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Claudio Rutilio Namaziano – Studia Humanitatis – παιδεία


Su Studia Humanitatis un lungo saggio storico e letterario che verte sulla figura di Claudio Rutilio Namaziano, autore tardo latino che ho amato nella sua opera “De reditu suo”, un lungo viaggio da Roma alle Gallie nel momento successivo al sacco di Roma del 410 a opera dei Visigoti; un estratto:

Claudio Rutilio Namaziano fu poeta e politico latino del V secolo. Di origini galliche (forse nacque a Tolosa), era figlio di Lacanio, funzionario imperiale celebre per la sua integrità. Trasferitosi a Roma in età relativamente giovane, come suo padre, anche Namaziano ricoprì incarichi di grande rilievo nell’amministrazione pubblica e la sua carriera fu anzi più brillante di quella paterna: sotto il dominato di Onorio egli fu magister officiorum nel 412 e praefectus Urbi nel 414.
Fornito di un’ottima formazione culturale, Namaziano apparteneva all’ambiente dell’aristocrazia senatoria più tradizionalista, legata al culto degli antichi dèi di Roma: la sua mentalità, i suoi ideali, le sue posizioni politiche, che traspaiono dall’operetta che di lui si è conservata, sono i medesimi della società rispecchiata dall’epistolario di Simmaco e del circolo culturale descritto da Macrobio nei suoi Saturnalia. Nell’autunno del 416, o più tardi nel 417, a causa delle gravi notizie provenienti dalle Galliae, Namaziano fu costretto a ritornare in patria per sorvegliare personalmente le sue proprietà fondiarie e contribuire a riorganizzare la provincia, devastate dalle scorrerie di Vandali e Visigoti.

Il De reditu suo [Sul proprio ritorno], un poemetto in distici elegiaci, pervenuto lacunoso (ne sopravvivono 664 versi del libro I e 68 del II, ai quali si aggiungono altri 39 molto frammentari, ritrovati nel 1973) narra, appunto, il viaggio verso la Gallia dal porto di Ostia (Portus Augusti), lungo le coste della Tuscia e della Liguria, attraversando le località di Centumcellae, Portus Herculis, Populonia, Falesia, Villa Triturrita, Pisae, Portus Lunae.
Se da una parte l’Itinerario descrive le bellezze naturali delle coste frastagliate della Penisola, l’isola d’Elba, le montagne della Corsica, che si profilano all’orizzonte, la maestà degli Appennini, che destano la meraviglia del poeta, dall’altra l’attenzione dell’autore si appunta su una serie quasi ininterrotta di rovine e distruzioni: città devastate, campagne abbandonate, desolazione e povertà, che regnano in ogni luogo.
Legato agli ambienti neoplatonici e ai culti aviti, Namaziano riempie il proprio «giornale di viaggio» con malinconici rimpianti per un mondo che sta ormai finendo.

Οἱ βάρβαροι – I barbari: l’alterità nel mondo antico – Studia Humanitatis – παιδεία


Su Studia Humanitatis  un interessante post riguardo la semantica e il concetto di “barbaro”, nozione assai profonda che nasconde in sé l’idea del conservatorismo. Un estratto:

Nell’antichità il concetto di “barbaro” subì una lunga e complessa evoluzione semantica, determinata da precisi avvenimenti storici, caricandosi di valori sempre più ampi e talora assumendo accezioni binarie.
Il latino barbarus trova corrispondenza semantica nel greco βάρβαρος, voce onomatopeica, risultante dal raddoppiamento del suono bar-: secondo la teoria linguistica più consolidata, la radice i.e. *barbar– ha dato come esito anche il sanscr. bárbarha e il corrispettivo lat.  𝑏𝑎𝑙𝑏𝑢𝑠 («balbuziente»). Occorre precisare che nell’India antica bárbarha designava chiunque non appartenesse alla casta dei Brahmini, cioè era considerato un Parya; inoltre, da bárbarha deriva anche il sostantivo barbarhatà («ispidezza», «rozzezza»).

In greco, di per sé l’aggettivo βάρβαρος indicava, senza connotazioni spregiative, l’individuo non-Greco, con il quale era difficile comunicare, perché non era in grado di esprimersi in maniera comprensibile. Infatti, con la locuzione βαρβαρικός λόγος («discorso barbarico») si diceva un insieme di parole e versi del tutto privo di senso, benché con lo stesso βαρβαρικός si intendessero anche linguaggi afferenti alla sfera del sacro e del magico.
D’altronde, com’è noto, nella civiltà greca proprio il linguaggio e la capacità di padroneggiare un discorso (λόγος) erano considerate le facoltà imprescindibili dell’uomo “civile” e ontologicamente “superiore”: erano, cioè, quelle competenze che distinguevano i Greci da tutti gli altri popoli. Nonostante la loro frammentazione politica, grazie alla lingua comune gli Elleni si sentirono sempre uniti: insomma, l’opposizione sostanziale che sottendeva al concetto di “barbaro” era proprio la distinzione fra Greci e non-Greci.

