Su HorrorMagazine c’è l’intervista di Cesare Buttaboni a Francesco Corigliano, autore e saggista weird tra i più quotati; vi lascio ad alcuni brani della chiacchierata:
1.”Malasacra” è finora il tuo libro più importante. Si avverte come un senso si Apocalisse imminente. Hai cercato di trovare una via a una sorta di Sacro capovolto in questi racconti?
Malasacra raccoglie alcuni dei racconti che più mi hanno aiutato a formarmi nel campo del fantastico. L’ispirazione principale resta perlopiù quella lovecraftiana, anche se in alcuni testi ho tentato di trovare una prospettiva diversa, più moderna. Certamente il sacro è un tema centrale di alcuni di quei racconti (come in Sancta Sanctorum e Del male), che poi ho approfondito in storie successive.
Per me il sacro, inteso soprattutto nell’accezione cattolica, è un argomento che si presta perfettamente alla narrazione fantastica odierna (oltre che essere un punto fondamentale della tradizione letteraria, a cominciare dal gotico). L’idea che il soprannaturale si incarni nel materiale, e che pur diventando concreto non perda la sua qualità metafisica, è un concetto che porta in sé un senso di inquietudine molto vicino alla sensibilità contemporanea. Soprattutto se si immagina che quel sacro abbia una concezione di “giusto” e “sbagliato” diversa da quella comune. In un’epoca che celebra la ricerca del controllo assoluto, la prospettiva che Dio esista e che ce l’abbia con noi può risultare antiquata ma non per questo meno terrificante.2.Nel racconto “Il dragone del vuoto”, hai descritto il conflitto tra l’antica conoscenza e lo scetticismo moderno. Qual è il messaggio principale che desideravi comunicare attraverso questa allegoria surreale?
Il dragone del vuoto è uno dei racconti di Malascra a cui tengo di più. L’idea di base era quella di giocare con il concetto di “iperoggetto”, descrivendo un’entità che sfidasse I normali approcci conoscitivi. Il Drago è un drago, ma anche una tradizione e una maledizione, una cosa che non si vede ma che pesa sui tetti delle case, che permea un’intera comunità e ne replica i tratti. Per delineare i confini di un ente quasi impercepibile, ho pensato che fosse necessario deformare la prospettiva narrante, e calare il lettore nella mente di qualcuno che sfida l’inconoscibile e che ne è ossessionato. Per affrontare la sua quest lo studioso deve partire dalla conoscenza antica, adattandola in modo nuovo (le pagine che diventano lenti degli occhiali) e confrontandosi direttamente col mostro invisibile. Probabilmente l’intera storia può essere vista come un’allegoria dello studio, della filosofia e anche altro. Direi però che il finale esprime una certa sfiducia epistemologica.
3.In ‘Funerale’, la tua narrazione trasporta il lettore a San Filario, nell’entroterra calabrese, dove una misteriosa confettura sembra determinare non solo la vita e la prosperità degli abitanti, ma anche il loro trapasso. Questo scenario evoca fortemente il folk-horror, con i suoi elementi di oscurità e mistero. Come hai utilizzato l’ambientazione, il tono narrativo e i riferimenti al folk-horror per immergere il lettore negli oscuri riti del Funerale immaginato?
In Funerale ho tentato di rappresentare il punto di vista infantile dinanzi a eventi che sono insieme familiari e minacciosi. La tradizione è rassicurante per gli adulti, ma per arrivare a quel senso di comfort bisogna comunque attraversare un momento di consapevolezza, una soglia che può risultare spaventosa. C’è un primo Natale per tutti, una prima Pasqua e una prima festa del santo patrono. E c’è anche un primo funerale. A San Filario questo cambiamento consiste nel conoscere il mistero che si stende sotto il paese; un mistero il cui orrore viene lenito dal senso della comunità, da volti e sapori conosciuti, e da una fiducia quasi sacrale nella sapienza degli adulti e dei vecchi. Il rito di passaggio della morte coinvolge il defunto, la sua famiglia e l’intero paese, legando tutti in un senso di identità morboso e opprimente, ma che a una bambina può sembrare la cosa più meravigliosa del mondo.
Questa impostazione mi sembrava adatta all’uso della seconda persona singolare, per evocare un tono che fosse insieme di confessione e di comando, un monologo/dialogo interiore infantile.
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