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Archivio per Arthur Machen

Il grande dio Pan | HorrorMagazine


Su HorrorMagazine la recensione di Cesare Buttaboni a “Il grande dio Pan”, di Arthur Machen, un classico edito nuovamente con alcune aggiunte; per cui, ecco Cesare che c’illustra le novità di quest’edizione:

Ma non è solo il romanzo a catturare l’attenzione del lettore. In questa nuova edizione, Ippocampo Edizioni ha incluso anche una serie di racconti che arricchiscono ulteriormente l’universo narrativo di Machen. La luce interiore, La storia del sigillo nero, Storia della polvere bianca e La piramide di fuoco (pur se si tratta di storie note e più volte antologizzate) s’inseriscono perfettamente nel contesto della Londra macabra e misteriosa creata dall’autore, aggiungendo nuovi elementi di terrore e fascino alla narrazione. Le prefazione di Guillermo del Toro aggiunge un ulteriore strato di profondità a questa opera, sottolineando la sua importanza nel panorama della letteratura dell’orrore.
Troviamo poi una preziosa introduzione dello stesso Arthur Machen intitolata in francese ovvero Par-delà le pont des années in occasione della riedizione del romanzo nel 1916 presso l’editore Simpkin. La postfazione di S.T. Joshi ci offre un’analisi approfondita delle influenze di Machen su autori successivi, come H.P. Lovecraft, evidenziando l’impatto duraturo di questo romanzo e dei suoi racconti nel mondo della narrativa fantastica. Infine, le illustrazioni di Samuel Araya completano l’opera, offrendo un accompagnamento visivo che amplifica il senso di inquietudine e meraviglia che permea ogni pagina. Il Grande Dio Pan in questa nuova edizione si rivela non solo un romanzo da leggere, ma un’esperienza da vivere, un viaggio nelle profondità più oscure della psiche umana, dove il terrore e il fascino si fondono in un turbine di emozioni contrastanti. Preparatevi a essere trasportati in un mondo dove il divino e il demoniaco si mescolano, dove ogni angolo nasconde un segreto, dove l’ombra del grande dio Pan attende di essere rivelata.

Il giardino di Pan | HorrorMagazine


Su HorrorMagazine la recensione di Cesare Buttaboni a “Il giardino di Pan”, raccolta di racconti di Algernon Blackwood edita da Providence Press; eccola!

Il giardino di Pan “illustra la convinzione caratteristica, presente in tutto il mio lavoro, che esista un rapporto preciso tra gli esseri umani e la natura”. Algernon Blackwood

Accanto ad Avventure incredibili, Il giardino di Pan (Providence Press) si distingue come l’opera più distinta e intima tra le sue creazioni, incastonando le più limpide cristallizzazioni narrative della sua prospettiva panteistica. Di solito associamo il Dio Pan ad Arthur Machen ma in Blackwood questa divinità (come dimostra questa sua raccolta) rappresenta il simbolo di un terrore panteistico che coinvolge l’intera natura.
Qui, compie un atto di straordinaria generosità: ci svela il mondo attraverso il suo sguardo, donandoci una visione che si erge come un tempio al richiamo del divino. E quale visione ci è concessa: la natura palpitante di Dio, viva e numinosa, animata da una sacralità che inchioda il cuore. La divinità si cela tra le vette illuminate di stelle e neve, nei cuori profondi delle foreste, nell’ampia desolazione del deserto egiziano, e persino nell’oscurità nera lasciata da un fuoco divoratore. La sua visione non conosce una direzione unilaterale; è la Natura nella sua totalità: bella e generosa, ma altrettanto crudele e gelosa. In queste storie, la Natura, in tutte le sue manifestazioni, viene riverita, celebrata, adorata, in un inno di iniziazione e trasfigurazione. Purtroppo da questa antologia è stato omesso il racconto capolavoro The Man Whom the Trees Loved. Omissione di cui non ho capito il motivo. In ogni caso ci sono gli altri due racconti lunghi Sabbia e La tentazione dell’argilla che fungono da cuore pulsante di questa raccolta, incedendo con passi misurati attraverso l’inizio, il centro e la fine del cammino narrativo.