Comunque, almeno inizialmente, essere chiamati βάρβαροι non aveva, di per sé, un’implicazione dispregiativa. Dal V secolo a.C., tuttavia, il termine, impiegato con maggior frequenza, passò a indicare lo «straniero», nel senso di colui che nasce e vive in un luogo altro rispetto al proprio (cioè, allogeno). Benché tra i Greci vi fosse una certa repulsione soltanto all’idea di mescolarsi e di avere rapporti con quanti non fossero delle loro parti, il concetto di βάρβαρος non si mescolava a ragioni di contrasto ideologico-politico.

476 d.C. Cosa è successo davvero? – TRIBUNUS


Su Tribunus una piccola inchiesta sul 476 d.C., su cosa avvenne effettivamente e sul significato politico degli atti e delle risposte ufficiali, che celavano dinamiche di potere che sembrano quelle odierne. Un estratto:

Nonostante nel corso degli anni siano usciti ormai innumerevoli studi sull’anno 476, questo famosissimo anno non solo della Storia romana, ma della Storia in genere, ancora oggi soffre di narrazioni ormai fossilizzate e stereotipate. Narrazioni che vanno dal crollo apocalittico, fino a quello della “caduta senza rumore”, espressione resa celebre dal grande storico italiano Arnaldo Momigliano.

Ora, tuttavia entrambe queste narrazioni, prese così come sono, non tengono spesso in conto delle contingenze storiche, delle dinamiche tra i protagonisti e degli eventi che davvero accadono in questo anno così importante della Storia romana. Proviamo quindi a tracciare precisamente cosa succede per davvero negli anni tra il 476 e il 480, e cerchiamo di capire cosa abbia davvero significato, anche per i contemporanei, l’anno 476 d.C.
Una necessaria premessa: per capire appieno le dinamiche degli avvenimenti di cui parleremo in questo articolo, è necessario aver ben presente la differenza tra impero, inteso come Stato, e imperium, e di conseguenza il fatto che era possibile dividere il potere imperiale senza separare lo Stato. C’erano più imperatori colleghi, che si spartivano l’imperium, ma l’impero era uno e uno solo.

Per prima cosa, stabiliamo subito cosa non succede nel 476: non viene deposto l’ultimo imperatore romano in Occidente. Infatti, il giovane Romolo Augusto, che viene messo sul trono imperiale dal padre Flavio Oreste, è a tutti gli effetti un usurpatore – mai riconosciuto dall’imperatore in Oriente dell’epoca, ovvero Zenone.
L’ultimo a detenere, almeno nel nome, l’imperium sull’Occidente è infatti Giulio Nepote, che aveva avuto la benedizione di Zenone e del suo predecessore, Leone II, per diventare imperatore in Occidente.
Giulio Nepote arriva nel 474 in Italia con un esercito, per deporre il precedente imperatore “fantoccio”, Glicerio, messo sul trono dal magister militum et patricius germanico di turno (Gundobado, nipote del celebre Ricimero).

Cronologia del Collasso e non-caduta di Roma – Renovatio Imperii


Come premesso inizialmente, questa Cronologia del Collasso ha passato in rassegna gli eventi chiave che hanno segnato la permanenza all’ufficio imperiale degli ultimi Augusti d’Occidente, da Valentiniano III a Romolo Augustolo. Benché necessariamente selettiva, la scelta delle fonti e degli episodi ricordati in questa “piccola storia della finis Romae” ha cercato di rispettare gli obiettivi dell’articolo, prettamente divulgativi.
Dell’importanza di questo tema si deve anche dire che dalla posizione adottata da parte (o parti) del mondo accademico dipende un tratto considerevole della periodizzazione storica antica e medievale. L’abbandono progressivo delle teorie cadutiste, tra cui spicca l’opera di Andrè Piganiol e il suo “la Civiltà romana fu assassinata”, ha condotto alla rivalutazione del periodo primo-medievale nei termini di tardo-antico, dove quest’ultima denominazione definisce uno sfumare fra antichità e medioevo privo di cesure.

