HyperHouse
NeXT Hyper ObscureArchivio per Syd Barrett
Ranking every song Syd Barrett wrote for Pink Floyd
22 febbraio 2023 alle 12:21 · Filed under Acido, Creatività, Experimental, InnerSpace, Notizie, Oscurità, OuterSpace and tagged: Luce oscura, Pink Floyd, Ridefinizioni alternative, Syd Barrett, Video
Un articolo corredato di clip video (più sonori che altro) in cui si elenca la produzione di Syd Barrett per i primi Pink Floyd, anche quando non si chiamavano così. Emerge il blues, certo, ma le ultime sperimentazioni hanno aperto un mondo nuovo, in cui i suoi ex soci si sono buttato a capofitto per costruire un universo che prima era solo abbozzato.
During his brief tenure with Pink Floyd, only 22 songs written by Barrett wound up being officially released. Of those, four were recorded when the band was still known as The Tea Set in 1964, and three were shelved after Barrett left the band. Those seven songs never saw a contemporary release, with the tracks not appearing on record until after Barrett’s death. For most fans, Barrett’s entire oeuvre in Pink Floyd consisted of just 15 songs.
For this list, we’ve taken into account every song that Syd Barrett wrote that was officially released during his tenure with Pink Floyd. That includes all the material from Piper at the Gates of Dawn, ‘Jugband Blues’ from A Saucerful of Secrets, the band’s earliest singles, and material from albums compilation albums like 1965: Their First Recordings and The Early Years 1965 – 1972. Here are all of Syd Barrett’s Pink Floyd songs, ranked in order of greatness.
Pleiadees
24 gennaio 2023 alle 20:43 · Filed under Acido, Catarsi, Creatività, Empatia, Energia, Experimental, InnerSpace, Inumano, Onirico, Oscurità, OuterSpace, Quantsgoth, Surrealtà, Tersicore and tagged: Interrogazioni sul reale, Jazz, Luce oscura, Olosensorialità, Pleiadees, Progressive, Ridefinizioni alternative, Soundcloud, Syd Barrett
Come ascoltare la produzione di un SydBarrett maturo e versatile al pari di un JazzClub etereo_prog: Pleiadees, ricordatevi di loro.
Inside Out – La prima autobiografia dei Pink Floyd – Recensioni – SENTIREASCOLTARE
14 gennaio 2023 alle 20:52 · Filed under Acido, Catarsi, Creatività, Empatia, Experimental, InnerSpace, Notizie, Oscurità, OuterSpace, Passato, Surrealtà and tagged: Alan Parsons, John Lennon, Nick Mason, Paul McCartney, Pink Floyd, Ridefinizioni alternative, Ringo Starr, Storm Thorgerson, Syd Barrett
La segnalazione di questo articolo che avevo perso, su SentireAscoltare: InsideOut, la biografia dei Pink Floyd visti da Nick Mason, il loro batterista. Vi lascio alla segnalazione:
Inside Out, ovvero la prima autobiografia dei Pink Floyd, è un libro scritto da Nick Mason, batterista della band britannica nonché – a tempo perso – pilota di auto sportive. Il testo è uscito in origine nel 2004, ma la versione di cui vi parliamo in questa sede è quella pubblicata in inglese – aggiornata con gli eventi occorsi successivamente a quell’anno – nel 2017, e poi ristampata in italiano da EPC Editore a novembre 2018. Tanto per dire che nonostante di questo libro si sappia già molto, rimane comunque una lettura assai piacevole sia per i fan del gruppo che per i meno addentro alle questioni pinkfloydiane.