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Carmilla on line | Noi, al sicuro nel Pentacolo Elettrico (Victoriana 46)


Come anticipato qui, è uscito per i tipi del Palindromo un corposo volume sui racconti inerenti a Carnacki, l’indagatore dell’incubo, scritti da William Hope Hodgson; questa è la sontuosa introduzione di Franco Pezzini, leggibile integralmente su CarmillaOnLine; un lungo estratto:

Il successo delle riviste e dell’editoria popolare nell’Ottocento e specificamente nell’età vittoriana è a monte di un fenomeno la cui lunga coda interessa ancora noi oggi, cioè la nascita di una nuova epica popolarissima – diremmo di genere, con caratteri paraletterari o qualche volta pienamente letterari – che avrà strabordante fortuna postmoderna in forma transmediale. Dopo il successo infatti di diluviali saghe di eroi popolari a puntate a metà ottocento con i penny dreadful, la serialità di storie a episodi – annunciata fin dai tempi di Dupin e della Rue Morgue, 1841, con il varo del primo poliziesco moderno (ancora grondante gotico, sia pure) e del primo indagatore per “casi” – vede emergere nuovi modelli di eroi attrezzati, rispetto al passato, a un genere radicalmente diverso di quest. La nuova quest non mira all’orizzonte del sovrannaturale/meraviglioso (il santo Graal…), ma a risolvere misteri essenzialmente umani, legati spesso a un altro nuovo fenomeno già notato da Poe nel proto-poliziesco L’uomo della folla (The Man of the Crowd, 1840): il mistero della vita nella metropoli moderna, di lì idealmente a monte di una serie di romanzi che quel grembo di male notomizzavano in modo più o meno fantasioso, da I misteri di Parigi (Les mystères de Paris, 1842-1843) di Eugène Sue, a infiniti altri meno noti a firma di autori diversi (I misteri di Marsiglia, di Londra, di Napoli, di Pietroburgo etc.).

Nasce così, dalla radice-Dupin poi indefinitamente criticata dai discendenti a smarcare una propria autonomia, il detective seriale moderno: connotato da peculiarità, idiosincrasie, stigmi di eccezionalità che lo rendono più o meno un outsider, come l’Arcidetective Holmes e infiniti altri rivali (usiamo per ora questo termine, capiremo poi perché) eccellenti o miseri, pullulanti in età vittoriana, ma destinati per li rami ad arrivare ai giorni nostri e anzi proseguire oltre. La grande dinastia dei detective seriali (a volte donne, non dimentichiamolo) finisce però col gemmare due altre linee di discendenza: come ovvia conseguenza dei misteri alla Sue, quella dei “casi” di grandi ladri come Raffles o Lupin – che finiscono spesso con l’indagare pure loro, risolvendo vicende criminali, trovando tesori etc. – e quella di indagatori su un fronte del tutto diverso, cioè sovrannaturale-fantastico. Il sovrannaturale-meraviglioso afferiva a un contesto dove era ovvio pensare a santi o cavalieri devoti attivi in vere e proprie indagini, a storie edificanti di miracoli e angeli, al confronto col diavolo; il sovrannaturale-fantastico è figlio invece di un’età laica, dove in questione è l’incertezza di un corpus di casi che sovvertono la visione nota del mondo e la necessità di nuovi “specialisti” – non più religiosi nel senso di chiese fin troppo istituzionalizzate (nel poliziesco classico un caso molto particolare è quello del padre Brown di Chesterton, che però opera anche sul fronte psicologico-morale). Vero, il primo detective dell’occulto moderno, il dottor Martin Hesselius di Le Fanu, precede nel 1869 (poi nella raccolta In a Glass Darkly, 1872) il diffondersi modaiolo dei poliziotti e deve parecchio all’Apollonio del Lamia di Keats, 1820, ma il suo successore immediato e più efficiente, il Van Helsing del Dracula di Stoker, 1897, deve almeno qualcosa a Holmes. A differenza che poi nel cinema e nel fumetto, Van Helsing non è un indagatore seriale, bensì una tantum nell’ambito della vicenda che lo vede fronteggiare la battaglia apocalittica contro l’Anticristo transilvano: ma la sua lezione verrà ben appresa dal personaggio di cui parleremo.

