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Archivio per Recensioni

Dalíland, al cinema | FantasyMagazine


Su FantasyMagazine la segnalazione – e qui la recensione – di Dalíland, biopic dedicato agli ultimi anni del maestro Salvador Dalí.

Il film è il racconto del crepuscolo della vita dell’artista, che, tra luci e ombre, e indaga su alcuni degli aspetti meno noti della sua quotidianità.
Il giovane James, interpretato da Christopher Briney, viene ingaggiato dalla moglie di Dalí, Gala, interpretata da Barbara Sukowa, entrando nel suo entourage e scoprendone alcuni segreti.
Nel cast Ezra Miller nel ruolo del giovane Dalì e Andreja Pejić in quello di Amanda Lear, musa dell’artista per molti anni.

La recensione di “L’innocenza del buio” | HorrorMagazine


Su HorrorMagazine la recensione di Cesare Buttaboni a L’innocenza del buio, un quattromani di Lucio Besana e Roberto De Feo. Vi lascio ad alcuni stralci:

Il punto forte di questo romanzo è la caratterizzazione dei personaggi e, in particolare, dei bambini. In questo ci ho ritrovato molto del King di It. L’ambientazione poi, che fa uso del castello come classico topos della narrativa horror, riporta alla memoria anche L’incubo di Hill House di Shirley Jackson e Shining di Stephen King.

L’innocenza del buio ci parla dell’esistenza del male, un male insito nell’animo umano e che infine ha la sua incarnazione simbolica. Ciò che è avvenuto nel castello viene rivelato in maniera graduale, in un crescendo di  suspense che tiene il lettore incollato alle pagine.
I ragazzini, stimolati dalle ombre del passato, piano piano fanno riemergere l’orrore di quel che è avvenuto in quel luogo. Un orrore che risulta ancora più inquietante e perverso quando si scopre chi è a metterlo in atto. Un orrore che è parte della realtà  e che darà origine all’incarnazione di una forza maligna. E già solo l’incontro con alcuni vecchi abitanti di Vana lascia intuire che qualcosa di terribile è successo in quel castello nel 1919 .
Un sadismo sottile ammanta l’intera storia.

 

Resoconto della presentazione de “Il giorno dell’uragano” di Marco Scarlatti | KippleBlog


[Letto su KippleBlog]

I Bokononisti erano presenti alla presentazione del Premio Kipple Il Giorno dell’uragano, di Marco Scarlatti, avvenuta a Roma il 18 maggio, realizzando ora una recensione assai positiva; ringraziandoli intensamente, incollo qui sotto una delle tante valutazioni scaturite dalla serata:

In questa occasione con “Il giorno dell’uragano” Scarlatti ha presentato un tema di stampo dickiano, la distopia della società, quella brutta, quella del capitalismo che si fa religione schiacciando ogni umanità e spazio che non sia economicamente funzionale.

Un noir che ti fa vedere letteralmente l’oscurità della dittatura capitalista di una grande corporazione sui propri dipendenti, quello che già adesso trovi nei centri commerciali aperti fino a mezzanotte per la gloria dei brand mentre gli ospedali sospendono i servizi “non essenziali” nel week end e tutto va bene, tutto normale purché l’azienda sia “sana” sulle spalle della massa.
Lo strumento principe del progetto è quello religioso, si parla di mitopoiesi aziendale, il bispensiero orwelliano in confronto diventa acqua fresca.

Approfondimenti – The Art of Darkness – La storia della musica gothic nel libro di John Robb :: Gli Speciali di OndaRock


OndaRock recensisce molto approfonditamente il volume enciclopedico The Art Of Darkness, di John Robb, che in 650 pagine traccia una storia della musica goth, ma anche delle sue origini, degli influssi che l’hanno generata e delle derive che man mano si sono generate; a naso, mi pare che ci siano molti più di nomi citati di quanto fosse  lecito attendersi, vi lascio perciò a qualche brevissimo stralcio, investite almeno cinque minuti nell’attenta lettura del post.