Pur essendo una “fonte diretta”, Inside Out non è un libro caratterizzato da un approccio enciclopedico: dentro non ci troverete ogni minuto vissuto – nemmeno troppo pericolosamente – dalla formazione britannica. Crediamo volutamente, visto anche l’aplomb tipicamente british con cui Mason tratta soprattutto le questioni più spinose legate alla storia dei Floyd (due su tutte: l’estromissione dal gruppo di Syd Barrett e la separazione conflittuale tra Roger Waters e il trio Mason/Wright/Gilmour più o meno da The Wall in avanti), evitando così di mettere in piazza troppi dettagli – del resto è lui stesso a informarci che una volta finito di scriverlo, il libro ha passato il vaglio e le aggiunte/correzioni dei compagni di lungo corso. I pregi di Inside Out stanno altrove, per esempio in una scrittura ironica e fluente capace di raccontare le fasi salienti dell’ascesa di uno dei gruppi più seguiti al mondo con una verve degna d’un romanziere, e come se fosse la storia di una formazione emergente qualsiasi salita alle cronache quasi per caso: sembra di vederlo, il buon Mason, mentre al pub, tra una pinta e l’altra, ti racconta sghignazzando di quando si spezzarono i tiranti che tenevano fermo il maiale gigante gonfiato a elio che si doveva fotografare per la copertina di Animals, e il suddetto viaggiò autonomamente per i cieli britannici evitando solo per pura fortuna di causare possibili incidenti aerei. Un po’ come se fosse stata una bravata da ragazzini, e non un evento che dimostra l’intraprendenza, il coraggio artistico di un gruppetto di inglesi interessato alla tecnica applicata a ogni campo – del resto i Nostri studiavano architettura – almeno quanto alla musica.
SYD BARRETT: “HERE I GO” – LA STORIA DIETRO LA CANZONE | PINK FLOYD ITALIA
8 gennaio 2023 alle 15:16 · Filed under Acido, Creatività, InnerSpace, Notizie, Oscurità, OuterSpace and tagged: David Gilmour, Lee Harris, Nick Mason, Nick Mason’s Saucerful Of Secrets, Pink Floyd, Ridefinizioni alternative, Syd Barrett, Video
Su PinkFloydItalia i retroscena di una delle song meno conosciute di Syd Barrett: Here I Go. Lascio al post le spiegazioni e rivelazioni nel dettaglio, che mostrano ancora più nel dettaglio cos’era Syd – sotto, il brano remixato da Gilmour con l’aggiunta del basso.
In occasione del compleanno di Syd Barrett, il sito ufficiale ha pubblicato la storia di una delle canzoni più belle di Syd, “Here I Go“, in cui si svelano anche diversi retroscena. A scriverli, è Lee Harris, chitarrista e cofondatore dei “Saucerful Of Secrets” di Nick Mason. Per celebrare questo giorno speciale abbiamo un’esclusiva “storia dietro la canzone”, scritta da Lee Harris – fondatore e chitarrista dei “Nick Masons Saucerful of Secrets”.
Scrivendo di ‘Here I Go’, Lee ha scoperto alcune vere e proprie rivelazioni sulla registrazione della canzone. Anche David Gilmour ha contribuito a questa scoperta.
Godetevi questo articolo e condividetelo per far sì che altri si divertano e ascoltino la canzone!“Here I Go” è contenuta nell’album The Madcap Laughs e fu registrata il 17 aprile 1969 ad Abbey Road nello Studio 2. Secondo il compianto Malcolm Jones, che produsse la canzone, Syd ci mise “una manciata di minuti” a scriverla.
Tuttavia, Joe Boyd ricorda di aver sentito la canzone su un nastro demo nel 1967 e che originariamente si chiamava “Boon Tune” – la frase “what a boon this tune” è infatti parte del testo. Boyd stava producendo una band chiamata ‘The Purple Gang’ nello stesso periodo in cui lavorava con i Pink Floyd su “Arnold Layne”. Syd aveva proposto “Boon Tune” a Joe Boyd e ai ‘Purple Gang’ come loro prossimo singolo, ma la loro casa discografica non era d’accordo con il coinvolgimento di altri autori/editori, così l’idea fu accantonata – anche se ne pubblicarono una versione molti anni dopo.
Il fatto che la canzone fosse già stata scritta almeno due anni prima di essere registrata spiega probabilmente perché Jones presumeva che ci fossero voluti pochi minuti per scriverla. Credo che quei minuti siano serviti a Syd per ripassarla a mente per ricordarsela.
Malcolm Jones ha anche detto che Syd aveva quasi sempre con sé i testi su un supporto, in caso di occasionali vuoti di memoria. Questa è stata l’unica volta in cui ricordo che non aveva alcun foglio di testo”. Forse ha anche cambiato qualcosa, ma non lo sapremo mai perché il nastro demo non esiste più.