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Il grande dio Pan a fumetti | FantasyMagazine


Su FantasyMagazine la segnalazione della edizione a fumetti di “Il grande dio Pan”, celebre romanzo di Arthur Machen disegnato da Adam Fyda in uscita per l’editore NPE. La quarta:

Verso la fine dell’Ottocento, Londra è sconvolta da una serie di misteriosi suicidi nell’alta società. Tre uomini indagano sulle ragioni di quella singolare concatenazione di eventi, quando uno di loro muore in circostanze oscure Pubblicato nel 1890, Il grande dio Pan è un racconto in cui l’orrore non viene mai descritto chiaramente ma soltanto accennato e lasciato intendere in termini di terrore che suscita in chi vi assiste. In molti hanno ravvisato concetti e stili narrativi divenuti in seguito la cifra stilistica di H. P. Lovecraft. L’autore Arthur Machen, noto per i suoi racconti dell’orrore, del fantastico e del soprannaturale, trascina così il lettore in una tensione crescente. È l’opera più inquietante dell’autore gallese, un romanzo potente ed evocativo che riporta alla luce antiche leggende pagane secondo cui il Male è parte integrante della realtà. A tradurre in immagini queste atmosfere terrificanti è l’artista Adam Fyda che, con i suoi suggestivi bianchi e neri, ritrae i risultati di un folle esperimento scientifico.

L’«Altra Realtà» di Arthur Machen – Axis ✵ Mundi


Su AxisMundi una segnalazione/recensione a Un’altra Realtà. Racconti del Mistero, saggio di Pietro Guarriello sulla figura di Arthur Machen, uno dei massimi autori del weird mondiale; un estratto:

Fino a qualche tempo fa un comune appassionato di letteratura fantastica avrebbe associato il nome di Arthur Machen al Grande Dio Pan e al Popolo Bianco. O, forse, a nessuno dei due. Negli ultimi anni la produzione macheniana sta venendo riscoperta da più prospettive, anche grazie al costante lavoro di Pietro Guarriello e della Dagon Press. Il quarto numero della rivista Zothique, uscito nell’estate del 2020, è interamente dedicato allo scrittore gallese, offrendone una panoramica tanto esauriente quanto approfondita. Come sottolinea Matteo Mancini nella sua dettagliata ricostruzione:

“Era un personaggio che ripudiava il materialismo, completamente disinteressato ai soldi e alle cose materiali, sospettoso circa l’utilità del progresso scientifico, essendo ancorato a valori spirituali che lo portavano a regredire ai fasti di un antico passato, in un crocevia di culture tra paganesimo e cristianesimo, passando dalle tradizioni romaniche a quelle celtiche, per interessarsi più alle cose dell’altro mondo – quello a cui si riferiscono gli occultisti – che a quelle del mondo che scandisce i ritmi e determina le scelte di vita della maggior parte delle persone”.

Un’altra realtà. Racconti del Mistero presenta dodici racconti, una poesia e un saggio perlopiù inediti in Italia, introdotti da un testo di Marco Maculotti e dalle contestualizzazioni storico-editoriali del curatore. Nella puntuale introduzione Maculotti, giunto all’ennesima pubblicazione macheniana in pochissimi anni, rileva i tratti biografici principali dell’autore, la stima profonda di Howard Phillips Lovecraft nei suoi confronti, nonché l’utilizzo dell’idioma inquietante definito gaelico cosmico o lingua delle fate.
I racconti, che coprono un arco temporale di quasi cinquant’anni, sono fortemente caratterizzati da un velo di mistero e da un’aura di alterità rispetto al mondo materiale. Del resto, all’inizio del saggio che dà il titolo alla raccolta, Machen scrive senza mezzi termini: «Le persone certe che non ci sia nient’altro, oltre alla materia, sono mediocri; e proprio il muro contro cui si appoggiano si comporta in maniera strana, minacciando di volger loro le spalle prima in direzione dell’energia, e poi della mente».