È però il punk a scatenare l’onda lunga della darkwave. Per una miracolosa alchimia, come spesso accade nella storia della musica popular, si vengono a saldare una serie di elementi disparati: retaggi del passato e spirito del tempo, influenze culturali e sotto-culturali e moda, urgenza creativa e marketing musicale. Tutto concorre alla nascita di un fenomeno che – come osserva Robb – trovava nel punk e nel post-punk il linguaggio più adatto del momento a rendere la musica centrale nelle vite dei giovani. Come se il gothic fosse in fondo la semplice derivazione oscura della stagione del “no future”, la tappa successiva di una rivoluzione che aveva profondamente modificato lo stesso approccio alla musica all’insegna del do-it-yourself, consentendo una proliferazione di gruppi inimmaginabile fino a qualche anno prima.

L’ascoltatore sprovveduto tende a decretare la fine della stagione dark all’incirca alla metà degli anni 80, quando wave e post-punk cedettero il testimone al new pop, lasciando progressivamente il centro della ribalta. Ma, così come per il prog, dato per morto alla fine degli anni 70, è una ricostruzione del tutto superficiale e fuorviante.
Come si diceva, è stato soprattutto l’industrial rock a incorporare, già dai primi esperimenti degli anni 80, attitudine ed estetica dell’era darkwave. È in particolare nella fucina industriale di Sheffield, tra scantinati fatiscenti e vecchie fabbriche abbandonate, che si propaga un fermento creativo irrefrenabile. Il retroterra sono le liturgie rumoriste che il guru Genesis P-Orridge sta facendo deflagrare a Londra con i suoi Throbbing Gristle. Ma gli orizzonti sono ancora più ampi. Possono rincorrere i sogni anarcoidi dei vecchi pionieri dadaisti di Zurigo (Cabaret Voltaire), oppure, possono spostare le lancette ancora più in là, verso un futuro indefinito dove l’elettronica robotica dei Kraftwerk e i groove jazz-funk si lasciano trascinare dai bassi ossessivi del dark-punk verso un’avantgarde minacciosa e destabilizzante, come nel caso dei Clock Dva di Adolphus “Adi” Newton (ex-Human League). Esperienze che si riveleranno indispensabili per lo sviluppo del movimento industrial degli anni Novanta, capitanato dai Nine Inch Nails di Trent Reznor, ma anche da band come Nitzer Ebb, Skinny Puppy e Front Line Assembly. E se gothic è soprattutto un’atmosfera, più che un vero e proprio stile, non potranno non esser accostate al termine anche vicende musicali in parte divergenti, come quelle di Current 93, Coil, Nurse With Wound e Whitehouse.

L’ultimo romanzo di Valerio – Carmilla on line


Su CarmillaOnLine la segnalazione di La fredda guerra dei mondi. Romanzi brevi e racconti ritrovati, che Franco Forte ha pubblicato recentemente per Mondadori; si tratta dell’ultimo romanzo di Valerio Evangelisti, purtroppo incompleto, su cui stava lavorando un anno fa, più altri racconti che completano il quadro dell’autore da più punti di vista, qualcosa di cui si sentiva la mancanza. Ciao Valerio

Gli alieni esistono, attaccano la Terra e ne distruggono i monumenti. Chiedono la liberazione dei loro compagni catturati dopo la seconda guerra mondiale. Le élite mondiali utilizzano la paura del nemico per rafforzare il consenso e dominare la popolazione. Nel frattempo uno scalcinato gruppo di rapinatori organizza un colpo proprio in una delle basi dove si trovano i prigionieri. I protagonisti dell’impresa si autodefiniscono anarchici e concepiscono le loro azioni come espropri volti a ridistribuire la ricchezza sociale. Si sono dati perfino un nome, Confederazione sotterranea dei lavoratori, ma a parte il leader – Justin Mathurin, detto il Reverendo – e il Tricheco – militante in gioventù della Gauche prolétarienne – gli altri hanno ben poco di politico: si tratta di prostitute occasionali, ex tossicomani e altri frequentatori del sottomondo criminale.
Di questo parla La fredda guerra dei mondi, l’ultimo romanzo di Valerio Evangelisti. Si tratta di un’opera incompleta, ma godibilissima per i suoi personaggi scanzonati, il ritmo incalzante, l’acume politico e l’irresistibile comicità popolaresca:

“Al primo sorso di champagne, Romero, che non vi era abituato, emise un rutto così forte da far sussultare la clientela e tremare le vetrate. Un ritratto di Apollinaire cadde e si ruppe il vetro di protezione. Dal piano superiore, separato da quello in basso con una scaletta, si affacciò irritato un noto giornalista televisivo. Gridò al maître: «Gustave, siamo al Dôme o in una bettola di Aubervilliers?»”.
Romero Avellano gli urlò: «Ti vedo in tv! Io faccio con la bocca i rumori che tu fai col culo, e trasformi in notizia! Vieni giù, e ti infilzo con una forchetta, sporco borghese!».

Certo, quando al diciottesimo capitolo il testo s’interrompe proviamo un tuffo al cuore e ci ricordiamo che il suo autore non è più tra noi. Però possiamo leggere il finale dell’omonimo racconto apparso in una raccolta Millemondi Urania nell’estate del 2020. Il romanzo incompiuto ne rappresenta infatti una riscrittura “aumentata” che ci introduce nel laboratorio segreto di Evangelisti: qui prendono vita personaggi tridimensionali come si conviene a un testo di maggiori dimensioni e compare lo scenario mutuato dalla precedente professione dello scrittore, quella di storico. Nel caso specifico torna alla memoria il suo saggio sugli anarchici illegalisti francesi del primo Novecento, contenuto nel libro Sinistre eretiche. Dalla banda Bonnot al sandinismo 1905-1984 (SugarCo, 1985). Non possiamo sapere se l’autore riservasse anche per il romanzo lo stesso finale del racconto, ma abbiamo una traccia possibile.

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La recensione di “Avventure incredibili” di Algernon Blackwood | HorrorMagazine


Su HorrorMagazine la recensione di Cesare Buttaboni ad “Avventure incredibili”, raccolta che l’editore ProvidencePress dedica ad alcune tra le migliori cose che Algernon Blackwood ha scritto; un estratto:

“Nel volume intitolato Avventure incredibili si trovano alcuni dei più bei racconti che l’autore abbia mai scritto, che conducono la fantasia verso riti selvaggi su colline notturne, verso aspetti segreti e terribili che si celano dietro scene mondane, e inimmaginabili e misteriose cripte sotto le sabbie e le piramidi d’Egitto; il tutto con una finezza e uno stile che convincono, laddove un trattamento più crudo o più banale si sarebbe limitato a divertire. Alcuni di questi racconti non sono affatto storie, ma piuttosto studi di impressioni elusive e frammenti di sogni ricordati a metà. La trama è trascurabile, ed è l’atmosfera che regna incontrastata”.

In effetti il volume presenta Blackwood al suo meglio. Lo scrittore inglese rimane ancora oggi insuperabile quando si tratta di evocare le forze sconosciute della natura, lasciando trasparire l’esistenza di una dimensione oscura che fa parte della nostra realtà. Siamo di fronte a una sorta di terrore spirituale e pagano.
Blackwood d’altra parte fece parte della Golden Dawn, un’associazione esoterica di cui ha indubbiamente subito l’influsso. Ma se in alcuni casi – come in qualche racconto di John Silence o nel romanzo L’accordo umano – si lascia trascinare da un esoterismo troppo di maniera che inficia il risultato finale, in questo caso la sua penna è ispiratissima e riesce a creare un’atmosfera genuina, suggerendo e non mostrando l’orrore, evocando l’indifferenza e l’ostilità delle forze soprannaturali.