Ancora oggi il dibattito rimane vivacissimo. Lo dimostra il guanto di sfida lanciato a Peter Brown, uno dei massimi esponenti della corrente del tardo-antico, da parte di Ward Perkins, allievo della corrente cadutista-gibboniana, con il suo “La Caduta di Roma e la Fine della Civiltà”, pubblicato nel 2010. In ultimo, anche Renovatio Imperii, come associazione storica, spiegandosi “in Roma”, partecipa a mantenere vivo il dibattito, oltre che su questo tema, sul significato di Roma “per noi”. Dove quel noi sta per tutta la Civiltà occidentale.

Questa è la chiosa di un lungo articolo apparso su RenovatioImperii che indaga il (vuoto) potere che avevano gli ultimi imperatori occidentali a ridosso del 476 d.C., quando l’imperium si dissolse nella residua parte occidentale dell’Impero Romano, quella che faceva riferimento a Roma e Ravenna.
È un articolo lungo, ma ne vale davvero la pena: leggetelo 😉

“De Reditu”. Il viaggio e il ritorno nella letteratura tardo antica – TRIBUNUS


Su Tribunus un bell’articolo sul poema – e implicitamente sul film – De Reditu, del poeta tardo latino Claudio Rutilio Namaziano. Un estratto:

Il De Reditu è un poemetto in distici elegiaci, scritto da Claudio Rutilio Namaziano.
Il manoscritto originale, oggi perduto (ma ancora attestato nel 1706), venne scoperto nel 1493 nel monastero di Bobbio da Giorgio Galbiate, filologo e umanista.
L’opera si compone di due libri, ma il secondo si interrompe bruscamente. Nel 1973 vennero ritrovati due frammenti, i quali fanno cenno a un incontro tra Rutilio Namaziano e tale Marcellino in una località non ben individuata fra Luni e Albingaunum, e l’altro riguarda proprio la ricostruzione della città di Albingaunum (Albenga). Nonostante l’opera sia giunta incompleta, è proprio l’esistenza del poemetto stesso a darci la certezza del successo e del raggiungimento della destinazione del viaggio da parte di Rutilio Namaziano.

L’autore è a noi noto appunto solo dal poema stesso. Appartenente a una famiglia aristocratica di origine gallica, Rutilio fece una lunga carriera politica a Roma: fu dapprima magister officiorum e in seguito praefectus Urbi (nel 413 o 414). Rutilio era forse legato a circoli culturali pagani e conservatori, di cui facevano parte anche numerosi esponenti dell’aristocrazia senatoria romana. Alcuni di questi personaggi sono citati nell’opera.
Il clima del periodo, seppur filtrato dalla visione dell’autore, è restituito dai versi del De Reditu. Il motivo del viaggio di ritorno di Rutilio Namaziano verso la terra natìa (probabilmente era originario di Tolosa o comunque di una cittadina nella Gallia Narbonense. La meta del viaggio non viene esplicitamente citata nel testo) è causato dall’arrivo dei Goti e dalle distruzioni da essi causate, che costringono l’autore ad abbandonare Roma per curare i suoi possedimenti devastati in Gallia. L’invasione gota investì infatti fra il 412 e il 414 i territori della Gallia, sotto la guida del re Ataulfo.
In base a tali dati e a poche sporadiche indicazioni fornite dai versi del poemetto è possibile stabile due probabili date del viaggio: la prima datazione proposta è quella di metà novembre – dicembre del 415; mentre la seconda cade negli ultimi giorni di ottobre del 417. In entrambi i casi, il viaggio è effettuato durante il periodo del mare clausum, periodo che va da ottobre a marzo, in cui la navigazione è quasi del tutto ferma o sottocosta. L’imbarcazione utilizzata da Rutilio è una nave di piccole dimensioni, detta cymba.

Materia del De Reditu sono propri i luoghi che Rutilio vede costeggiando le sponde del Tirreno e le tappe sulla terraferma, ma non mancano riflessioni e incontri con amici, mescolati da frequenti e raffinati richiami letterari e mitologici. L’autore infatti aveva ricevuto un istruzione elevata e colta, studiando letteratura, retorica, e diritto. Il suo bagaglio culturale riaffiora proprio dai versi, in cui vi sono richiami a Ovidio, Orazio, e Virgilio, ma anche nella scelta stessa del distico elegiaco, che rimanda ai toni e ai motivi delle elegie dell’esilio ovidiano. Per Rutilio la partenza da Roma è vissuta con nostalgia e rimpianto, tutta l’ammirazione e l’amore per l’Urbe sono espressi nel cosiddetto “inno a Roma”, che si colloca nel momento in cui Rutilio con un piccolo seguito lascia la città per giungere a Portus, punto di partenza del suo viaggio. Nel poemetto non si fa mai riferimento al sacco subito dall’Urbe nel 410, ma Roma appare ancora gloriosa e come unica e vera capitale dell’Impero. Semmai, le preoccupazioni dell’autore sono incentrate su quella che lui percepisce come una decadenza dei costumi.