Non stupisce dunque che uno dei temi centrali della raccolta risieda nel rapporto con sé stessi e nella ricerca della propria individualità. In Johnny e il doppio, uscito nel 1928 e definito da un recensore dell’epoca come un racconto «abbastanza insolito da regalare un brivido», Machen indaga la figura del Doppelgänger attraverso un giovane protagonista in grado di sdoppiarsi e di trovarsi contemporaneamente in due posti differenti, talvolta in degli scenari macabri. La metafora del doppio viene affrontata da un’altra prospettiva in uno dei testi più brevi del volume, Psicologia, pubblicato nella raccolta Ornaments in Jade nel 1924, composta da dieci mistici poemi in prosa. In questo intenso frammento Machen relaziona il contesto di un tranquillo quartiere di Londra con le convulse riflessioni esistenziali di uno scrittore, animate dalla rabbia, dal sogno e dalla follia. La narrazione, che ruota attorno all’insondabilità profonda della natura umana, si conclude con una domanda paradossale: «E ogni giorno […] conduciamo due vite, e la metà della nostra anima è follia, l’altra metà un cielo illuminato da un sole nero. Dico di essere un uomo, ma chi è quell’altro che si nasconde dentro di me?».

La nostra recensione di “Il giardino del n.19” di Edgar Jepson | HorrorMagazine


Su HorrorMagazine la recensione a Il Giardino del n. 19 di Edgar Jepson, edito da Dagon Press. Si tratta di un romanzo amato da Crowley e che ha risvolti weird intensi; vi lascio a un estratto della rece di Cesare Buttaboni.

Il libro fu pubblicato nel 1910 in omaggio ad Arthur Machen, molto amico dello scrittore,  quasi fosse una sorta di risposta a Il grande dio Pan. Ora Dagon Press lo rende finalmente disponibile in italiano nella collana I Magri Notturni.

A leggerlo oggi, Il giardino del n. 19 mantiene il suo fascino oscuro e sulfureo e, secondo l’esperto di narrativa soprannaturale John Pelan, con quest’opera Jepson raggiunge la stessa potenza espressiva di  Machen e Blackwood. E, anche se Jepson non possiede né lo stile letterario del primo né la capacità di creare una genuina atmosfera soprannaturale del secondo, bisogna ammettere che l’affermazione di Pelan non è lontana dal vero. A tratti, nel romanzo si respira la stessa tensione del citato Il grande dio Pan.

Il protagonista John Plowden, un giovane avvocato, acquista un’abitazione al numero 20 di Walden Road, in una zona periferica di Londra. Qui, crede,  potrà finalmente vivere in pace. Ma la sua tranquillità viene messa a dura prova da rumori spaventosi provenienti dal vicino giardino del numero 19. Ha inizio così una serie di avvenimenti inquietanti che lo portano a fare la conoscenza del signor Woodfell e di sua figlia Pamela. Su tutto, aleggia una terrificante statua di Pan.

La nostra recensione di “Un’altra realtà” di Arthur Machen | HorrorMagazine


Su HorrorMagazine la recensione a Un’altra realtà, volumetto antologico di Arthur Machen curato da Pietro Guarriello per i tipi di DagonPress. Un estratto:

L’arco temporale di questa antologia va dal 1890, anno di pubblicazione di Il grande dio Pan, fino al 1937, anno in cui Machen smette di scrivere.
I racconti qui pubblicati sono inediti o minori, ma non per questo non degni di interesse. È anzi forse in queste righe che possiamo trovare il Machen più autentico, oggi ritenuto uno dei maestri del genere. La sua prosa decadente e misurata, lontana da quella fin troppo carica di aggettivi e immagini deliranti di H.P. Lovecraft, si inserisce a pieno titolo nel solco della tradizione letteraria fantastica anglosassone.

Machen deve oggi la sua fama ai racconti del terrore e soprattutto al più famoso Il grande dio Pan, un romanzo potente ed evocativo che riporta alla luce antiche leggende pagane ed è basato sul concetto del “male” come parte integrante della realtà. È questa una tematica che lo scrittore affronterà con molta efficacia all’inizio del racconto Il popolo bianco (The White People), con cui raggiunge vette altissime anche grazie all’utilizzo sapiente di un’atmosfera realmente maligna.

