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Approfondimenti – The Art of Darkness – La storia della musica gothic nel libro di John Robb :: Gli Speciali di OndaRock


OndaRock recensisce molto approfonditamente il volume enciclopedico The Art Of Darkness, di John Robb, che in 650 pagine traccia una storia della musica goth, ma anche delle sue origini, degli influssi che l’hanno generata e delle derive che man mano si sono generate; a naso, mi pare che ci siano molti più di nomi citati di quanto fosse  lecito attendersi, vi lascio perciò a qualche brevissimo stralcio, investite almeno cinque minuti nell’attenta lettura del post.

È però il punk a scatenare l’onda lunga della darkwave. Per una miracolosa alchimia, come spesso accade nella storia della musica popular, si vengono a saldare una serie di elementi disparati: retaggi del passato e spirito del tempo, influenze culturali e sotto-culturali e moda, urgenza creativa e marketing musicale. Tutto concorre alla nascita di un fenomeno che – come osserva Robb – trovava nel punk e nel post-punk il linguaggio più adatto del momento a rendere la musica centrale nelle vite dei giovani. Come se il gothic fosse in fondo la semplice derivazione oscura della stagione del “no future”, la tappa successiva di una rivoluzione che aveva profondamente modificato lo stesso approccio alla musica all’insegna del do-it-yourself, consentendo una proliferazione di gruppi inimmaginabile fino a qualche anno prima.

L’ascoltatore sprovveduto tende a decretare la fine della stagione dark all’incirca alla metà degli anni 80, quando wave e post-punk cedettero il testimone al new pop, lasciando progressivamente il centro della ribalta. Ma, così come per il prog, dato per morto alla fine degli anni 70, è una ricostruzione del tutto superficiale e fuorviante.
Come si diceva, è stato soprattutto l’industrial rock a incorporare, già dai primi esperimenti degli anni 80, attitudine ed estetica dell’era darkwave. È in particolare nella fucina industriale di Sheffield, tra scantinati fatiscenti e vecchie fabbriche abbandonate, che si propaga un fermento creativo irrefrenabile. Il retroterra sono le liturgie rumoriste che il guru Genesis P-Orridge sta facendo deflagrare a Londra con i suoi Throbbing Gristle. Ma gli orizzonti sono ancora più ampi. Possono rincorrere i sogni anarcoidi dei vecchi pionieri dadaisti di Zurigo (Cabaret Voltaire), oppure, possono spostare le lancette ancora più in là, verso un futuro indefinito dove l’elettronica robotica dei Kraftwerk e i groove jazz-funk si lasciano trascinare dai bassi ossessivi del dark-punk verso un’avantgarde minacciosa e destabilizzante, come nel caso dei Clock Dva di Adolphus “Adi” Newton (ex-Human League). Esperienze che si riveleranno indispensabili per lo sviluppo del movimento industrial degli anni Novanta, capitanato dai Nine Inch Nails di Trent Reznor, ma anche da band come Nitzer Ebb, Skinny Puppy e Front Line Assembly. E se gothic è soprattutto un’atmosfera, più che un vero e proprio stile, non potranno non esser accostate al termine anche vicende musicali in parte divergenti, come quelle di Current 93, Coil, Nurse With Wound e Whitehouse.

Duplex Ride @ Lazzaro “Pixel an at Exhibition”/ 24-28.05.2023 | Duplex Ride


Chi è a Genova la prossima settimana può godere di queste avanguardie espressive, tra musica, arte e installazioni visive. Fateci un salto, non ve ne pentirete 😉

In corrispondenza con la Genova BeDesign Week, il Comune di Genova organizza “PIXEL AT AN EXHIBITION,” una selezionata produzione nazionale e internazionale di opere NFT (Non Fungible Token).

Per tutta la durata della manifestazione, Lazzaro – Galleria d’Arte Contemporanea accoglierà “NON FUNGIBLE CHOC!”, un allestimento di soli video con proiezione di opere internazionali statiche. Durante le serate presso LAZZARO – Galleria d’Arte Contemporanea.

