magici.
Il problema delle scimmie urlatrici in realtà si ripropone in qualsiasi ambito della mia vita, e dato che per scrivere qualsiasi cosa ho bisogno di un minimo di concentrazione, ecco che avere del rumore indistinto a sfondarmi le orecchie è base fondamentale di ogni “sessione di scrittura”. Una volta ho scritto un intero racconto nel bagno dell’ufficio dove lavoro, il che ha risolto alla perfezione ben due problemi: sono riuscito ad avere il tanto prezioso silenzio per concentrarmi, e lo sciacquone del water è stato perfetto come “poggia-smartphone”, così da poter usare entrambi gli indici per scrivere. Mi piacerebbe raccontare aneddoti più edificanti, ma scrivere per passione e non per professione significa anche questo.
Solo di rado ho la possibilità di scrivere comodamente al PC di casa, visto che il lavoro mi porta via la maggior parte di ogni giornata, e quand’ero pendolare usavo un EEE PC, grande invenzione che purtroppo ha avuto vita breve: era un portatile davvero portatile, per ridottissime dimensioni, e per anni è stato valido alleato, prima che dal 2012 iniziassi ad usare lo smartphone per tutto, dal leggere (libri, fumetti, siti, ecc.) allo scrivere. E, ovviamente, per mandare musica metal a manetta in cuffia quando le scimmie iniziano a urlare.

Come scegli le tue vittime, e i tuoi assassini?

Sono ormai quasi dieci anni che non scrivo più avventure per il mio Marlowe, le quali potevano avere vittime e assassini, ma prendo la domanda più in generale e rispondo in generale: i personaggi non li scelgo io, sono scelto da loro. Ho sposato in pieno la filosofia bergonzoniana («Non sono uno scrittore, sono uno scritturato; non sono un autore, sono un autorizzato») e io mi limito ad aspettare che i personaggi vengano a trovarmi, passando poi a scrivere ciò che mi suggeriscono.
Da quando ho fatto «voto di vastità» (citando di nuovo Bergonzoni) e curo vari blog, anche a cadenza giornaliera, da quando cioè mi sono dato alla saggistica – mia vera grande passione – l’ispirazione non viene più a trovarmi e i personaggi, che siano vittime o assassini, non vengono più a raccontarmi le loro storie. Io però rimango in attesa, i miei contatti ce li hanno…

 

Intervista a Luigi Musolino | HorrorMagazine


Su HorrorMagazine è fruibile l’intervista che Andrea Gibertoni ha fatto a Luigi Musolino pochi giorni fa, nel contesto di Libri da Yuggoth, la manifestazione milanese del weird; ecco qualche passaggio:

A.G. Quando abbiamo letto i racconti ci siamo accorti di questo aspetto, di questo filo conduttore che unisce tutti i racconti. In accordo con l’editore abbiamo quindi voluto concentrarci su questa sorta di concept.

L.M. C’è più di un aspetto che tiene unite le storie. Il primo è sicuramente il territorio, tutte le storie di Un buio diverso sono bene o male ambientate nel mio Piemonte, nelle zone in cui sono cresciuto. Si svolgono nella bassa piemontese, un territorio fatto di luoghi desolati, nebbiosi, tinteggiati di cascinali diroccati.
Sono poi storie che in alcuni casi vanno a pescare nel folklore locale, non tutte come altre cose scritte da me in passato, qui questa componente è meno accentuata. Ma il filo più forte che lega questi racconti è un libro di uno scrittore piemontese degli anni ’70, un esoterista di Torino: Enrico Bedolis.
Bedolis è l’autore di un saggio esoterico che racconta di folklore e di geografie occulte: Scienza dei Necromilieu. Nel trattato si ipotizza che alcune zone del Piemonte possano essere particolarmente permeabili alle forze del male o al manifestarsi delle forze del soprannaturale. E ovviamente tutte le storie del volume si svolgono in questi luoghi.

A.G. La letteratura fantastica è piena di rimandi a pseudobiblion, il Necronomicon è senza dubbio quello più conosciuto. In questo caso abbiamo avuto la fortuna di lavorare su di un libro autentico che è proprio una sorta di Necronomicon, stampato in pochissime copie e pieno di strani disegni e formule.

L.M. Il volumetto è stato stampato in una copisteria di Torino e sì, contiene formule arcaiche scritte in latino o in piemontese. Bedolis era un operaio stregone, un operaio appassionato di magia di cui si conosce davvero poco e soprattutto non sappiamo nulla riguardo la sua fine.

A.G. Siamo riusciti a ricostruire un po’ della sua biografia, ma le informazioni sono davvero scarne.

L.M.  Sì, di Bedolis sappiamo poco, che frequentava circoli di estrema sinistra, era un ubriacone e faceva uso di psichedelici.

A.G. Secondo Bedolis, i luoghi in cui avvengono fatti particolarmente agghiaccianti, penso  alle morti violente, conservano una forza particolare. Cosa sono quindi questi Necromilieus?

