Recensione all’ultimo romanzo di ValerioEvangelisti, mai troppo considerato un grande.
Questo terzo volume conclude l’imponente trilogia sulle vicende della Romagna tra l’Ottocento e la metà del Novecento (qui e qui le recensioni agli altri due volumi). Un romanzo sui generis nel panorama letterario italiano, una storia collettiva raccontata attraverso l’esperienza di famiglie romagnole che si trovano, loro malgrado, ad attraversare la Storia ufficiale, quella segnata dalle date e dagli avvenimenti simbolici. Il più delle volte, a subire il peso di una Storia che travolge i destini delle popolazioni. Lungi da una rassegnata passività, però, le famiglie contadine raccontate in questa epopea moderna reagiscono e cambiano il corso di questa storia, si infilano negli interstizi del potere, si adattano alle circostanze, le sconvolgono, attuano forme di resistenza esplicita o implicita, insomma formano quella storia di cui sono al tempo stesso protagoniste e vittime, ma mai ignare spettatrici. In questo volume i discendenti di Attilio Verardi e Rosa Minguzzi vivono alcuni dei momenti più tragici della storia nazionale: la lenta ascesa del fascismo come reazione agraria alla forza operaia e contadina del biennio rosso, i lunghi anni del regime e infine la lotta di Liberazione vista qui attraverso particolari vicende romagnole, eterodosse ma al tempo stesso capaci di descrivere la complessità del fenomeno resistenziale. La tesi di fondo è però la stessa in tutti e tre i volumi della trilogia: per le classi subalterne la storia si cambia solo attraverso l’uso consapevole della forza. Non è un caso che il secondo volume abbia, come sottotitolo, l’affermazione: chi ha del ferro ha del pane, che costituisce il vera messaggio di fondo dell’intera trilogia. In quest’ultimo lavoro, la passività con cui la sinistra italiana assiste all’avanzata della reazione agraria e fascista, la fiducia cieca di un certo “socialismo” nelle istituzioni, nelle garanzie di una democrazia liberale vista come dato acquisito, un certo riformismo “contadino”, sono alla radice della sconfitta operaia e contadina degli anni Venti. Il fascismo poteva essere fermato, e solo l’ottuso riformismo pacifista della sinistra dell’epoca impedì di stroncare un fenomeno che aveva le sue determinate ragioni di classe, ma non aveva i caratteri dell’inevitabilità. Poteva – e doveva – essere evitato.
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