La lettura dell’opera doveva essere forse destinata a una cerchia ristretta e fidata di persone, probabilmente amici.

Genserico, i Vandali e il nuovo sacco di Roma – Studia Humanitatis – παιδεία


Su Studia Humanitatis un lungo articolo che delinea l quadro sociale e politico del V sec. d. C. nell’Impero Romano d’Occidente, quando le orde barbare – in questo casi di Genserico e dei suoi Vandali – imperversò sempre più pressante e coprente sulle poche volute dell’Imperium rimaste nelle mani degli ultimi imperatori. Un estratto:

Genserico sapeva bene che ogni conquista andava consolidata e, siccome la guerra cominciava a pesare anche per la sua gente, avendo preso il controllo di una sola città, ebbe l’accortezza di intavolare trattative con l’imperatore Valentiniano III (PLRE 2, 1138-1139): così l’11 febbraio 435 si addivenne a un trattato di pace, in forza del quale i Vandali furono individuati come foederati al servizio dell’Impero per la Numidia Cirtana (Chron. min. I 474 Mommsen). Ciononostante, ben presto, Genserico iniziò a comportarsi come un sovrano autonomo, esercitando sulla regione un potere assoluto: tutte le terre, sia pubbliche sia di proprietà privata, furono confiscate e annesse al demanio regio, quindi suddivise in lotti e distribuite ai più fedeli soldati del re (sortes Vandalorum). Quanto alle popolazioni locali, scampate alla morte o alla servitù, le comunità africane furono costrette al pagamento di tributi assai onerosi, nonostante la formale conservazione della legislazione imperiale (cfr. Procop. Bell. III 5, 16). Le fonti documentali, confluite nel corpus di Vittore di Vita, come la già nominata Historia persecutionis Africanae provinciae, la Notitia provinciarum et civitatum Africae e la Passio beatissimorum martyrum, tramandano una delle pagine più terribili della storia della repressione ariana contro l’ortodossia nicena: sono innumerevoli gli episodi di torture inflitte agli ecclesiastici e ai fedeli, che, durantes in catholica fide, preferirono subire il martirio piuttosto che abiurare. Si narra come gli sfortunati fossero costretti a bere aceto o liquidi corporali, o a trascinare enormi pesi; coloro che rifiutavano di abbracciare l’Arriana impietas erano messi all’ergastolo, condannati all’esilio o, preferibilmente, uccisi. Si racconta di prelati arsi sul rogo, dilaniati dalle belve nel circo o legati a cavalli e trascinati su terreni accidentati. Tutti gli eventi narrati, comunque, vengono tendenzialmente ridotti a uno scontro fra omousiani e ariani, nel quale i primi vengono rappresentati come pii sottoposti alle più atroci torture, descritte finanche con eccessiva dovizia di particolari, mentre i secondi risultano sempre essere spietati carnefici, protagonisti negativi di una concatenazione di piccole rappresentazioni agiografiche (cfr. Vict. Vit. HP I 3-4; I 6; I 8; I 10; I 12; Nov. Val. II 12, 13, 6; Ferrand. Vita Fulg. I 4). Chiaramente negli episodi dello scontro vengono meno le considerazioni politiche, economiche e militari dei soggetti agenti.

Instaurato il proprio regno nel Nordafrica, Genserico divenne ben presto una figura importantissima negli equilibri mediterranei e influì di molto sulle vicissitudini dell’Impero d’Occidente: difatti, fra i sovrani barbarici insediati entro i confini di Roma, Genserico fu sotto molti riguardi quello che ottenne i maggiori successi. Quanto alla gestione del regno, a quanto pare, egli operò una serie di riforme: il sovrano doveva essere coadiuvato da ministri e burocrati, in massima parte di stirpe vandalica, ma anche di origini romane. Nella persona del re erano concentrati tutti i poteri, come il comando degli eserciti e l’esercizio della giustizia. Inoltre, solo a lui era consentito elargire donativa, in moneta sonante o in beni immobili, ai propri sudditi.

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Xmal Deutschland: Morning (Will There Really Be)


Tra le macerie di ideologie e culti vivissimi dopo millenni, la forza e la buia percezione è sempre viva.

Xmal Deutschland – Augenblick


Un classicone goth, impressionante e inquietante.

