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Prima che Roma nascesse. Storia della preistoria della Città Eterna – Storia in Rete
Su StoriaInRete una segnalazione assai interessante riguardo Roma prima di Roma, saggio storico di Gianluca De Sanctis mirabilmente stilizzato dall’articolo; un estratto:
Come avverte l’autore nella premessa, per i Romani esiste un rapporto organico tra i racconti della fondazione (e anche i relativi miti) e i luoghi in cui essa è avvenuta. «I luoghi diventano dei “ponti” tra il tempo del mito, nel quale l’evento è accaduto, e quello della storia nel quale si chiede all’evento di restare». L’evento mitico acquista così una presenza nella storia nel suo continuo e concreto svolgersi, diventa la continuità tra passato e futuro, «ma anche il nesso profondo tra memoria e “identità”».
L’identità, applicata al nostro tema, va spiegata, perché i Romani non avevano questa parola e, osserva De Sanctis, se avessero dovuto esprimerla forse avrebbero utilizzato il termine Roma, nel quale si riassumevano sia la città fisica che i suoi valori morali, politici e culturali, quei valori che avevano imposto a gran parte del mondo conosciuto l’Imperium, sintesi di potere, comando e territorio controllato e amministrato. Un potere che non significava esclusione delle popolazioni vinte, che anzi potevano essere assimilate se accettavano di entrare nell’universo della romanità, insomma se accettavano di farsi romani, con tutto ciò che ne conseguiva sul piano dell’integrazione culturale, politica e dell’osservanza delle leggi. A differenza dei Greci, per i quali l’identità era un fattore etnico, da rivendicare e difendere, per i Romani l’identità era aderenza a valori e modelli, apertura al diverso, che andava escluso quando poteva rappresentare una minaccia proprio a questa apertura. È evidente che lo studio della nascita di una città, e quindi di una civiltà, che per oltre mille anni ha monopolizzato il mondo ha da sempre affascinato gli studiosi che, fino a qualche tempo fa si sono divisi tra due diversi modelli interpretativi: quello della Stadtgrundung (nascita, creazione, fondazione) e quello della Stadtwerdung (urbanizzazione, sviluppo).
Marc Matter – Could Change | Neural
[Letto su Neural]
La tradizione delle avanguardie storiche del novecento ancora produce un ideale confronto fra differenti generazioni se per presentare un’opera come Could Change di Marc Matter e spiegarne il senso si tira in ballo un assoluto classico, scritto più di 50 anni fa, I Am Sitting In A Room di Alvin Lucier, composizione nella quale l’autore metteva in evidenza le risonanze acustiche specifiche di uno spazio neutro e alcune basilari leggi della registrazione, dando inizio a tutto un filone metamusicale che letteralmente è incentrato sui processi e non sul realismo delle narrazioni o sulle atmosfere e che non si poggia sulle attentamente studiate combinazioni di accordi della vulgata dodecafonica. Matter, sound artista ed eclettico sperimentatore intermedia, ha esordito alla fine degli anni ’90, collaborando con l’Institut für Feinmotorik, del quale è stato anche uno dei fondatori. Il suo approccio sperimentale e multiforme lo ha fatto spesso spaziare negli ambiti dell’editoria d’artista, dell’arte acustica e della poesia sonora e visiva. Insieme a Marcus Maeder e Bernd Schurer, Matter ha anche interpretato un romanzo dadaista di Hugo Ball sotto forma di radiodramma sperimentale per Radio DRS2. In “Could Change”, opera di quasi 24 minuti, come nel pezzo appena citato di Lucier, più o meno della stessa durata, è sempre il loop di una registrazione vocale a focalizzare l’attenzione degli ascoltatori, una clip registrata a intervalli che cambiano progressivamente ed esibiscono il fraseggio della voce, in questo caso computerizzata, che evolve e cambia impercettibilmente un vacuo canovaccio testuale. L’effetto – al di là d’ogni tentazione di gradevolezza – è ipnotico e serrato, con cambiamenti quasi impercettibili nel tempo che fanno sprofondare all’ascolto in un ambiente virtuale indefinito e giaculatorio, come un mantra, insomma, ma dove il “verbo” non ha alcun significato intelligibile, cambiando in continuazione come il titolo stesso evoca. Tecnicamente quello che accade è che frammenti ripetuti di un linguaggio incomprensibile nella sua iterazione più o meno mozza ma efficace assurgano a una dimensione altra e degna di nota, nelle inedite sembianze di musica meditativa e di celebrazione accorata d’una avanguardia pre-internettiana.