Mentre scrivevo questo pezzo, ho contattato il batterista Willie Wilson, accreditato come bassista della canzone. Willie viene da Cambridge e suonava nei Jokers Wild, la band in cui militava David Gilmour prima dei Pink Floyd (in seguito avrebbe suonato la batteria insieme a Nick Mason nel tour di “The Wall”). Willie mi ha raccontato di non aver conosciuto Syd quando era piccolo, ma di averlo conosciuto quando ogni tanto si alzava e suonava ai concerti dei Jokers Wild. La band finì addirittura per suonare nello stesso cartellone dei Floyd, che erano ancora noti come ‘The Tea Set’, insieme a un allora sconosciuto Paul Simon, alla festa di un amico nel 1965.
Nel 1969, mentre si trovava nell’appartamento di David Gilmour a Earls Court, Syd chiese a Willie di andare a Abbey Road per registrare con lui qualche giorno dopo.
Risulta che le note di copertina dell’album e, successivamente, vari libri attribuiscono i crediti in modo errato. In realtà è Willie a suonare la batteria e non Jerry Shirley (famoso batterista degli Humble Pie) e non c’è alcun basso nel brano. Questo è probabilmente ovvio all’ascolto, ma le note di copertina dichiarano il contrario.
Willie – “Dopo che abbiamo registrato due o tre brani, è stato suggerito che il basso avrebbe potuto suonare bene su di esso. Non c’era nessun bassista, ma Jerry, con cui condividevo l’appartamento e che era venuto con me per il viaggio, disse che avrebbe potuto fare un tentativo. Non so da dove provenisse il basso, ma era Abbey Road, con molti ‘armadietti per le attrezzature’. Jerry ha avuto difficoltà a suonare sul brano perché c’erano solo batteria e chitarra, Syd non suonava gli stessi accordi in ogni strofa e inoltre Jerry non era un bassista”.
welcome to the machine / pink floyd [alternate take] | slowforward
6 gennaio 2023 alle 23:17 · Filed under Creatività, Empatia, InnerSpace, Oscurità, OuterSpace, Tersicore and tagged: Pink Floyd, Ridefinizioni alternative, Syd Barrett, Video
Dal blog slowforward una versione demo, ma molto intrigante, di Welcome to the machine dei Floyd. Stupenda, molto.
Pink Floyd-Corporal Clegg, 1968 – Il Canto delle Muse
19 dicembre 2022 alle 17:53 · Filed under Creatività, Experimental, InnerSpace, Notizie, Oscurità and tagged: Guerra, Pink Floyd, Ridefinizioni alternative, Syd Barrett, Video
Interessante la storia che c’è dietro il brano Corporal Clegg dei Floyd, anno ’68, mentre Barrett stava andando via. Ce ne parla il blog CantoDelleMuse:
“Waters era uno dei tanti orfani di guerra che negli anni ’60 stavano facendo i conti con il passato. Antimilitarismo e dolore personale (nel testo si cita l’anno della morte del padre, il 1944) si esternano in forma sarcastica grazie a un testo pungente e irriverente sui controversi schemi mentali dell’esercito, attraverso la figura di un fantomatico caporale Clegg.
Waters: “Corporal Clegg parla di mio padre e del suo sacrificio nella Seconda Guerra Mondiale. C’è un qualcosa di sarcastico: l’idea che la gamba di legno sia un premio che vinci in guerra, come una specie di trofeo”.
Il caporale Clegg ha perso la gamba durante una battaglia ed è costretto a vivere con una protesi di legno (“l’ha vinta in guerra, nel 1944”). Per questo sacrificio immagina di aver ricevuto una medaglia (“color arancio, rosso e blu, l’aveva trovata allo zoo”) e sogna di riceverla dalle mani della regina. Non è dato sapere se il bassista abbia utilizzato colori di fantasia, in ogni caso la medaglia di quel colore era conosciuta come “Burma Star”, attribuita dal British Commonwealth ai reduci della guerra di Birmania. Alla moglie del caporale Clegg, afflitta da alcolismo, Waters chiede se sia orgogliosa del marito, invitandola a concedersi “un altro goccio di gin”.
