Sul blog di Andrea Scarabelli c’è una bella recensione a La valle perduta, il secondo racconto di Algernon Blackwood recuperato dall’oblio in queste settimane ultime settimane (l’altro è qui).
Cos’ha di speciale quest’autore misconosciuto nelle italiche terre? Vi incollo alcuni passaggi del recensore, tanto per farvi capire la grandezza e la lungimiranza dell’interpretazione weird blackwoodiana.
Un’atmosfera che emerge anche in questo racconto, apparso nell’omonima raccolta The Lost Valley (1910) e pubblicato per la prima volta in italiano nella traduzione di Annalisa Roffinengo, declinandosi nel fascino spettrale dei luoghi, in un singolare accordo tra geografia esteriore e geografia interiore. Un aspetto che Blackwood, come nota Pietro Guarriello nella sua introduzione, sperimentava in prima persona prima di mettersi a scrivere, lasciandosi catturare da quelle geografie ben prima di imprimerle su carta. La scelta di inserire in appendice il saggio La psicologia dei luoghi si muove proprio in quest’ottica. Perché è il genius loci, vero protagonista di questo racconto intenso e struggente, a stagliarsi dietro due gemelli, identici in tutto e per tutto, che compiono un’escursione sulle Alpi, imbattendosi in una leggendaria quanto sinistra Valle Perduta, «dove gli spiriti dei suicidi, o di chi è morto di morte violenta, trovano la pace eterna, quella pace che è negata loro in tutte le altre religioni». Un luogo antichissimo e misterioso che finirà per intrecciare ulteriormente i loro destini: un’amara riflessione sul senso della vita e del tempo, ma anche un messaggio di speranza rivolto a chi crede che il senso delle cose non è solamente materiale, e che il segreto di un istante può schiudersi solo nell’Eterno.
È un percorso tortuoso e ricco di salti dimensionali a spingere i protagonisti in un viaggio che, partendo da contrade note, si conclude nei recessi della loro anima, un cammino che dal finito si inabissa nell’aldilà e nell’eternità. I due gemelli, insomma, finiscono per sollevare il velo di Maya, andando oltre l’apparenza delle cose: non hanno parole per descrivere quest’esperienza, ma è ovviamente un trucchetto di Blackwood, la cui penna restituisce appieno il senso del transito, in pagine auree ed affilate. Qualche esempio?
«La profondità della valle si apriva come un’inquietante ombra sotto i suoi piedi; si snodava morbida e scura, in contrasto con la luce del sole. Dalla massa boschiva si levava solo un unico mormorio, come il brusio delle voci che aveva sentito in sogno, pensò. Il fruscio dei singoli alberi si fondeva in un unico suono. Una pace, antica e profonda, risiedeva in quella valle, e il suo bisbiglio gli addolciva lo spirito».
Oppure:
«La tristezza dell’autunno era presente tutta intorno a lui, e la solitudine di quella valle nascosta gli parlava della malinconia di ciò che muore – le primavere che finiscono, le estati insoddisfatte, le cose incomplete e che non appagano. Pensò che quella valle non avesse mai conosciuto presenza umana».
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.
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