Europa e Russia, una incomprensione di culture in “Arca russa” e “Nostalghia” – Carmilla on line


La Russia è un’arca, una grande nave che deve andare avanti, che deve continuare a navigare e vivere per sempre. L’Europa avrebbe capito ogni cosa, se solo avesse avuto il coraggio di proseguire, di vedere e capire fino in fondo. E anche oggi, questa Europa baldanzosa, irretita nei suoi distruttivi fasti economici e bellici, ambigua e pretenziosa, sembra non riuscire a comprendere la grande arca russa che continua la sua navigazione in mari ghiacciati, fra le spire e le tempeste del tempo, per non morire.

Su CarmillaOnLine il senso di un articolo che richiama i legami storici tra Europa e Russia, divenuti lontani nel momento in cui la Russia abbracciò la dottrina ortodossa di Costantinopoli, contrapponendosi a Roma e ai suoi fidi barbari, arrivati fin oltreatlantico a dettar leggi economiche sempre più ardite.

Gli Unni di Attila – Studia Humanitatis – παιδεία


Su StudiaHumanitatis un passaggio particolare su cosa erano davvero i barbari alla fine dell’età classica, e con cosa venivano effettivamente confrontati rispetto alla decadente ma alta civiltà romana; differenze che sono tuttora ravvisabili nel mondo iperfinanziario dell’Occidente. Un estratto:

Per Attila possediamo uno dei testi più interessanti fra tutti quelli che riguardano Roma e i barbari: il resoconto di Prisco di Panion relativo a un’ambasceria fatta presso la corte di Attila nel 449. Se ne è conservato un lungo frammento che nel X secolo l’imperatore Costantino Porfirogenito riportò nel suo libro sulle ambascerie. Prisco fece parte della delegazione guidata dall’ambasciatore Massimino. Il resoconto evoca con grande efficacia la condizione mentale degli ambasciatori, costretti a dipendere da un interprete di cui diffidavano, disorientati dagli intrighi di corte, obbligati ad attendere per giorni prima di poter avere un incontro e costretti a ritornare continuamente sulle discussioni fatte per cercare di comprenderne il reale significato. Prisco descrive i palazzi di legno del regno di Attila, uno dei quali comprendeva un impianto termale in pietra costruito in stile romano da uno schiavo che aveva inutilmente sperato di ottenere in cambio la libertà. Gli stessi segretari di Attila erano Romani e lessero un documento di papiro su cui erano riportati i nomi di tutti i fuoriusciti unni che si trovavano presso i Romani e di cui Attila voleva la restituzione. Addirittura, Attila era talmente furibondo con l’ambasciatore perché i fuggiaschi non erano già stati riconsegnati da dichiarare che lo avrebbe impalato e lasciato in pasto agli uccelli se non fosse stato che, così facendo, avrebbe infranto i diritti degli ambasciatori[5].

Fu in occasione del suo secondo incontro con Attila che qualcuno si rivolse a Prisco porgendogli il saluto in greco. Prisco aveva già incontrato in precedenza tra gli Unni persone che parlavano il greco, ovvero prigionieri che si potevano facilmente riconoscere come tali dalle vesti cenciose e dai capelli luridi. Ma quest’uomo assomigliava a uno Scita ben vestito e dall’acconciatura curata. Disse di essere un mercante greco di una città sul Danubio; era stato fatto schiavo dagli Unni ma, avendo combattuto per loro, aveva riacquistato la propria libertà; adesso aveva una moglie barbara e dei figli e sosteneva di condurre una vita migliore rispetto a quella di prima. Poi, dato che Prisco ribatté a questo atteggiamento antipatriottico, il suo interlocutore pianse e dichiarò che le leggi romane erano giuste e gli ordinamenti buoni, ma i governanti li stavano corrompendo perché non se ne preoccupavano più così come avevano fatto gli antichi[6]. Dal testo si deduce che Prisco ebbe la meglio nella discussione, ma poco tempo dopo un’argomentazione analoga fu riproposta a Prisco da uno degli uomini di Attila, un Unno che gli ribadì, appunto, il concetto di fondo espresso dall’anonimo greco, sostenendo che essere schiavi di Attila fosse preferibile all’essere ricchi tra i Romani[7]. Prisco e Massimino fecero infine ritorno in patria, ma non senza essere stati prima testimoni di alcuni esempi pratici delle severe leggi di Attila: una spia impalata e alcuni schiavi arrestati per aver ammazzato in battaglia i loro padroni. Nessun’altra fonte di quell’epoca ci offre altrettanti dettagli (e, con ogni probabilità, piuttosto attendibili) sui meccanismi delle ambascerie presso i barbari, sulla vita in mezzo a loro e sulla natura complessa e sfaccettata dei rapporti tra Romani e barbari.

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