Le frasi “He won it in the war… in orange red and blue… he’s never been the same… from her Majesty the Queen” rappresentano uno dei rari contributi vocali di Nick Mason. Il brano è infatti uno dei pochi momenti musicali in cui cantano tutti i componenti del gruppo; la voce principale è quella di Gilmour, mentre la parte parlata è affidata a Mason. Ai cori partecipano praticamente tutti e quattro insieme. Sul finale della canzone Nick Mason ripropone la sua voce attraverso una serie di frasi nonsense che rafforzano la sensazione di un caos conclusivo premeditato: alle ripetizioni corali di “Corporal Clegg” il cantato esplode in una fragorosa risata.Non è chiaro se Waters avesse tratto il nome della canzone da un film americano, Captain Clegg (noto anche come Night Creatures, in Italia Gli spettri del Capitano Clegg). Thaddeus von Clegg era anche il nome dell’inventore del kazoo, strumento che viene usato in due diversi momenti della canzone (finale compreso, dove viene coperto dal suono di una sirena di guerra). I Floyd potrebbero essersi ispirati ai Beatles, che simularono il suono del kazoo in Lovely Rita usando un pettine intorno al quale avevano arrotolato la carta igienica personalizzata della EMI (aveva infatti la scritta “Property of EMI” stampata sopra!).
Il Record Mirror del 10 febbraio 1968 annunciò che la canzone era quasi completata e che sarebbe stata pubblicata nel giro di quattro settimane. Notizia peraltro non vera, poiché la sua registrazione richiese più tempo.Il filmato del brano, registrato negli studi della RTB TV di Bruxelles il 18 e 19 febbraio 1968, fu trasmesso il 31 marzo: la band eseguì in playback una versione embrionale della canzone (tutt’ora inedita) in anteprima rispetto alla pubblicazione del disco, trasmessa in vari periodi da diversi canali televisivi. Il 22 luglio 1969 i Pink Floyd furono ospiti del programma per ragazzi P-1, alla TV tedesca SDR, ed eseguirono la canzone nuovamente in playback. Questo filmato promozionale aveva come tema la guerra; la band era ripresa a tavola, con Gilmour a fare le veci del cameriere. I Floyd portavano elmetti militari in un clima che in breve tempo si trasformò in una battaglia a suon di lanci di cibo e torte in faccia, in cui vennero coinvolti anche gli incolpevoli cameramen. A queste scene la regia contrappose alcuni filmati di guerra. “
Pink Floyd – Let There Be More Light (‘Surprise Partie’)
19 dicembre 2022 alle 05:33 · Filed under Acido, Catarsi, Concerti, Creatività, Empatia, Energia, Experimental, InnerSpace, Oscurità, OuterSpace, Party and tagged: Luce oscura, Pink Floyd, Ridefinizioni alternative, Syd Barrett, Video
Un documento d’epoca, parliamo del ’68. I Floyd ancora incerti sul loro futuro postbarrettiano, ma già incisivi – parecchio.
La canzone dei Pink Floyd che pubblicò Marianne Faithfull – Rockol
17 novembre 2022 alle 19:34 · Filed under Creatività, InnerSpace, Notizie, Oscurità, OuterSpace and tagged: Marianne Faithfull, Pink Floyd, Ridefinizioni alternative, Roger Waters, Syd Barrett, Video
Su RockOl una curiosa storia che, confesso, non conoscevo, ed è bellissima; ve la riporto assieme alla song citata – tra l’altro, l’intro lirica è citata, lo so ora, da “YourPossiblePast” di FinalCut, l’ultimo albumo di Waters coi Floyd.
La tragica parabola di Syd Barrett è cosa nota, così come è risaputo l’affetto che i membri dei Pink Floyd hanno sempre avuto nei confronti del loro compagno tanto geniale quanto alle prese con difficoltà personali di quasi impossibile gestione. Syd fu il primo motore della band, ma fu costretto a lasciare il gruppo per affrontare battaglie di altro tipo. In quel periodo Roger Waters scrisse una canzone sulla caduta agli inferi di Barrett. Dopo molti anni Roger Waters decise di regalare a Marianne Faithfull questo inedito.
La canzone non venne mai registrata dai Pink Floyd, ma trovò il modo di essere incisa dalla musicista inglese. Un giorno la Faithfull decise di chiamare Roger Waters e di chiedergli se non avesse dei brani da sottoporle. Waters mise mano al materiale che aveva in archivio e trovò qualcosa che pensava potesse essere adatto a lei.
La canzone venne scritta da Roger Waters nel 1968, l’anno in cui Syd Barrett lasciò i Pink Floyd. Quella canzone si intitolava “Incarceration of a Flower Child” e la melodia era diversa dalle sonorità che contraddistinguevano i Pink Floyd in quel periodo, in più il testo era piuttosto personale. Forse, proprio per questi motivi, la band britannica non la incise.