Rispetto ad Algernon Blackwood e ad altri autori del genere, in Italia Machen ha incontrato un maggior consenso: sono infatti numerose le pubblicazioni a lui dedicate (un esempio sono Il cerchio verde pubblicato da Providence Press e Un frammento di vita delle Edizioni Hypnos) e per nostra fortuna si continua a rendere disponibile materiale inedito ed edito come dimostra questa deliziosa raccolta.

Hypnos. Rivista di letteratura weird e fantastica. Vol. 13 | HorrorMagazine


Su HorrorMagazine la recensione di Cesare Buttaboni al numero 13 della rivista Hypnos, pubblicazione dedicata ovviamente al weird. Un estratto:

Non ci sono dubbi, il nuovo numero di Hypnos è un’autentica bomba per gli appassionati di narrativa horror!
In copertina campeggia il nome di Ramsey Campbell, da qualcuno considerato (come nel caso dell’esegeta di H.P. LovecraftS.T. Joshi) come il più grande scrittore horror vivente. Si tratta di un punto di vista opinabile ma indubbiamente Campbell è un gigante del genere e c’ha pensato Edizioni Hypnos, pubblicando di recente la novella “lovecraftiana” L’ultima rivelazione di Gla’aki, a rinnovare l’interesse per quello che è un maestro dell’horror contemporaneo, con all’attivo romanzi iconici come La bambola che divorò sua madre (1976), La faccia che deve morire (1979) e La setta (1981).

Questo numero 13 della rivista risulta così un’occasione succulenta per i seguaci di Ramsey Campbell: ci vengono proposti un’intervista (con domande di Andrea Vaccaro, Ivo Torello e Matteo Carnio) e uno splendido e pauroso racconto inedito intitolato Lo schema.
Ma questo numero di Hypnos non si ferma certo a Campbell e ci presenta alcuni racconti assolutamente degni di interesse. In particolare ho trovato notevole Egnaro di M. John Harrison, autore che deve molto alla tradizione di un autore come Arthur Machen che viene da lui riletto in maniera originale. A me personalmente questo racconto ha ricordato anche qualcosa di Borges anche se su un piano più weird e di genere.

L’importanza de “La casa sull’abisso” di Hodgson nell’evoluzione dei Miti di Cthulhu – Ver Sacrum


Su VerSacrum la recensione di Cesare Buttaboni a uno dei pilastri della letteratura fantastica mondiale: La casa sull’abisso, di William Hope Hodgson.
Perché questo testo è così importante? Perché è uno dei primi esempi di cross-over tra generi, weird e SF si danno la mano in un compendio che prevede anche le future incursioni di Lovecraft, dove l’oscurità è sì un luogo dell’anima, ma anche fisico, siderale, un incubo…

La casa sull’abisso è un romanzo “incubo” che descrive le angosciose vicissitudini di un “Recluso”, abitante, assieme alla sorella e al cane Pepper, di una casa irlandese sperduta, situata in una regione ignota alle cartine geografiche nei pressi del villaggio di Kraighten: la casa diventa il fulcro dove si scatenano allucinanti e diaboliche potenze extra-cosmiche che assumono la forma di orripilanti creature dall’aspetto suino, simbolo dei fantasmi che si annidano nella psiche umana portati alla luce da Freud, dimostrazione dell’estrema modernità dell’opera “hodgsoniana”. La casa, con le sue stanze, è una sorta di metafora dell’essere umano: la parte superiore aspira al cielo e al Paradiso mentre la cantina simboleggia invece il lato più oscuro in cui si annidano gli inferni personali che celano i mostri nascosti nell’inconscio.

L’atmosfera che si respira è di una solitudine metafisica assoluta che rende l’opera unica nel suo genere: il Recluso si dedica allo studio e passa molto del suo tempo nello scrittoio. Un giorno la sorella viene attaccata dalle misteriose creature suine: è l’inizio di un assedio spietato in cui il Recluso si difenderà con ogni mezzo prendendo a fucilate i mostri. A questo punto inizia un’accurata esplorazione dei dintorni della casa: scopre che la casa è sospesa per mezzo di una roccia su un pozzo di una profondità insondabile: un vero e proprio Abisso. Esplora poi le cantine dove scopre una botola di quercia che protegge la casa da un enigmatico pozzo: scoprirà poi che si tratta di un prolungamento dell’Abisso.

