Su AxisMundi intervista a Francesco Corigliano e al suo mondo weird, alla sua saggistica e al suo immaginario autoriale. Un estratto:
Ciao Francesco, nel primo capitolo scrivi che «definire cosa sia la weird fiction, a partire da ciò che è comunemente indicato come tale, è possibile individuando delle costanti ed escludendo progressivamente ciò che non è certamente weird». Puoi riassumerci in breve queste costanti e i generi affini al weird che non vi rientrano?
Inizio col dire che il saggio, dovendo affrontare una materia di difficile definizione, è strutturato in modo tale da cercare un equilibrio tra inclusione ed esclusione. Ho cercato di delimitare abbastanza il campo della ricerca, e al contempo di delineare uno strumento classificatorio che permettesse di riconoscere il weird con il grado di approssimazione più accettabile. Fin da subito mi sono approcciato al weird non come a un genere, ma come a un modo letterario, rifiutando quindi una categoria troppo rigida e cercando di delineare i tratti di un oggetto fluido, di un atteggiamento narrativo, di un’interfaccia organizzativa. Appoggiandomi alle teorie di Ceserani, per definire il modo weird ho individuato dei “paletti” stilistici e tematici: la tematica dell’inconoscibilità del soprannaturale; la narrativa tendente al verosimile; l’utilizzo di procedimenti narrativi di allusione e di omissione. La mescolanza di queste costanti permette di riconoscere il weird, ma ovviamente ciò non significa che esse non possano essere trovate singolarmente in altri contesti letterari. Per esempio, il weird in parte coincide con ciò che normalmente è definito modo fantastico, nel quale si trovano – oltre al soprannaturale – i procedimenti narrativi allusivi e di omissione. Inoltre, è inevitabile che questo modo letterario si infiltri, come l’acqua di un ruscello sotterraneo, tra le pietre di altre categorie letterarie, e che quindi si possa rintracciare all’interno di opere di genere definito (per esempio nella fantascienza o nel giallo) o che si alterni all’uso di altri modi letterari.
Nella seconda parte del testo ti occupi di tre autori specifici. Nel capitolo dedicato a H. P. Lovecraft, sono rimasto molto colpito dal suo rapporto col modernismo, soprattutto in riferimento all’opera di T. S. Eliot. Ci introduci a questo aspetto del sognatore di Providence?
Proprio per le ragioni appena esposte, l’opera lovecraftiana assume un significato particolare. Lovecraft si è sempre definito antimoderno, e dalle sue lettere e dai suoi saggi emerge un ostentato disprezzo nei confronti del modernismo. Non amava Freud, che definiva “il ciarlatano di Vienna”, non apprezzava affatto l’Ulysses, pur riconoscendo in Joyce una grande potenzialità, e dell’opera di Proust – che invece apprezzava – negava il modernismo, riconducendola piuttosto a una vaga “tradizione classica”. Di The Waste Land di T. S. Eliot affermava che fosse un lavoro basato su sforzi “lodevoli nelle intenzioni, ma futili fin quasi all’ironia”. È poi noto che arrivò a parodiare l’opera scrivendo The Waste Paper, un grottesco (e divertente) poemetto che ribalta tutti i punti centrali della poetica di Eliot. Ma in letteratura, si sa, non basta che un autore affermi di ripudiare una corrente, un genere o un concetto. Non ci si può mai davvero fidare di quello che gli autori dicono di se stessi. E allora ecco che, a ben vedere, alcuni dei punti fermi del modernismo emergono nell’opera di Lovecraft. L’inadeguatezza dell’individuo, il grande interesse per culture esotiche e dimenticate, l’apprensione verso le masse popolari, il generale senso di pessimismo e di vuoto nei confronti dell’esistenza: sono tutti elementi che ritroviamo tanto in Lovecraft quanto in Italo Svevo, Virginia Woolf, James Joyce e, naturalmente, T. S. Eliot. Ma anche stilisticamente Lovecraft è più vicino al modernismo di quel che si potrebbe pensare: in una cornice tradizionalista e in un linguaggio volutamente arcaicizzante, è possibile individuare la stessa frammentazione e la stessa ibridazione che caratterizzano il modernismo. Una frammentazione di senso e significato, che lotta e al contempo cerca di addomesticare l’industrializzazione del settore editoriale, che non è così distante da quanto avveniva nel modernismo coevo. E infine, per quanto possa sembrare una forzatura, la conclusione di The Waste Land e la sua sovrapposizione di inglese, fiorentino, francese e infine hindi (“Datta. Dayadhvam. Damyata. / Shantih shantih shantih”) non è concettualmente così distante dalle scatenata tendenza glossolalica di alcuni finali lovecraftiani.
Uno degli aspetti che analizzi dell’opera di Stefan Grabiński è il rapporto alienante tra l’essere umano e la tecnologia. Puoi esporci le tematiche portanti in questo senso? Penso, ad esempio, all’inquietante concetto del grande moto.
Nell’opera di Grabiński il ruolo della tecnologia è molto importante, e va di pari passo con altre tematiche fondamentali, come quella dell’erotismo. Si tratta di elementi declinati attraverso il soprannaturale e ambivalenti: nel raccontare della femme fatale di turno o di un treno fantasma, l’autore insiste sul fascino verso ciò che è inquietante e bizzarro. La tecnologia, che nei racconti di Grabiński è quasi sempre incarnata proprio dall’immagine del treno, è una forza che sconvolge lo spazio e il tempo, rivoluzionando l’approccio dell’individuo al mondo. Spazi interminabili sono percorsi in un batter d’occhio, la potenza della macchina è asservita e imbrigliata, e la velocità aumenta sempre di più, fino alle visioni pseudo-futuristiche del racconto Una strana stazione (1922), nel quale l’autore immagina un treno potentissimo in grado di percorrere il periplo del Mediterraneo in un solo giorno. I vagoni lanciati furiosamente sulle rotaie non sono un emblema del progresso e della vittoria dell’umanità sulla natura, ma piuttosto una potenza a se stante, scatenata e imbizzarrita, che si può cercare di domare temporaneamente. Il complesso concetto del grande moto, raccontato in Il demone del moto (1919), permette di spiegare bene la visione della tecnologia di Grabiński. L’universo è di per sé scosso da movimenti incessanti, spasmi continui e colossali all’interno dei quali si trovano altri scatti minori – il movimento dei pianeti, delle stelle, la forza di gravità e così via. L’umanità, che si bea di aggiungere un nuovo movimento (come il correre del treno), non deve credersi in grado di rivaleggiare davvero con il cosmo: in fondo sta soltanto cavalcando la cresta dell’onda, mantenendosi in precario equilibrio su una forza inimmaginabile che non ha alcuna considerazione per l’individuo e i suoi destini. E perciò in Grabiński possiamo trovare vagoni fantasma, stazioni che si materializzano dal nulla e demoni che abitano nelle locomotive: il treno è come un fantoccio che dà a forze occulte la possibilità di manifestarsi in forma fisica, un idolo di metallo in cui si incarna una potenza cosmica, in grado di schiacciare e annichilire. Al contempo, però, Grabiński non riesce a trattenere il fascino verso l’ingegno tecnologico e i disperati tentativi dell’umanità che, con orari, tabelle, telegrafi e cavi, cerca di domare la bestia del sommo dinamismo. In questo senso non saprei dire se Grabiński, al pari di Lovecraft, sia davvero antimoderno. Forse, è moderno suo malgrado, un testimone ammirato e inorridito di ciò che il progresso può rappresentare.
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