Marianne Faithfull inserì “Incarceration of a Flower Child” nella tracklist del suo album uscito nel 1999 “Vagabond Ways” (leggi qui la recensione). La canzone fu uno dei brani di maggior successo del disco. Tempo dopo Marianne ne pubblicò una versione demo nella ristampa dell’album. Una versione forse più vicina a come l’aveva pensata Roger Waters quando la scrisse.
The Piper At The Gates Of Dawn – 1967 | FaceBook
6 novembre 2022 alle 10:34 · Filed under Acido, Catarsi, Creatività, Empatia, Energia, Experimental, InnerSpace, Notizie, Onirico, Oscurità, OuterSpace, Recensioni, Surrealtà and tagged: Genio, Luce oscura, Pink Floyd, Ridefinizioni alternative, Syd Barrett
Sulla pagina FB FloydHeart ho trovato questa superba recensione al primo disco dei Floyd, “The piper at the gates of dawn”, dove il genio e la splendida brillantezza di Barrett risaltavano come l’oro alchemico. Vi lascio alle note del recensore:
The Piper At The Gates Of Dawn è l’immaginifico titolo del primo LP targato Pink Floyd, ed implica un rinvio immediato all’elemento visivo dove la band, a trazione Syd Barrett, attua una codificazione dell’immaginario per ottenere una ricodificazione del reale attraverso suoni e forme.
La rivoluzione floydiana fu di quelle che cambiarono la percezione della musica stessa, allargandone i confini, accentuandone quella fluidità di visione propria dei precursori, dei geni.Lo sguardo gettato dalla band all’interno della musica psichedelica esplose proprio con questo primo lavoro ufficiale del ’67, in visioni allo stesso tempo interiori ed esteriori, in suoni deformati dalla percezione e dalle pulsioni lisergiche, con una grande varietà di esperimenti e miscellanee. Non mancano composizioni dalle forme semiastratte, che sembrano create in un seminterrato colmo di alambicchi e sbuffi colorati che si sprigionano da ampolle fumanti, confermando la posizione eccentrica della band nell’allora panorama musicale. Tutto ciò costituiva la fase decisiva del loro obliquo e radicale percorso creativo, con l’introduzione di sonorità e testi dal chiaro stampo onirico fino all’utilizzo di pentagrammi contraddistinti da spessi strati di materia musicale.
Ci si ritrova così ad ascoltare un LP che ha l’obiettivo di scardinare qualsiasi canone conformista, sostituendolo con tratti musicali originalmente onirici ove Syd, poeta evasivo ed inafferrabile, affermava un fatto con estrema convinzione per poi contemplarlo dubbiosamente; ed è proprio questo quel che accade durante tutto l’ascolto dell’album: una continua oscillazione e rimbalzo tra composizioni lisergiche, fantastiche e sognanti, misteri e bellezza nella vita di Syd Barrett. In contrapposizione al bianco e nero dell’allora musica dominante, i Pink Floyd si nutrirono di colore e palesarono il loro disinteresse per un banale paesaggio sonoro, puntando al gioco musicale creato dalla commistione di suoni.
Il risultato è un disco che racchiude, senza riuscire a contenerlo, uno spazio virtuale dentro cui l’ascoltatore fa un viaggio, un vero e proprio invito al nomadismo, dove i Floyd non si imposero come testimoni laterali della scena psichedelica ma come veri e propri protagonisti d’eccellenza.Nei brani come The Gnome, The Scarecrow e Bike, la coesistenza di un infantilismo rivoluzionario e le immersioni visive indotte dalle musiche stranianti sono i campi d’azione principali, vere e proprie acque inesplorate per quell’epoca. Il susseguirsi dei brani, che sgorgano dalla puntina del giradischi, crea un iperrealistico ascensore le cui porte sembrano aprirsi su un ambiente multicolore, dei veri e propri mini-universi come ambienti mentali in cui perdersi. In Lucifer Sam, Matilda Mother e Flaming il genio di Syd e la maestria degli altri tre musicisti mostrano l’impronta originale della loro personalità, con composizioni musicali che non suggeriscono l’emozione dell’attimo, ma danno un senso di durata e stabilità, sintatticamente limpide, dove un orgasmo di tastiere vorticose, giri di basso in picchiata di ottave, tintinnii e assoli di chitarra carichi di feedback conditi da cataclismi cosmici inebriano e mesmerizzano gli ascoltatori.Con undici brani caleidoscopici, scene visionarie di un’avanguardia sfalsata, permeata da immagini stratificate e geometrie compositive rigorose, capaci di indurci allo straniamento nella percezione della realtà, The Piper rappresenta, a pieno titolo, il primo affluente di quell’Endless River che ci ha accompagnato per quasi quarant’anni, forse il momento più sincero e importante di una carriera che vivrà spesso di luce riflessa, emanata proprio da questo faro, che illumina un mondo parallelo in cui la quotidianità privata e la visionarietà dell’artista sono un tutt’uno e dove la nota musicale è già di per sé significato, e non richiede una chiosa per farsi comprensibile.