L.M. I Necromilieus sono delle geografie errate, delle zone in cui si ci si può imbattere in misteriose energie. I luoghi teatro di eventi tragici del passato hanno dato forma a dei buchi, a delle energie dell’altrove che scatenano episodi che sono ai confini della realtà, scatenano creature sovrannaturali. Quasi come che questi eventi tragici rimanessero incollati a quel luogo.

I veri pericoli dell’intelligenza artificiale: un dialogo con Nello Cristianini – L’INDISCRETO


Su L’Indiscreto una bella disquisizione di Francesco D’Isa e Nello Cristianini sulle peculiarità – pericoli compresi – delle intelligenze artificiali che s’interfacciano con l’arte. Un estratto:

FD: Come spesso accade, le nuove tecnologie ci costringono ad affrontare vecchi problemi che avevamo messo da parte. Grazie alle intelligenze artificiali (IA) ad esempio, ci siamo chiesti di nuovo cosa sia l’arte, chi sia l’autore, cosa sia l’intelligenza… Riguardo a questo ultimo punto, vediamo nel libro che le IA hanno un’intelligenza di tipo completamente diverso dal nostro: funzionano su base statistica, per esempio nell’imitare i nostri linguaggi. Usano metodi statistici per perseguire scopi scelti da noi – e in un certo senso è in questo modo che dimostrano di essere intelligenti, esibendo la “capacità di un sistema di agire in modo appropriato in un ambiente nuovo e incerto, dove le azioni appropriate sono quelle che aumentano la probabilità di successo”. Ma il modo in cui lo fanno è completamente diverso da come lo facciamo noi umani.

NC: Mi interessava dare una definizione di intelligenza che fosse chiara, operativa, misurabile, che di conseguenza escludesse altri concetti che spesso creano confusione: come l’autocoscienza, l’introspezione, le emozioni. Nella scienza spesso una definizione porta chiarezza e consente progresso, come fu nel caso di “informazione” con Shannon.  Finora “il concetto di intelligenza” è stato usato in modo ambiguo, e anche vago: per parlarne scientificamente dobbiamo ‘restringerlo’, e per questo propongo una definizione: l’abilità di comportamento efficace in situazioni mai incontrate prima, ovvero l’abilità di perseguire un obiettivo in situazioni nuove. Jean Piaget la definiva: “sapere cosa fare quando non si sa cosa fare”, ovvero prendere decisioni sensate quando non si ha un copione da seguire. È necessario assumere che un agente abbia un obiettivo, per poter decidere se il suo comportamento è efficace, razionale, o irrazionale: una macchina che sceglie le azioni a caso lanciando una monetina ha un comportamento, ma non uno razionale. Al momento, per capire l’IA è meglio eliminare il discorso sull’uomo, perché è fuorviante, ed evoca un bagaglio emotivo troppo grande.  Per ora sarebbe meglio evitare paralleli con l’intelligenza umana, e limitarsi a descrivere le intelligenze artificiali. La nostra tendenza ad antropomorfizzare ci può ingannare, e lo ha fatto per decenni.

FD Nel libro parli di una “scorciatoia”, ovvero l’uso di dati e statistica per sviluppare le IA, un metodo molto divergente rispetto alle vecchie piste che erano legate più alla logica e al ragionamento formale. È grazie a questa scorciatoia che lo sviluppo tecnologico è esploso.

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Gianfranco Nerozzi | ThrillerMagazine


Su ThrillerMagazine una bella intervista a Gianfranco Nerozzi, autore estremamente intrigante nella sua complessità oscura. Un estratto:

Dove sei quando scrivi? Sia fisicamente che mentalmente…

Ho due sedi di lavoro. Lo studio principale è in soffitta, molto piccolo e avvolgente. Stipato di libri. Con un lucernario che mostra una piccola porzione di cielo. Lavoro su due postazioni di computer, una accanto all’altra, con quattro schermi a disposizione. Collegato a casse home theatre per sentire bene la musica. Sulla sinistra c’è un tabellone di sughero tipo quello degli indizi degli investigatori dell’FBI, dove attacco note, fotografie di ambientazioni, personaggi, stralci di idea di trama, che a volte collego con fili di cotone colorati, proprio come se stessi effettuando un’indagine su qualcuno o su qualcosa. Misteri da risolvere. Storie. Assassini da scoprire. Fatti e misfatti.
Poi ho uno studio secondario approntato in una veranda che dà sulla mia collina di ciliegi. Con vetrate che mostrano paesaggi bucolici con lo sguardo che può allungarsi fino a sfiorare montagne lontane. E distese di boschi. Un luogo di lavoro troppo ameno per creare cose truci. Che uso più che altro per rileggere. Per correggere. Per redigere appunti.
Quando scrivo, quando produco, fisicamente sono in questi due luoghi.
Mentalmente invece, mi pare scontato dire che sono dentro alla storia che sto cercando di narrare, non credo ci saranno scrittori che risponderanno in altro modo. Ma credo ti sia dimenticato di chiedere la cosa più importante: dove mi trovo spiritualmente, quando scrivo. E siccome voglio essere piuttosto collaborativo durante questo crudo interrogatorio, te lo voglio rivelare lo stesso: con lo spirito sono dentro ai palpiti di ogni personaggio, dentro ad ogni loro respiro. Nel sangue e nei sorrisi e nelle lacrime, dentro a tutte le grida e nei pensieri. Dentro a tutto e dentro a niente.