DUPLEX RIDE propone quattro live set di elettronica – ambient

Mercoledì 24 maggio :
FLUDD (Marco Cacciamani) – Minimal / Ambient

Giovedì 25 maggio :
ASPERA PROJECT (Stefano Roffo) – Lounge

Venerdì 26 maggio :
GEDRON (Gerardo Fornaro) – Space /Drone

Sabato 27 maggio : JAGOLABORATORIUM
(Claudio Ferrari + Alessandro Bona) – Creative Electronics

Tutte le serate di sonorizzazione avranno inizio alle 21.

Orson Hentschel – Heavy Light | Neural


[Letto su Neural]

Sono passati già tre anni dal suo ultimo album in studio e Orson Hentschel ritorna con una nuova prova, Heavy Light, suo quarto progetto su formato esteso che è composto da otto tracce d’un elettronica sensuale e rarefatta, ricca d’atmosfere space-cosmiche, oniriche e avvolgenti, sonorità che comprendono ritmiche spesso fratturate e misuratissime. Alle composizioni presentate fanno seguito un’installazione cinematografica a 3 canali e una performance visiva dal vivo: fondendo elementi di film, danza e musica in una sintesi espressiva eclettica e formalmente impeccabile. Hentschel espande il formato dell’album convenzionale e l’ispirazione per il tutto, ci spiega, sono state le strade di una Berlino praticamente deserta, durante il primo lockdown causato dall’infezione di Covid 19, evento per il quale la luce è diventata l’elemento più vibrante della metropoli, influenzando sia le immagini che i suoni sui quali stava lavorando. Per Hentschel, insomma, è la stessa vita urbana ad essere caratterizzata da impulsi differenti e i droni, i trattamenti elettronici vari, non fanno che restituire questa complessità mantenendo sempre alta la tensione nella modulazione dei vari tappeti sonori che sono dipanati in maniera assai eclettica e coinvolgente. “Fare una passeggiata in una città vuota ti rende estremamente sensibile all’ambiente circostante, al suono, alla luce o ai movimenti”, racconta Hentschel, che era curioso di sapere come un danzatore avrebbe interagito con questo speciale stato di percezione in un processo di improvvisazione. La collaborazione con la talentosa e magnetica Michelle Cheung è a questo proposito particolarmente riuscita proprio nel video della title track, dove preponderanti sono anche le ambientazioni, razionaliste e notturne, siderali e ballardiane. Stilisticamente lo sperimentatore sembra a suo agio con tecniche musicali che occhieggiano a una qualche narrazione ma la sua operatività infine è indipendente dalle immagini, che sono apparentate alla musica solo successivamente, come in una cronaca soggettiva che ha già interiorizzato le dinamiche del tessuto urbano. A seguito dell’emergenza Coronavirus molte sono state le limitazioni per il settore dei beni, delle attività culturali e dello spettacolo, quella che però non si è mai fermata è la voglia di sperimentare e conservare pronte le energie e la creatività anche in una situazione di forte privazione.

Media-Trek » Blog Archive » Siouxsie and the Banshees a Milano


Sul blog-repubblica di Ernesto Assante la recensione di Mario Gazzola al recente concerto di Siouxsie Sioux a Milano, in cui si sottolineano i tratti salienti di quest’ennesimo ritorno geriatrico. Vi lascio alle  parole di Mario:

Il ritorno imprevisto di Siouxsie sul palco per i suoi fedeli avviene a 10 anni dalla sua ultima apparizione a un Meltdown festival, quando ormai la si dava per pensionata nella campagna inglese: i Banshees non ci sono più dal ’96, intorno a lei sul palco un chitarrista (Chris Turtell), un bassista (Joe Short), un batterista (Robert Brian) e un polistrumentista (Steve Evans), che si alterna fra tastiere e seconda chitarra, ma che alla Regina non sembra necessario sprecare qualche minuto per presentare al pubblico. Una Regina bizzosa che, per quanto propensa al dialogo col pubblico tra un pezzo e l’altro, a una richiesta urlata in sala da un fan risponde “Blah blah blah… don’t talk. Listen!”.
Efficacemente supportata dai suoi anonimi “operai” del rock, la Regina spazia ampiamente nella sua ormai quarantennale carriera, facendo scorrere la pellicola di classici come Christine, Happy House, Arabian Knights e Cities in Dust, ma anche di gemme minori come But Not Them e l’avvolgente Dear Prudence (il cui video passato a Mr. Fantasy nell’83 fu il mio primo incontro con la band e con la canzone, che all’epoca nemmeno sapevo essere una cover dei Beatles!), fino a oscure b-side racchiuse nella raccolta Downside Up (2004) come Catwalk, o alla Into a Swan tratta dall’unico, ma sempre valido, album firmato da solista (Mantaray del 2007) solo come Siouxsie. Una set list variegata e non prevedibile, che evita al concerto l’effetto juke-box dei cliché, in cui per esempio è caduto il live dell’estate scorsa dei Bauhaus, altri paladini del dark ’80.
Come di prassi in un concerto di area new wave, nessuna particolare prodezza strumentale in scena – a parte la canzone dei Creatures eseguita con tutti gli strumentisti impegnati alle percussioni – ma in compenso eleganti video proiettati sullo schermo di fondo: mari procellosi, liquide sirene nuotatrici riflesse nelle acque in cui fluttuano, ballerine in tutù, geometrie policrome che ben assecondano il caleidoscopio di colori degli arrangiamenti (supportati dal vivo coi campionamenti) in cui l’originale dark punk di Siouxsie ha saputo evolversi nel corso del tempo, qua e là conquistando anche gli onori delle classifiche e arricchendo la sua tavolozza dark dei colori dell’electro pop, di una personale rivalutazione della psichedelia e di diverse spezie etniche, che hanno evitato alla Regina di inaridirsi nel cliché del tuttosemprenero di marca Bat Cave.
Un concerto non molto lungo, altra caratteristica tipicamente new wave: circa un’ora e un quarto, concluso dai bis di Spellbound e dell’altra cover attesa dai fan: l’immortale, saltellante The Passenger di Iggy Pop, singolo dell’album Through the Looking Glass dell’87 (spumeggiante raccolta di omaggi a Disney, Dylan, Ferry e Television), originalmente riarrangiata con un supporto di fiati soul, ieri sera inevitabilmente campionati.
Pubblico – stagionato e non – entusiasta, finalmente accalcato verso il palco nell’omaggio alla cavernosa Sovrana in tunica-pantalone argentata, dopo un’ora di serrati controlli delle maschere del teatro sull’ormai inarginabile abuso di foto e video da cellulare.
Dopo ieri sera la Musica non intravede nuovi, arditi corsi da sviluppare, ma è stata una bella serata. Speriamo che preluda a un nuovo album perché anche le prove recenti di Siouxsie valevano l’ascolto. E – curioso strabismo temporale – anche un Peepshow, che nell’88 mi sembrava un “saldo di stagione” dell’era dark, sentito oggi si rivela un album valido, ben arrangiato e piacevolissimo, lontano da quelle radici solo perché la sua autrice si è evoluta nel tempo e non è rimasta la fotocopia del proprio mito. Quel che in fondo sarebbe il compito principale di un artista.

Haptic – Ladder of Shadows | Neural


[Letto su Neural]

Gli Haptic, ovvero Steven Hess, Joseph Clayton Mills e Adam Sonderberg, sperimentatori instancabili alla loro quindicesima prova insieme, con ben otto album in carriera, sono avvezzi nell’esplorazione di zone di confine molto sfumate, incerte fra composizione ed improvvisazione, vantando concerti, installazioni site-specific, residenze e perfomance che comprendono una vasta gamma di collaborazioni, oltre ad attraversare approcci stilistici alquanto differenti. Individualmente, i membri del gruppo hanno registrato per una moltitudine di etichette, tra cui Editions Mego, Relapse, Touch, Thrill Jockey, Kranky e Another Timbre, tra le altre. In questo nuovo progetto, Ladder of Shadows, edito per la 901 Editions di Fabio Perletta, rilascio che è composto da tre distinte composizioni, due che vanno oltre gli undici minuti e un’altra di oltre diciannove, sostanziale è anche la partecipazione di Olivia Block all’organo nella prima traccia e di Salvatore Dellaria ai synth analogici in tutte e tre le incisioni. “We Too Just“ c’introduce subito a una sorta di delicatezza delle trame, che non sono propriamente quietiste pur fra scampanellii e un piano onnipresente, dilatato nei tempi e accompagnato da un flusso incantatorio e ripetitivo. Nella successiva “Once”, la struttura portante del brano è sostanzialmente d’impronta drone-ambient, con frequenze arrovellate su se stesse e feedback ipnotici altrettanto sinuosi e ammalianti. Si chiude con “And Never Again”, con un piano ancora a scandire pause e tempi assai stratificati e meditativi, con synth dalla grana più reticolare, quasi rumori d’insetti e lamentii metallici, persistenti e in contrasto all’instabile ed ellittico flusso melodico. L’effetto è decisamente avvolgente, le spirali e le molte pulsazioni non danno punti di riferimento, risucchiando l’ascoltatore in un vortice lento ma fatale. L’album è stato registrato in un’unica sessione, seppure poi quei suoni sono stati – con la dovuta cura e precisione – manipolati e assemblati, procedimento che è abbastanza usuale per il trio, con Steven Hess e Adam Sonderberg che suonano nel loro studio a Chicago e Joseph Clayton Mills a Tempe, in Arizona, a migliaia di miglia di distanza. Notevole come sempre per 901 Editions anche il packaging dell’uscita che vede ancora il Mote Studio all’opera, abile nello sfornare un elegante e ispirato 6 panel digisleeve.