SYD BARRETT: “HAVE YOU GOT IT YET?” – IL DOCUMENTARIO | PINK FLOYD ITALIA
15 ottobre 2022 alle 15:25 · Filed under Acido, Creatività, Deliri, Empatia, InnerSpace, Notizie, Oscurità, OuterSpace, Segnalazioni, Surrealtà and tagged: Documentario, Have You Got It Yet? The Story of Syd Barrett and Pink Floyd, Interrogazioni sul reale, Luce oscura, Movie, Orian Williams, Pink Floyd, Ridefinizioni alternative, Roddy Bogawa, Storm Thorgerson, Syd Barrett
Su PinkFloydItalia la segnalazione della realizzazione di Have You Got It Yet? The Story of Syd Barrett and Pink Floyd, un documentario che verte su Syd Barrett, il fondatore dei Floyd; ovviamente sono molto gli attori coinvolti, tutti dell’entourage Floyd, tutti coloro che hanno avuto una parte nelle vicende di Syd. Vi lascio a un estratto dall’articolo:
Il documentario esplora l’enigmatico Barrett, che ha scritto i primi due successi dei Pink Floyd e ideato il nome della band. Nel 1968, pochi anni dopo la fondazione del gruppo, Barrett fu costretto a lasciare i Pink Floyd quando i suoi compagni di band si allarmarono per la sua stabilità mentale e l’uso di droghe psichedeliche.
“Barrett abbandonò la musica e tornò a casa, a Cambridge, per gli ultimi 30 anni della sua vita e per il suo primo amore, la pittura“, si legge nel comunicato stampa del documentario. Alcuni dei maggiori successi mondiali dei Pink Floyd – Dark Side of the Moon, Wish You Were Here e The Wall – esaminano i temi della follia e della celebrità, tra cui “Shine On You Crazy Diamond” e “Wish You Were Here”, scritte come tributo a Barrett. Have You Got It Yet? è stato diretto dal pluripremiato regista Roddy Bogawa e dal defunto graphic designer Storm Thorgerson, co-fondatore dello studio Hipgnosis che ha creato alcune delle più famose copertine di album rock di tutti i tempi, tra cui Dark Side of the Moon e Wish You Were Here dei Pink Floyd. Thorgerson conosceva Barrett fin dagli anni ’60.
“Il film è stato completato da Bogawa con il fotografo Rupert Truman degli StormStudios e il produttore Julius Beltrame dopo la prematura scomparsa di Storm nel 2013“, si legge nel comunicato. “Il produttore Orian Williams… è entrato nel progetto mentre era ancora in produzione“. Il documentario, prodotto da Believe Media e A Cat Called Rover, contiene interviste inedite ai membri della band Pink Floyd David Gilmour (amico d’infanzia, e che riempì essenzialmente il vuoto lasciato da Barrett), Nick Mason e Roger Waters, oltre alla sorella di Barrett, Rosemary Breen, ai manager dei Pink Floyd Peter Jenner e Andrew King, a Pete Townshend degli Who, Graham Coxon dei Blur, Andrew VanWyngarden degli MGMT, al drammaturgo Tom Stoppard e ad altri. L’attore Jason Isaacs è il narratore del film.Orian Williams ha commentato: “La parte più difficile nel raccontare la storia di Syd Barrett è stata l’interpretazione del suo processo di armonia e di come l’inaspettata sinergia sonora e la discordanza visiva, entrambe apparentemente casuali, fossero pianificate e ben pensate. Roddy Bogawa ci dà un’idea di come Barrett abbia incanalato il genio, la follia e la sperimentazione nei Pink Floyd, il contenitore in cui tutto ha preso vita ma che ha anche portato via Syd“.