Come scegli le tue vittime e i tuoi assassini?

Non li scelgo, me li ritrovo addosso. All’inizio ci sono piccole e grandi idee di massima. Poi tutto si evolve, quando si palesano i personaggi. Soprattutto il cattivo di turno o il mostro, (nel mio caso, occorre comprendere pure questi, eh). Le vittime arrivano di conseguenza. Quando il villain è quello giusto, tutto diventa più facile. Ogni cosa deve essere in equilibrio con la trama. In funzione di quello di cui vuoi parlare. Simbolismi che si incrociano. Cerchi da chiudere e battiti da condividere. Assassini e vittime. Non mi hai chiesto però come scelgo i miei eroi, e prima che tu mi dia una botta in testa per estorcermi una risposta in merito, ti rimando alla visione di uno specchio. L’immagine di quello che sono sussurra nel buio, oltre quel riflesso.

Quale è il tuo modus operandi?

Te lo posso rivelare con due parole emblematiche: ordo caos. Il filosofo Edgar Morin diceva che tutto ciò che è fisico, dagli atomi agli astri, dai batteri agli uomini, ha bisogno di disordine per organizzarsi e trovare forme nuove. Ecco io applico un metodo di creazione basato su questo concetto: schizzato e incredibilmente faticoso, scrivendo senza preparare o redigere sinossi iniziali (a meno che non mi venga esplicitamente richiesto dall’editore). Lavoro quindi nel caos creativo più assoluto, senza sapere bene dove andrò a parare. Con l’esigenza assurda di essere in ritardo per la consegna. Solo quando finire il lavoro è diventata un’impresa impossibile, mi parte tutto.
Porre ordine al caos allo stremo delle forze… ecco questo è il mio cazzo di modus operandi…

Fotografia “esistenzialista”: Daniele Cascone – segnonline


Bella intervista a Daniele Cascone, sul suo essere artista e come, sulle sue scelte estetiche e cognitive. Da SegnoOnline.

Anzitutto, i titoli: devo chiamarti fotografo, artista digitale o semplicemente artista? Hai iniziato, se non sbaglio, dipingendo…

Presentarmi con uno di questi titoli mi ha sempre imbarazzato; penso che il mio lavoro li comprenda un po’ tutti e, al tempo stesso, nessuno di essi mi identifica con precisione. A volte è un bene non avere un’etichetta, tuttavia può rilevarsi controproducente quando incontri quelle realtà del mondo dell’arte molto settorializzate.
Ho iniziato dipingendo, ma non ci ho mai creduto sul serio; ero bravino a disegnare e probabilmente se ci avessi messo più impegno e studio, avrei ottenuto risultati più interessanti. È rimasto un passatempo giovanile, che ha comunque innestato in me la passione per le arti figurative.

Qual è il focus del tuo lavoro?

Mi concentro maggiormente sulla figura umana, spesso con interazioni di oggetti estrapolati dal loro contesto abituale. Alcuni definiscono il mio lavoro “esistenzialista” e non mi dispiace questa identificazione.

Come la tua ricerca si è evoluta nel corso negli anni?

Penso si sia evoluta a pari passo con la mia crescita di individuo. Nei primi anni ero esplosivo ed estremo, poi sono passato a una fase più tormentata e, infine, mi sono dedicato a immagini più minimaliste. Anche le idee espresse hanno seguito lo stesso processo e oggi mi piace mostrare opere più riflessive, che vanno indagate e ascoltate.

A parte la natura, che indaghi per diletto, il corpo è il tuo soggetto preferito: con le sue mille maschere e – unica costante – la sua prigione.

Sì, penso che questi temi mi terranno compagnia per sempre, poiché sono ossessionato dalle prigioni fisiche e mentali con cui si combatte quotidianamente. Le vedo, in generale, come la rappresentazione del fallimento nel trovare un significato assoluto, un tentativo inconscio di spiegare il vuoto esistenziale. Vuoto che non sono mai riuscito a colmare con una spiritualità di qualunque genere.

L’incomunicabilità, il travestimento, l’attrazione degli opposti sono punti fermi delle tue opere. Come si giunge a catturare l’essenza di un’immagine, il divenire di un’idea?

C’è sempre un misto di razionalità e di istinto in ciò che faccio. Progettare per mesi un’idea mi aiuta a preparare il terreno su cui poi, spesso, improvviso. Nel momento dello scatto ricerco un’immagine che rappresenti bene ciò che ho in testa; tuttavia, essendo la fotografia un mezzo che attinge dal reale, non sempre ciò che metto in scena si rivela adatto. È necessario che subentri un‘intuizione per capire come modificare la realtà e raggiungere lo scopo prefissato. Ritengo che sia questa la fase più complessa e impegnativa del mio lavoro, nonché quella con la maggiore percentuale di fallimento.

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