Nel corso delle sue disavventure il Recluso avrà delle terrificanti “visioni” in cui la casa viene riprodotta su scala gigantesca ed è assediata da un enorme essere suino di colore verde. In un’altra allucinazione “vede” – in un vero e proprio viaggio al di là del tempo e dello spazio – il collasso del sistema solare e della terra e verrà catapultato al centro dell’universo dove si troverà di fronte due soli, uno nero e uno verde: questa “visione” rappresenta qualcosa di realmente incredibile: è l’essenza stessa dell’orrore cosmico e prefigura e supera molta fantascienza successiva. Dal sole verde si staccano dei globi in cui riesce a penetrare e a ”vedere” la sua” amata” e a trovare la pace in una sorta di limbo chiamato “mare del sonno”. Da quello nero fuoriescono globi oscuri che lo proiettano in una sorta di Inferno denominato “La pianura del silenzio” dove vede la casa assediata dalla creatura gigantesca e vi entra all’interno. Qui termina il suo viaggio “iniziatico”, ricco di simbolismi a cui alludeva lo stesso Hodgson all’inizio del testo. Il viaggio metafisico e temporale del protagonista è quello che si definisce un vero e proprio “viaggio astrale”. Non è così sorprendente questo aspetto “occulto” del romanzo tenendo conto che queste tematiche erano all’epoca molto diffuse: basti pensare alla notorietà di un personaggio come Crowley e alla celebre Golden Dawn, società segreta basata sulla Qabalah di cui però Hodgson, a differenza di Arthur Machen e altri nomi celebri, non ha mai fatto parte.

Gli abissi che si celano sotto la casa da cui fuoriescono gli esseri extra-terrestri sono una metafora degli insondabili segreti dell’inconscio umano.  La casa sull’abisso è un’opera ricca di riferimenti ermetici ed esoterici: il libro può essere “letto” sia su un piano microcosmico che su quello macrocosmico. Non a caso il celebre critico Jacques Van Herp l’ha definito “un piano d’interpretazione di altri piani”, definizione quantomai calzante che coglie in pieno l’atmosfera “incubica” del romanzo. La casa si trova “on the borderland” ovvero sul confine su altre dimensioni ignote del reale. L’edificio rappresenta il microcosmo, sorta di “piccolo Inferno” personale del protagonista mentre il modello gigantesco dell’edificio nella Pianura del Silenzio che il Recluso scorge nella sua “visione” simboleggia il macrocosmo. La struttura dei diversi “piani” e modelli della casa sembrano riflettere le parole del grande Ermete Trismegisto: “ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per fare i miracoli della realtà una”.

Il Creatore di Ombre | HorrorMagazine


Su HorrorMagazine la recensione di Cesare Buttaboni a Il Creatore di Ombre, romanzo di Jack Mann (pseudonimo di E. Charles Vivian) uscito negli anni ’30, quindi con stili e tematiche di quasi un secolo fa ma che, in fondo, sono ancora in grado di dire la loro. Un estratto:

L’interesse di questa ristampa sta, a mio avviso, nella trattazione della tematica “delle razze perdute e del folclore gaelico” temi cari, come giustamente fa notare Bernardo Cicchetti (curatore e traduttore dell’opera) nell’introduzione, a scrittori come Rider Haggard, H.G. Wells e Arthur Machen. Sempre Cicchetti si chiede se questo tipo di romanzi siano ancora leggibili o se forse siano troppo datati.

Ebbene Il creatore di ombre qualche genuino brivido soprannaturale lo regala ancora oggi pur tradendo il trascorrere degli anni. Non mancano tuttavia nelle sue pagine riflessioni affascinanti quando mette in luce come, nella frenetica vita moderna, continui a prosperare un sapere esoterico di culture antiche e dimenticate. Siamo comunque di fronte ad un autore da riscoprire che risulta perfetto per i cultori del weird classico.

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