Su AxisMundi la celebrazione dei 45 anni del film La casa dalle finestre che ridono, opera indimenticabile di Pupi Avati di cui, più in basso, potete leggere una abbastanza recente intervista.
La prima paura che ho provato è sicuramente legata alla favola rurale e al rapporto con la morte, che nella cultura contadina ricorre sempre», ebbe modo di confessare Pupi Avati, rivelando la sorgente prima da cui sorse la sua personalissima poetica: quella del “gotico padano”, definizione coniata dagli esperti del settore per descrivere il suo peculiare modo casereccio di fare cinema dell’orrore. Un orrore non notturno e oscuro, ma piuttosto panico e meridiano, che colpisce perpendicolarmente la sua vittima designata (lo spettatore) come il sole al suo zenit nelle campagne dell’Emilia-Romagna. Un terrore atavico che emerge talvolta attraverso le maglie espositive delle fole contadine raccontate intorno al fuoco, le sere d’inverno, dai più anziani ai più giovani: proprio da quell’ascolto, il Nostro seppe distillare materiale prezioso ai fini dell’edificazione del suo personalissimo impianto narrativo orrorifico.
Non alla mera follia psicologica si deve dunque pensare, confrontandosi con il pittore Buono Legnani di La casa dalle finestre che ridono: a un certo punto della pellicola si parla esplicitamente, riferendosi al nefando operato di questi in combutta con le depravate sorelle, di «comunioni sacrificali», di «riti a base di sacrifici umani» e della «possibilità che gli uomini ancora oggi possano trovare contatti con i defunti attraverso queste pratiche», aggiungendo in seguito che i tre erano venuti in contatto con tali pratiche proibite in Brasile, dove avevano trascorso l’infanzia. Attraversando idealmente l’Atlantico e in qualche modo sincretizzando le tradizioni popolari nostrane con quelle afroamericane e caraibiche, Avati prese ispirazione da una serie di allarmi giornalistici di cui, a partire dall’ultimo ventennio del XIX secolo, si occuparono i quotidiani brasiliani: testimonianze sull’esistenza di «sessioni notturne» e di feticcerie, sull’ambiguità delle pratiche e degli strumenti utilizzati – idoli mostruosi, radici sconosciute e liquidi sospetti. Fu allora che si cominciò a parlare di «sacerdoti di culti malefici», «sessioni di possessione» (macumbas) e «associazioni maledette», i cui riti notturni si ispiravano allo spiritismo nero di origine sub-sahariana e all’adorazione degli orixás.
Suggestioni esoteriche ed esotiche che il cinema italiano di quegli anni sfruttò adeguatamente con una manciata di pellicole, a metà strada fra l’horror canonico e il mondo movie, ispirate alle credenze tradizionali e ai rituali ancestrali di quelle popolazioni considerate in qualche modo “primitive” ancora nella seconda metà del XX secolo. Tra i risultati più meritevoli sono da menzionare Il dio serpente di Piero Vivarelli (1970), Il paese del sesso selvaggio di Umberto Lenzi (1972) e Il profumo della signora in nero di Francesco Barilli (1974).
Qual è la chiave di volta della sua cinematografia «fantastica»?
«È anzitutto l’idea che il fantastico conviva con la realtà. Noi tutti nasciamo con un potenziale fantastico enorme, viviamo in un mondo in cui possibile e impossibile sono contigui, ma poi la ragione fa sì che la parte non verificabile venga rimossa. Le persone creative, che mantengono un rapporto con l’immaginario, continuano a giudicare realtà e irrealtà come dotate della stessa dignità. Ammettono, insomma, che l’improbabile possa subentrare al probabile. Sono convinto esista un mondo parallelo, alternativo, nel quale potersi rifugiare e su cui contare. Spesso tace, abbandonandoci al silenzio e al dubbio, ma si propone sempre. Il rapporto con l’immaginario è una tribolazione continua, ma è l’aspetto più vivace, misterioso e sacrale della nostra vita».
È il «Grande Altrove» che fa spesso capolino nei suoi film.
«Per concepirlo, occorre porsi in una condizione di ascolto, partendo anzitutto dalla convinzione che esso esista. Uno stato di assoluta ricettività, basato su un totale indebolimento della ragione. Ne L’Arcano Incantatore (1996), per accedere a questo Altrove il protagonista si fa salassare. È la stessa condizione descritta da Dante all’inizio del suo viaggio ultraterreno, quando parla di un’estrema sonnolenza, una continua spossatezza: è questo stato a renderlo ricettivo. Secondo Robert Frost, il poeta è come una ricetrasmittente; riceve messaggi, e solo nel trascriverli scopre quel che fa. Allo stesso modo, Poe parla della catatonia in cui si trova mentre scrive i suoi racconti, che descrivono sempre qualcosa situato oltre la Realtà. L’ascolto è il pertugio attraverso cui si accede all’Altrove. Lo stesso accade nella preghiera, stato di attesa sacrale nel quale attendiamo l’arrivo di qualcosa di cui non siamo noi gli autori».
Esiste quindi un rapporto tra fantastico e sacro?
«Vede, io credo che la sacralità sia una componente fondamentale della nostra vita. Tutto ciò che sfugge alla ragione, che è misterioso e inesplicabile, mi affascina profondamente. Provo una grande nostalgia per l’educazione preconciliare di quando ero bambino, quella difesa da Cristina Campo, una scrittrice che adoro, che si è occupata molto di liturgia. Un’educazione dotata di una profonda e misteriosa componente sacrale, oggi guardata con diffidenza; il Dio a cui ci rivolgevamo era imperscrutabile. A essere indecifrabile era il Sommo Bene ma anche, in qualche misura, il Sommo Male».
A quest’aspetto è dedicato il suo ultimo lavoro, Il signor Diavolo.
«Il tema è proprio il Male, che ha un’importanza da non sottovalutare. Ho la sensazione che, come il Bene, anch’esso giochi un ruolo significativo nella nostra esistenza. Da questo punto di vista, si può dire che la sacralità del Bene e la sacralità del Male abbiano, in qualche modo, pari dignità. Certo, esiste anche un Male per il Male, privo di finalità apparenti, spesso esercitato dagli uomini di potere. Non saprei definirlo. O è legato a disturbi psichiatrici oppure trova una giustificazione in quell’Oltre di cui ho già parlato, grazie a cui passiamo dal Bene al Male. Ed ecco apparire, nel titolo del film, il signor Diavolo».
È, tra l’altro, un male ormai «normalizzato».
«Vede, un tempo, quando ero piccolo, si praticava il cosiddetto esame di coscienza. La sensazione è che, oggi, non solo nessuno ci induca a compiere quest’autoanalisi, ma che vi sia una sorta di autoassoluzione, una morale prêt-à-porter che trova nell’utile la propria giustificazione. Basta andare in chiesa: durante la Messa, la Comunione viene impartita a tutti. Eppure, nessuno più si confessa. Tutti si autoassolvono o, forse, nemmeno si pongono il problema dei loro peccati. Me ne rendo conto e capisco di essere parte di un mondo che sta scomparendo».
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