Su Lankenauta una recensione di Ettore Fobo a Il libro delle cose, silloge di Fabio Donalisio con nota critica di Andrea Cortellessa. Un estratto dalla recensione:
Fabio Donalisio continua nella sua operazione di scavo, di raschiatura di concetti, mirando a esprimere o, come voleva Roland Barthes, inesprimere, nei suoi versi secchi e taglienti “il minimo importante”, ciò che sfugge al nulla solo per l’illusione di senso che gli diamo. Assenza è la parola chiave per comprendere questa poetica scabra, in cui versi altrui vengono riutilizzati o modificati per generare una letteratura di richiami e di rimandi, che a dispetto del vuoto, che sembra essere la trama profonda del nostro vivere e scrivere, si rivela densa. La rima è usata in maniera moderna, quasi sempre interna al verso, a inventare una partitura metrica del tutto originale.
Alcuni versi più discorsivi, riportati in corsivo, sembrano dare la dimensione filosofica di questa versificazione in cui il poeta stesso viene meno, l’io lirico scompare, e vengono fuori le cose da qui il titolo del libro Il libro delle cose, edito da Nino Aragno editore, nell’aprile del 2018. Nella bella nota critica in quarta di copertina Andrea Cortellessa parla di “dolce stil niente” e ha ragione.
Donalisio svuota di sé, del sé, la parola poetica ed emerge dolcemente il vuoto, vuoto l’io, minima e insignificante particella pronominale, vuoto il noi, per lo stesso identico motivo: “io è ognuno, è il pronome più generico e / impersonale, non serve a designare nessuno”.
Già dai primi versi Donalisio chiarisce a che gioco stiamo giocando “che fai? niente mi do/assente”. Altrove leggiamo “le parole implicano l’assenza di ciò che designano”. La sensazione, gorgiana, è che nulla possa essere detto, ma che il non detto sia il tutto, e che la lingua poetica sia un prolungato disdire la dicibilità del reale, spesso troppo facile, spesso ingannevole, “lingua ombra” alla maniera di Celan, in cui come dei novelli Jabès, qui di seguito citato, “abitiamo solo la nostra perdita”, la nostra scomparsa, in cui la stessa carne non è altro che la “base fisiologica del vano”.
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