Troviamo qui ben due romanzi brevi: La rinascita di Lord Ernie (The Regeneration of Lord Ernie) e I dannati (The Damned), quest’ultimo comparso anche nel volume di Armenia La voce del vento.
In La rinascita di Lord Ernie il protagonista è un giovane aristocratico inglese, indolente e apatico, che viene accompagnato dal suo precettore John Hendricks in un tour per l’Europa. Il viaggio si rivelerà una vera e propria esperienza iniziatica per Lord Ernie.
I dannati potrebbe sembrare invece una semplice storia sulle case infestate, ma si trasforma in una riflessione filosofica sul male e sulle religioni. Il racconto dell’esistenza di una setta di fanatici è satura di un’aura maligna eppure ineffabile che non lascia indifferenti.

Media-Trek » Blog Archive » Siouxsie and the Banshees a Milano


Sul blog-repubblica di Ernesto Assante la recensione di Mario Gazzola al recente concerto di Siouxsie Sioux a Milano, in cui si sottolineano i tratti salienti di quest’ennesimo ritorno geriatrico. Vi lascio alle  parole di Mario:

Il ritorno imprevisto di Siouxsie sul palco per i suoi fedeli avviene a 10 anni dalla sua ultima apparizione a un Meltdown festival, quando ormai la si dava per pensionata nella campagna inglese: i Banshees non ci sono più dal ’96, intorno a lei sul palco un chitarrista (Chris Turtell), un bassista (Joe Short), un batterista (Robert Brian) e un polistrumentista (Steve Evans), che si alterna fra tastiere e seconda chitarra, ma che alla Regina non sembra necessario sprecare qualche minuto per presentare al pubblico. Una Regina bizzosa che, per quanto propensa al dialogo col pubblico tra un pezzo e l’altro, a una richiesta urlata in sala da un fan risponde “Blah blah blah… don’t talk. Listen!”.
Efficacemente supportata dai suoi anonimi “operai” del rock, la Regina spazia ampiamente nella sua ormai quarantennale carriera, facendo scorrere la pellicola di classici come Christine, Happy House, Arabian Knights e Cities in Dust, ma anche di gemme minori come But Not Them e l’avvolgente Dear Prudence (il cui video passato a Mr. Fantasy nell’83 fu il mio primo incontro con la band e con la canzone, che all’epoca nemmeno sapevo essere una cover dei Beatles!), fino a oscure b-side racchiuse nella raccolta Downside Up (2004) come Catwalk, o alla Into a Swan tratta dall’unico, ma sempre valido, album firmato da solista (Mantaray del 2007) solo come Siouxsie. Una set list variegata e non prevedibile, che evita al concerto l’effetto juke-box dei cliché, in cui per esempio è caduto il live dell’estate scorsa dei Bauhaus, altri paladini del dark ’80.
Come di prassi in un concerto di area new wave, nessuna particolare prodezza strumentale in scena – a parte la canzone dei Creatures eseguita con tutti gli strumentisti impegnati alle percussioni – ma in compenso eleganti video proiettati sullo schermo di fondo: mari procellosi, liquide sirene nuotatrici riflesse nelle acque in cui fluttuano, ballerine in tutù, geometrie policrome che ben assecondano il caleidoscopio di colori degli arrangiamenti (supportati dal vivo coi campionamenti) in cui l’originale dark punk di Siouxsie ha saputo evolversi nel corso del tempo, qua e là conquistando anche gli onori delle classifiche e arricchendo la sua tavolozza dark dei colori dell’electro pop, di una personale rivalutazione della psichedelia e di diverse spezie etniche, che hanno evitato alla Regina di inaridirsi nel cliché del tuttosemprenero di marca Bat Cave.
Un concerto non molto lungo, altra caratteristica tipicamente new wave: circa un’ora e un quarto, concluso dai bis di Spellbound e dell’altra cover attesa dai fan: l’immortale, saltellante The Passenger di Iggy Pop, singolo dell’album Through the Looking Glass dell’87 (spumeggiante raccolta di omaggi a Disney, Dylan, Ferry e Television), originalmente riarrangiata con un supporto di fiati soul, ieri sera inevitabilmente campionati.
Pubblico – stagionato e non – entusiasta, finalmente accalcato verso il palco nell’omaggio alla cavernosa Sovrana in tunica-pantalone argentata, dopo un’ora di serrati controlli delle maschere del teatro sull’ormai inarginabile abuso di foto e video da cellulare.
Dopo ieri sera la Musica non intravede nuovi, arditi corsi da sviluppare, ma è stata una bella serata. Speriamo che preluda a un nuovo album perché anche le prove recenti di Siouxsie valevano l’ascolto. E – curioso strabismo temporale – anche un Peepshow, che nell’88 mi sembrava un “saldo di stagione” dell’era dark, sentito oggi si rivela un album valido, ben arrangiato e piacevolissimo, lontano da quelle radici solo perché la sua autrice si è evoluta nel tempo e non è rimasta la fotocopia del proprio mito. Quel che in fondo sarebbe il compito principale di un artista.

