Su AxisMundi un lungo articolo che analizza a fondo il capolavoro di William Hope Hodgson, ovvero La casa sull’abisso. Un estratto significativo:
Una discesa agli inferi si tramuta in un vagabondaggio spaziotemporale. Alle soglie del XX secolo la tradizionale catabasi si tinge ormai delle tinte fosche del cosmicismo già einsteiniano. In un universo che ha da secoli perso il proprio centro, W. H. Hodgson tenta per l’ultima volta di gettare uno sguardo d’insieme sul Tutto. La visione che ci restituisce è quella di un universo senza appigli, in perenne marcescenza, dominato da ignote forze che incarnano il caos e la morte, anticipando quelli che saranno gli incubi tipici del nichilismo sepolcrale di H. P. Lovecraft.
L’occasione della narrazione è il ben noto canovaccio del ritrovamento del manoscritto misterioso (altro topos lovecraftiano). Due amici, Berregnog e Tonnison, avventuratisi in campeggio in una zona remota dell’Irlanda occidentale, i cui abitanti, per la maggior parte, non parlano neanche inglese, ma solo un incomprensibile dialetto gaelico, scoprono un prodigioso sperone roccioso, dalla forma vagamente circolare, a picco su una profonda forra carsica, nella quale un torrente si getta con sonori scrosci. Sullo sperone incombente sull’abisso, i due rinvengono i resti di quello che probabilmente una volta era stato un edificio e, più interessante ancora, un manoscritto abbastanza male in arnese, ma in gran parte leggibile, la cui intestazione è, neanche a dirlo, La casa sull’abisso.
E così, esortato da Tonnison, Berregnog dà inizio alla lettura di quello che si scopre essere un diario di strani accadimenti verificatisi in un ignoto passato.
Le vicende sono ovviamente narrate in prima persona dal protagonista, un vecchio sulla cinquantina, ma ancora vigoroso (forse un rimando allo stesso Hodgson), di cui non viene mai rivelato il nome. Questi vive da tempo nella “casa sull’abisso”, con l’unica compagnia della sorella Mary e del cane Pepper. La presenza assidua del cane, in tutti gli episodi in cui si snoda la narrazione, non è casuale, in quanto, come noto, il cane è, in quasi tutte le culture del mondo, l’essere psicopompo per antonomasia. L’abisso che si apre al di sotto della casa non può che rimandare all’accesso del mondo dell’oltretomba. La catabasi, in tal caso, non conduce, tuttavia, nelle viscere della terra, ma, sorprendentemente, negli incommensurabili spazi interstellari.
Le stranezze prendono avvio d’emblée, senza un apparente motivo, in una sera tranquilla. Il vecchio, postosi come di consueto a leggere nel proprio studio, viene sollevato da una forza misteriosa e condotto sempre più in alto e lontano, oltre il pianeta Terra, addirittura oltre il sistema solare conosciuto, finendo per approdare, non si sa bene se con il proprio corpo o con il proprio spirito, in un luogo inimmaginabile: un’ampia pianura chiusa da un anfiteatro di monti nel mezzo della quale spicca, solitaria e silenziosa, una replica esatta della propria casa. Già da questo nel lettore si fa strada l’ipotesi che, più che trovarsi in una diversa parte dell’universo, il protagonista si trovi in un’altra dimensione, collegata alla nostra in modo misterioso, e la cui porta di accesso pare essere proprio la casa (in effetti, il titolo corrente, La casa sull’abisso è improprio: il titolo originale è The house on the borderland: lett. La casa sulla terra di confine).
Ma è ciò che incombe sull’anfiteatro di monti (o l’arena, come ribattezzata dal pensiero del vecchio) a destare, sulle prime, il maggior sconcerto: due giganti terrificanti, che si rivelano essere due antiche, quanto famose, divinità pagane, Set e Kali: il Caos e la Morte, verrebbe da pensare. Sono dunque questi i principi che governano l’universo? Un pessimista come Albert Caraco non esiterebbe a rispondere di sì. Oltre a queste divinità supreme, tuttavia, ve ne sono altre, più piccole, tutte disseminate lungo gli anfratti dei monti. Alcune di esse sembrano familiari, altre del tutto ignote e repellenti:
“Mi girai e guardai rapidamente in alto, tra i foschi dirupi alla mia sinistra. Sotto un alto picco appariva, indistinta, una forma grigia. Mi stupii di non averla già vista: poi ricordai che non avevo ancora guardato da quella parte. In breve, la vidi più distintamente. Era, come ho detto, grigia. Aveva una testa enorme, ma era priva di occhi. Quella parte del viso era informe. Vidi allora che vi erano altri esseri, lassù tra i picchi. Più lontano, semisdraiata su un alto crinale, distinsi una massa livida, macabra e informe a parte la faccia immonda, semianimalesca, che orrendamente occhieggiava a metà del corpo. Poi ne vidi altri, a centinaia. Parevano affiorare dall’ombra. In molti, riconobbi quasi subito divinità mitologiche; altri mi erano ignoti, totalmente ignoti, al di là delle umane possibilità di immaginazione. Guardai da ogni parte e ne vidi altri, e altri ancora. Le montagne pullulavano di esseri fantastici: divinità animali e mostri così orrendi che, se anche avessi la capacità di descriverli, la stessa decenza me lo vieterebbe”.
Lo lessi da adolescente. Bei ricordi.
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