SYD BARRETT: “HAVE YOU GOT IT YET?” – IL TRAILER DEL NUOVO DOCUMENTARIO | PINK FLOYD ITALIA


Su PinkFloydItalia l’annuncio dell’uscita di Have You Got It Yet? The Story of Syd Barrett & Pink Floyd, documentario su Syd Barrett e su cosa ha significato per lui e per noi il periodo in cui è stato con i Floyd, all’inizio della loro parabola. In basso il trailer del film:

Icona di culto, enigma, recluso… la vita di Syd Barrett, membro fondatore dei Pink Floyd, è piena di domande senza risposta. Fino a oggi.
Mettendo insieme la sua ascesa cometaria alla celebrità pop, i suoi impulsi creativi e distruttivi, l’esaurimento nervoso, l’uscita dalla band e la successiva vita solitaria, questo documentario si inserisce nel contesto sociale degli esplosivi anni Sessanta. Diretto da Storm Thorgerson (Hipgnosis) e dal pluripremiato regista Roddy Bogawa, presenta nuove interviste agli amici, agli amanti, alla famiglia e ai compagni di band di Syd, Roger Waters, David Gilmour e Nick Mason. Il documentario – che prende il nome da una canzone inedita che Barrett portò alle sue ultime prove con i Pink Floyd – include anche interviste a legioni di artisti ispirati dalla breve permanenza di Barrett nella band – Pete Townshend degli Who, Graham Coxon dei Blur, Andrew VanWyngarden degli MGMT e altri ancora – oltre agli ex manager dei Pink Floyd Peter Jenner e Andrew King, al drammaturgo Tom Stoppard e alla sorella di Barrett, Rosemary Breen.
Il sito ufficiale del documentario: https://www.sydbarrettfilm.com/

Kotra – Radness Methods | Neural


[Letto su Neural]

Già “Assemblage Tremor”, prima traccia di questo Radness Methods , ultima opera in solo di Dmytro Fedorenko, aka Kotra, è assolutamente implacabile e annichilente, una sorta di liturgia techno-sciamanica che riporta lo sperimentatore ucraino residente da tempo a Berlino alle sonorità dei suoi esordi, fitte d’un flusso duro, industriale e diretto allo stomaco più che alla mente dei suoi ascoltatori. Tutta la scrittura delle sette composizioni presentate ha come riferimento quelle che sono le tipiche scansioni della musica rituale del tamburo e delle tecniche di meditazione dinamica. Il concetto è quello di una serie di azioni sonore astratte, piuttosto che eventi musicali, il cui effetto sia un’esplorazione di stati particolari di realtà non certo ordinari. Sono iperventilazioni acustiche, alla stregua di quello che nelle tecniche sannyasin sono esternazioni del pensiero attive e irriverenti, quelle alle quali ci sottopone Kotra, forte d’una coerenza frutto d’un percorso artistico assai complesso e travagliato. Naturalmente c’è chi subito ha scorto qualcosa di “pugilistico” e “guerresco” in questi solchi, blandendo la metafora della “resistenza” senza che l’autore facesse a tal proposito una seppur minima dichiarazione. La resistenza che noi scorgiamo, invece, è la stessa che ha portato allo scioglimento della Kvitnu, quella di “un nuovo inizio”, quella di cogliere i momenti di crisi per cambiamenti ancora più radicali, quella che nell’essenza d’un suono industriale, metropolitano e urticante innesta sacralità primordiali, indirizzando la carica concettuale che ancora rimane in circolo nella società a un livello più essenziale e diretto. Non si tratta di risultare più o meno disturbanti alla stregua di un mercato oramai mainstream, quanto piuttosto di ribaltare quella che è l’alienazione quotidiana di un conformismo che penetra ogni ganglio della contemporaneità e quindi anche gli svariati ambiti della produzione artistica. Non ci sono vie di mezzo e anche le mescole, per esempio, fra suggestioni industriali e algide geometrie elettroniche, sono assolutamente funzionali al flusso, un nuovo corso che infonde una potenza metallica e straniante, battente e inquieta. L’uscita va ad arricchire il catalogo del nuovo progetto discografico di Dmytro Fedorenko, la Prostir, etichetta fondata nel 2018 e focalizzata proprio su dissonanze e suoni corrosivi innestati su ritmiche sostenute. In fondo quello che Kotra ha sempre fatto è occuparsi di forme sonore estreme: sono quelli i suoi strumenti.