Il problema con Elon Musk e con il lungotermismo – Quaderni d’Altri Tempi


Abbiamo un problema con Elon Musk. E no, non è esattamente quello che pensate. Non è semplicemente il problema che l’uomo oggi più ricco del mondo, titano della tecnologia, proprietario di un influente social network, è anche una persona piena di strane e pericolose idee sulla politica, l’umanità e il suo futuro; è piuttosto il problema di come quelle idee stiano infettando il discorso sul futuro al punto da rischiare di farlo deragliare fino a chiudere la porta a ogni possibilità di pensare il futuro.

Questo è l’incipit di un lungo post di Roberto Paura su QuaderniAltriTempi, dedicato proprio al controverso multimiliardario tecnofilo – parecchio, ma anche altro – di cui si analizza il pensiero e l’operatività. Un altro estratto, con le allarmanti considerazioni finali che potrete leggere nel resto dell’articolo:

Negli ultimi anni, questo mito si è fortemente incrinato. Durante la pandemia Musk, anziché impegnarsi negli sforzi di contenere il virus, ha iniziato a diffondere teorie complottiste contro i lockdown. Già prima era emerso il suo ambiguo sostegno alle politiche di Trump, e ben presto ha iniziato a emergere il discorso tipicamente alt-right contro i cosiddetti woke, dipinti come troppo impegnati a guardarsi l’ombelico pensando a quali pronomi usare per definire la loro identità di genere piuttosto che darsi da fare per cambiare il mondo. La guerra di Musk a Twitter, il suo social network preferito, reo di imporre il pensiero unico del politicamente corretto contro il cinismo muskiano, lo ha portato alla più tradizionale delle sparate di un arci-miliardario: se qualcosa non mi piace, la compro e la cambio.
È iniziata così a prendere forma la consapevolezza che a Elon Musk non sta tanto a cuore il futuro, quanto la sua visione del futuro, da imporre a tutti i costi. Prima attraverso i soldi, poi attraverso la tecnologia, quindi attraverso la grancassa dei social network; e magari, in un giorno non troppo lontano, attraverso la politica attiva. Una visione del futuro che Fabio Chiusi, nel suo L’uomo che vuole risolvere il futuro, ascrive correttamente alla categoria del “soluzionismo tecnologico” (Morozov, 2014):

“Solo mettere gli ingegneri e gli scienziati al comando, suggerisce questa scuola di pensiero applicata alla comprensione di Musk, ci darà una reale possibilità di risolvere il futuro, trattarlo cioè, da buoni soluzionisti, come un altro dei problemi umani riducibili a calcolo, probabilità e assiomi matematici”.