Principessa, poetessa, sacerdotessa: Enheduanna, la prima autrice conosciuta al mondo | Iridediluce
Sul blog IrideDiLuce la storia di Enheduanna, la prima autrice (e autore) di cui si abbia notizia; ovviamente parliamo di epoche sumere…
Il primo autore conosciuto al mondo è ampiamente considerato Enheduanna, una donna vissuta nel 23° secolo a.C. nell’antica Mesopotamia (circa 2285-2250 a.C.). Enheduanna è una figura notevole: un’antica “triplice minaccia”, era una principessa e una sacerdotessa oltre che scrittrice e poetessa.
Il terzo millennio a.C fu un periodo di sconvolgimenti in Mesopotamia. La conquista di Sargon il Grande ha visto lo sviluppo del primo grande impero del mondo. La città di Akkad divenne una delle più grandi del mondo e la Mesopotamia settentrionale e meridionale furono unite per la prima volta nella storia. In questa straordinaria cornice storica troviamo l’affascinante personaggio di Enheduanna, figlia di Sargon. Ha lavorato come alta sacerdotessa della divinità della luna Inanna-Suen nel suo tempio a Ur (nell’odierno Iraq meridionale). La natura celeste della sua occupazione si riflette nel suo nome, che significa “ornamento del cielo”.
Enheduanna compose diverse opere letterarie, tra cui due inni alla dea dell’amore mesopotamica Inanna (semitica Ishtar). Ha scritto il mito di Inanna ed Ebih e una raccolta di quarantadue inni del tempio. Le tradizioni degli scribi nel mondo antico sono spesso considerate un’area di autorità maschile, ma le opere di Enheduanna costituiscono una parte importante della ricca storia letteraria della Mesopotamia.
La voce spettrale della più violenta eruzione del XXI secolo ASCOLTA – Terra & Poli – ANSA.it
Su ANSA un articolo che rende ascoltabile e terrificante il più grande disastro vulcanico di questo secolo, l’esplosione del vulcano sottomarino Tonga nell’Oceano Pacifico, che il 15 gennaio 2022 fece scomparire un’intera isola e spruzzò nella stratosfera abbastanza vapore acqueo da riempire 58.000 piscine olimpioniche, producendo onde gravitazionali e atmosferiche che hanno fatto due volte il giro della Terra.
Il rumore del catastrofico evento è stato ricostruito dall’artista del suono Jamie Perera, utilizzando i dati sull’intensità dei venti ottenuti durante uno dei passaggi di Aeolus sopra l’eruzione.
Perera è riuscito ad ottenere un campione audio di una delle onde d’urto, che ha poi manipolato per arrivare al tono spettrale che è possibile ascoltare. Questo nonostante il momentaneo ‘blackout’ sperimentato nel momento in cui il pennacchio di cenere vulcanica ha raggiunto un’altitudine superiore a quella del satellite: proprio a causa della grande altezza raggiunta, infatti, le ceneri sparate dal vulcano hanno circumnavigato la Terra in una sola settimana, per poi disperdersi quasi completamente dal Polo Nord al Polo Sud in circa tre mesi.