 

PINK FLOYD: IN USCITA IL LIBRO “TOGETHER WE STAND DIVIDED WE FALL” – L’ANALISI CRITICA DEL FILM THE WALL | PinkFloydItalia


Su PinkFloydItalia è uscita questa singolare segnalazione sul libro “Together we stand divided we fall”, versi della celebre song “Hey You” contenuta nell’album dei Floyd “The wall”. Nicola Randone ne è il curatore e indaga da più di dieci anni i significati intrinseci al film omonimo, diretto da Alan Parker.

L’opera “The Wall” dei Pink Floyd non è solo un film, né tantomeno semplice musica pop. I fan conoscono bene le tante sfaccettature nella poetica di Roger Waters (il writer principale) e il suo gusto per le tematiche di tipo esistenziale, ma per molti “The Wall” è rimasto sempre un mistero troppo complesso da approfondire: perché una rockstar drogata dovrebbe diventare un dittatore e che c’entra tutto questo con un padre morto in guerra, una madre iperprotettiva, un maestro di scuola troppo zelante nel voler formare le giovani menti e poi un matrimonio fallito? Cosa c’è dietro la “visione fugace” di Comfortably Numb e perché il maestro ripete sempre ai suoi alunni che non possono avere il dolce se non mangiano la carne? A questa e a tante altre domande, Nicola Randone prova a dare una spiegazione, servendosi del film che fu realizzato qualche anno dopo l’album musicale. Il lavoro di analisi, durato più di dieci anni, ruota intorno all’enorme portata culturale di “The Wall”. Come dice lo stesso autore: «Questo lavoro mi ha portato a interrogarmi su me stesso e sul mondo che mi circonda in un modo che mi è sempre sfuggito e alla fine della lettura sono sicuro che anche voi inizierete a domandarvi, come ho fatto io, cosa state facendo del vostro muro e quale versione di voi state portando avanti, se quella del dittatore o al contrario quella dell’uomo capace di mantenere il contatto col prossimo, per scoprire che gran parte della rabbia, della solitudine, del senso di frustrazione che possiamo avvertire ogni giorno può essere spazzata via solo cambiando prospettiva; e non si tratta di seguire un guru o rigide regole di respirazione, è sufficiente ritornare ad ascoltare la propria umanità».

Il libro è acquistabile su Amazon cliccando qui.

PINK FLOYD: IL GENIO DI SYD BARRETT & THE DARK SIDE OF THE MOON | PinkFloydItalia


Su PinkFloydItalia un lungo articolo che indaga le interazioni tra SydBarrett dei primi Floyd con quelli della goldenage, quelli degli anni ’70, in cui il percorso iniziale di Syd è stato inglobato in una visione forse meno estrema, ma più comprensibile dal pubblico, più identificabile. Un estratto:

Poco dopo la registrazione del loro album di debutto, The Piper at the Gates of Dawn, Syd Barrett lasciò i Pink Floyd, ma negli album successivi – A Saucerful of Secrets, Atom Heart Mother, Meddle– i Pink Floyd continuarono a essere legati a lui. Questo aspetto è raramente messo in discussione. Peter Jenner, un tempo manager dei Pink Floyd, disse di The Dark Side of the Moonche, sebbene fosse in gran parte incentrato su Syd, era l’album in cui i Pink Floyd fuggivano da Syd. Su The Dark Side of the Moon, secondo la saggezza popolare, i Pink Floyd divennero i loro stessi uomini.