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RECENSIONI: ROGER WATERS LIVE @ UNIPOL ARENA, BOLOGNA – THIS IS NOT A DRILL TOUR | PinkFloydItalia


Su PinkFloydItalia la recensione al concerto bolognese di Roger Waters, avvenuto pochi giorni fa e che, da quanto leggo in giro, ha flashato invariabilmente tutti gli spettatori, anche quelli di altre date sparse per l’Europa, per il NordAmerica. L’incipit:

Onore a Roger Waters, uno dei pochi artisti che negli ultimi decenni non sono piegati alla deriva nichilista e rinunciataria della cultura dominante, continuando invece a denunciare la violenza di un sistema di potere diventato ancora più pervasivo e distruttivo, per certi versi, rispetto agli anni ’70. Lo storico leader dei Pink Floyd, giunto alla soglia dei suoi 80 anni, testimonia di avere ancora una carica di energia contestatrice (ormai merce rara), non solo per le posizioni che ha preso pubblicamente sul conflitto russo-ucraino ma anche soprattutto per il tour che sta portando in giro per il mondo: “This is not a drill” (questa non è un’esercitazione), definito il suo primo tour di addio.

Sono stato alla prima data di Bologna, venerdì scorso, all’Unipol Arena, e mi sono trovato immerso in uno concerto di quasi tre ore in cui messaggio artistico e messaggio politico si intrecciano indissolubilmente in uno spettacolo fatto non solo di musica ma anche di scenografie e proiezioni su schermi alti tre metri, disposti a croce sopra il palco al centro dell’arena. Un’opera d’arte totale.

Jeeg Generation | L’anello di Clarisse


Su L’anello di Clarisse è comparsa una bella recensione a Jeeg Generation, saggio di Marco Scarlatti uscito per la collana Delos non-aligned objects, che amo visceralmente curare. Ecco cosa dice il blog:

Se quella dei cosiddetti Boomer può essere considerata la generazione degli sconfitti che almeno avevano provato a cambiare il mondo, per la Jeeg Generation, i nati cioè fra il 1965 e il 1979, non si può parlare di sconfitta, in quanto non hanno avuto nemmeno la possibilità di lottare. È una generazione disillusa che ha perso in partenza senza neppure lottare, una generazione che ha trovato il mondo già preconfezionato, imballato nei messaggi propinati dalle televisioni commerciali, con una musica che non aveva più la carica di quella degli anni precedenti e che si è dovuta arrabattare con valori che andavano sempre più sfaldandosi fra le loro mani, la famiglia che non era più quel rifugio incrollabile come lo era stato per i loro genitori, o il lavoro che diventava sempre più avulso da un sistema di vita incapace di soddisfare anche le più semplici aspirazioni.

Sono queste, insieme ad altre, le osservazioni contenute nel breve ma acuto saggio di Marco Scarlatti, Jeeg Generation edito da Delos Digital, una disanima di una generazione che si trova oggi alle prese con la disillusione di una vita che non ha quasi mai rispecchiato le aspettative, una generazione che fatica a stare al passo con i tempi e che si è trovata di fronte alla famosa corda citata da Kafka quando dice che “la vera corda, che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra più fatta per inciampare che per essere percorsa.” L’inciampo è sempre dietro l’angolo, qualunque cosa faccia l’appartenente a quella generazione, nei rapporti di coppia, nel rapporto con i figli o nel lavoro. Una generazione che avrebbe necessità a disimparare, cresciuta nell’illusione di poter un giorno salire ed entrare nella testa del robot d’acciaio per pilotarlo e salvare il mondo dai cattivi, un robot che invece è rimasto inattivo e inaccessibile, rendendo inutili gli sforzi di quanti si erano illusi di essere invincibili. L’unica chance che rimane loro è la consapevolezza che “disimparare significa scoprire di nuovo il mondo, leggerlo una seconda volta utilizzando prospettive inedite.”

Non tutto sembra essere perduto, per fortuna.

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