“Nèfolm e dintorni”, l’ultimo sigillo
Ho chiuso proprio ieri l’editing di un mio racconto, il decimo e ultimo della serie “Nèfolm e dintorni”, le cui prime due puntate Perama e Argyroprateia sono già state edite nella collana di Delos Digital L’orlo dell’Impero, impreziosite dalle copertine di Ksenja Laginja.
Ma cos’è Nèfolm? È la capitale dell’Impero Connettivo, una babele di postumani governati dall’imperatore nephilim Totka_II e dal postumano Sillax; questa metropoli è speculare a Costantinopoli, i quartieri hanno gli stessi nomi e le stesse caratteristiche della Roma sul Bosforo, a sua volta clonata dalla Roma sul Tevere.
Descrivere la visione frammentata e frattalizzata che ho della capitale connettiva è stata un’operazione febbrile, intensa, condensata in un anno e mezzo di lavoro che mi ha coinvolto emotivamente e cerebralmente senza sosta, fino a farmi invischiare nei meandri scivolosi della Mitologia e di ciò che è a essa collegato, fino a rendermi affilato nell’editing intrecciato a spunti e visioni personali, tanto da impacchettare una massa critica di eventi e superare le dimensioni scritte di un normale romanzo.
In questi mesi usciranno tutte le puntate del ciclo, di questa Capitale dello Stato imperante sullo spazio e sul tempo che vive di energia psichica e di illusioni dimensionali; ne sono felice e anche lieto, concludere la serie è stato quanto di più bello e faticoso ricordassi in questi decenni di scrittura, e non vi blandisco se affermo di esserne enormemente soddisfatto.
Appuntamento con Nèfolm, quindi, in quest’illusorio spaziotempo dove ogni sensorialità va vagliata con attenzione.
Mai definitive
Rispetto alle infinitesime perfezioni immaginabili sei complessità destrutturata, immersione mai completa nel compound delle percezioni da continuum, sei come le stagioni mai definitive.
Il DNA dei romani. Le origini genetiche di Roma
Quali sono le origini dei Romani? E degli italiani? Quali sono stati i popoli che hanno colonizzato il suolo su cui viviamo? Le risposte possono essere sorprendenti per qualcuno, ma la realtà si nasconde dietro una battuta: i romani devono mantenere pura la loro genia, rimanere Troiani fino in fondo; e aggiungerei anche mediorientali, oppure dell’area caucasica, and so on…
PS – Ciò apre inquietanti scenari sul nostro presente, ma magari qualcun altro ci aveva già pensato.
‘til the end
Nel trasporto dei tuoi voleri, la Volontà degli elementi trascende ogni cosa del tuo dominio e tu, lo sai, sei soltanto una sensazione quantica che fluttua senza sosta, fino al termine.
Astronavi nell’infinito, fra incubi e sogni – Carmilla on line
Su CarmillaOnLine un articolo di Paolo Lago che recensisce Astronavi. Le storie dei vascelli spaziali nella narrativa e nel cinema di fantascienza, di Michele Tetro e Roberto Azzara, saggio uscito per i tipi di Odoya. Un estratto:
In una scena del dramma Vita di Galileo (1938-39) di Bertolt Brecht, lo scienziato pisano, parlando con Andrea Sarti, figlio della sua governante, così afferma: “Io ho in mente che tutto sia incominciato dalle navi. Sempre, a memoria d’uomo, le navi avevano strisciato lungo le coste: a un tratto se ne allontanarono e si slanciarono fuori, attraverso il mare. Sul nostro vecchio continente allora si sparse una voce: esistono nuovi continenti. E da quando le nostre navi vi approdano, i continenti ridendo dicono: il grande e temuto mare non è che un po’ d’acqua”. Probabilmente, la letteratura e il cinema di fantascienza hanno dischiuso un immaginario simile: hanno permesso che gli aerei o qualsiasi tipo di ‘macchine volanti’ non ‘strisciassero’ più attaccati al pianeta, ma si slanciassero al di fuori della sua atmosfera, nello spazio più profondo. In definitiva, cos’altro sono le astronavi se non aerei che si innalzano nel cielo, oltre ogni confine o, per l’appunto, navi che si distaccano dal mare per dirigersi verso gli ‘astri’? Luciano di Samosata (II sec. d.C.), nella “Storia vera”, immagina infatti che sia proprio una nave, sollevata in aria da un tifone, a compiere un viaggio sulla Luna, dove l’equipaggio (di cui faceva parte lo stesso autore) avrebbe incontrato la stirpe dei Seleniti. D’altra parte, celebri astronavi come la corazzata Yamato, che incontriamo originariamente nella serie d’animazione giapponese “Star Blazers” (1974-1981), o l’Arcadia di Capitan Harlock, appartenente al manga “Capitan Harlock” (1977-1979) di Leiji Matsumoto, non sembrano vere e proprie navi che hanno preso il volo? La prima ha l’aspetto e il nome di una corazzata della Marina Militare giapponese della Seconda Guerra Mondiale, mentre la seconda, connotata come una nave pirata, ha il cassero di poppa di un vascello settecentesco.