Questo vitale salto artistico non fu compiuto – come si potrebbe immaginare – abbandonando lo spirito di Barrett e ciò che rappresentava musicalmente e liricamente, ma piuttosto comprendendolo; o, per dirla in altro modo, decifrando il suo codice segreto per capire come la musica possa catturare i cuori e le menti di un pubblico di massa.

In apparenza, la band si era liberata della psichedelia esoterica di Syd in The Piper at the Gates of Dawn, sostituendola con il linguaggio diretto e senza complicazioni di Roger. Tuttavia, entrambi gli album si incrociano su temi comuni o correlati: la curiosità di esplorare se stessi; la realizzazione della natura rapida della giovinezza e il ricordo malinconico di essa; la spinta e l’attrazione della città natale di una persona; la volontà di sperimentare con il suono; la dipendenza dalla sperimentazione; la fusione della natura esterna con la psiche interiore; l’interpretazione infantile del mondo che deriva dall’intraprendere viaggi psicologici a cui la maggior parte degli adulti si sottrae; la gioia di immergersi nell’assalto sonoro; la propensione a mettere in discussione gli assiomi della società; la c
reazione di paesaggi onirici che bucano le saggezze dichiarate della realtà – e così via.Dopotutto, i parolieri di ogni album, Syd Barrett e Roger Waters, erano amici d’infanzia, co-cospiratori adolescenti e collaboratori artistici, quindi il fatto che ci sia così tanto crossover tra i due non dovrebbe sorprendere. Forse, la cosa più importante nell’arte di entrambi è la consapevolezza che ogni persona ha la capacità di fare dell’inferno un paradiso e del paradiso un inferno. Soprattutto, The Dark Side of the Moon difende la nostra comune umanità e la sensazione che ognuno di noi sia talmente parte dell’altro da dover cominciare a riconoscersi l’uno nell’altro.

PINK FLOYD: IVOR WYNNE STADIUM, HAMILTON, VIDEO IN 4K! | PinkFloydItalia


Su PinkFloydItalia un reperto eccezionale, per qualità video e soprattutto audio: il concerto dei Floyd nel 1975, ad Hamilton (Canada); quasi mezz’ora di deliri musicali potentissimi, non immaginavo che i Floyd fossero arrivati a tal punto di perfezione ed efficacia. Vi lascio alle note del post e, in fondo, al video (mieidèi, la nebbia degli ultimi minuti, su Echoes, mi rimanda dritto dritto a ciò che hanno poi fatto i FieldsNephilim).

Il web ogni tanto regala delle forti emozioni, ed è questo il caso di questo incredibile video dei Pink Floyd (di quasi 28 minuti!) girato originariamente in 8mm ed ora scansionato in 2K e 4K del 28 giugno 1975 all’Ivor Wynne Stadium, Hamilton, Ontario Canada pubblicato su YouTube e girato da Jim Kelly “Speedy” in bobine super8 per la sua collezione personale. La conversione in 4k è stata effettuata dal Genesis Museum e la sincronizzazione audio da Ikhnaton e NUFF. Il risultato è spettacolare e.. imbarazzante, perché queste persone meriterebbero di lavorare per i Pink Floyd. Questo è il genere di materiale che i fan si aspetterebbero di trovare nelle pubblicazioni ufficiali.
Fu l’unica volta in cui i Pink Floyd hanno suonato a Hamilton. Mentre la folla di circa 55.000 persone era in delirio, i vicini non lo furono altrettanto. La posizione residenziale di Ivor Wynne è diventata rapidamente un enorme grattacapo. I vicini si sono lamentati del tipo di cose che ci si aspetterebbe da uno spettacolo rock di quelle dimensioni: ubriachezza pubblica, atti osceni, uso di droghe e folla enorme.

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"Scrivete quel che volete scrivere, questo è ciò che conta; e se conti per secoli o per ore, nessuno può dirlo." Faccio mio l'insegnamento di Virginia Woolf rifugiandomi in una "stanza", un posto intimo dove dar libero sfogo - attraverso la scrittura - alle mie suggestioni culturali, riflessioni e libere associazioni.

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