Michele Tetro e Roberto Azzara, nel loro bel libro, ci offrono una convincente cronistoria illustrata “dei vascelli spaziali nella narrativa e nel cinema di fantascienza”, dalle prime testimonianze letterarie e cinematografiche fino ai giorni nostri. Le astronavi e le basi spaziali di alcuni fra i più noti film di fantascienza, alle quali è dedicata la seconda parte del saggio, sono descritte e raccontate come se fossero reali per cui, spesso, in modo straniante, ci troviamo di fronte a delle vere e proprie ‘schede tecniche’; leggendole, per qualche attimo, il nostro senso di realtà vacilla e si interseca con l’immaginario fino a chiederci: “ma allora sono esistite ed esistono davvero!”. La prima parte del libro è dedicata a un’altra cronistoria, stavolta su “una, cento, mille navi stellari”, fin da quando “le silenziose distese cosmiche si affollarono di mezzi artificiali di ogni sorta, riducendo alla portata umana gli abissi dell’Universo insondabile, là dove, invece, nella realtà, l’umanità stava ancora muovendo i primi, timidi passi al di fuori dell’atmosfera terrestre, a bordo di minuscole e claustrofobiche capsule Mercury o Vostock, unicamente abilitate al volo orbitale”. La terza parte prende curiosamente in esame “l’astronave che s’indossa”, cioè la tuta spaziale, elemento presente in pressoché tutti i film che narrano viaggi nel cosmo: l’immaginario cinematografico ha creato infatti tute spaziali di diverse forme e fogge, dalle più fantasiose alle più realistiche. Infine, a chiudere il libro, incontriamo un’intervista al grafico modenese Roberto Baldassarri, autore di straordinari disegni tecnici relativi ai mezzi spaziali e alla base “Alpha” della serie tv inglese Spazio 1999 (Space: 1999, 1974-1977).
Gli autori sottolineano come nel tempo sia cambiata l’estetica dell’astronave: dall’aspetto sigariforme del razzo (che incontriamo fin dal Voyage dans la lune, 1902, di Georges Méliès) a quello sferico del disco volante, per assumere le forme più svariate che rappresentano una specie di ibrido fra queste due originarie (come, per esempio, la Enterprise di Star Trek). Le rappresentazioni iconografiche delle astronavi sono poi il frutto dell’immaginario di autentici artisti: Chesley Bonestell, che inizia la sua carriera di pittore dello spazio nel 1944; Chris Foss, nato nel 1946, “che portò la space art a livelli di qualità assoluti” (peccato che le immagini del libro siano in bianco e nero: sarebbe stato bello vedere quei “cromatismi accesi” delle navi spaziali di Foss, come recita una didascalia); gli italiani Franco Storchi, Michelangelo Miani, Franco Brambilla e Luca Oleastri, autori di “grandiose” e “magnifiche” navi spaziali.