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Archivio per giugno 26, 2018

Il Connettivismo, corrente letteraria dei nostri tempi. Giovanni Agnoloni: «Movimento tra umanesimo e scienza» – toscanalibri


Su ToscanaLibri è uscita una bella intervista a Giovanni Agnoloni, che ha parlato diffusamente dei connettivisti. Un estratto significativo in cui Giovanni sintetizza assai bene l’essenza del Movimento.

I connettivisti si autodefiniscono nel manifesto “rabdomanti cibernetici”, ma sulle pagine del sito (www.next-station.org), abbandonati i toni lirici, si presentano come «un collettivo di appassionati di generi letterari, attivi in vari ambiti e con varie mansioni (nella scrittura, nella critica, nell’arte)». Quando e perché è nato il Connettivismo e quali generi coinvolge?

«Il Connettivismo nasce nel 2004 dall’interazione in Rete dei suoi tre fondatori, Sandro Battisti, Giovanni De Matteo e Marco Milani. Varie esperienze su diversi blog ed e-zines convergono in un flusso di pensiero che si ispira all’immaginario cyberpunk, goth e di generi viciniori, fino a trovare una sintesi nel manifesto, stilato principalmente da De Matteo e concepito non come decalogo “vincolante”, ma come una serie di suggestioni poetiche che delineano un alone percettivo in cui qualunque artista (non solo in ambito letterario, ma anche musicale, grafico e architettonico) può spontaneamente riconoscersi. Si tratta dunque di un movimento aperto, e sia pur ben cosciente delle proprie caratteristiche, che attingono ora dall’immaginario futurista, ora da quello crepuscolare, ora da quello surrealista, ma sempre con il punto di fondo di coniugare in un’indagine coerente la sensibilità umanistica e quella scientifico-tecnologica.

Various Artists – Asian Meeting Recordings #1 | Neural


[Letto su Neural]

Sono otto le tracce registrate al GOK Sound di Tokyo sotto la supervisione di Dj Sniff e Yuen Chee Wai e gli artisti coinvolti – possiamo affermarlo con cognizione di causa – sono a tutti gli effetti fra le realtà più interessanti della scena asiatica, un vero e proprio network centrato su musicisti e organizzatori indipendenti, un ambito che prescinde alquanto dai tradizionali generi autoctoni ma che pure mantiene distintiva la comprensione di quelle che sono le contingenze ed i bisogni culturali delle molteplici regioni di quel continente, dove svariate problematiche sono intrecciate in maniera spesso difficilmente valutabile senza una precisa contestualizzazione. The Asian Meeting Festival – che è la fucina di questo operare – fu inaugurato nel 2005 da Otomo Yoshihide e le speranze ben riposte di promuovere una solida interazione creativa lo hanno portato rapidamente a diventare uno dei più importanti festival di musica sperimentale, improvvisazione e noise di quella vasta e affascinante area geografica. Dj Sniff (Takuro Mizuta), che è conosciuto in Europa principalmente per la sua maestria nel turntablism, è stato anche il direttore dello STEIM di Amsterdam, un centro focalizzato sulla ricerca e lo sviluppo di nuovi strumenti musicali per le arti performative elettroniche, istituzione che sotto la sua guida ha prodotto oltre un centinaio fra concerti e progetti artistici di residenza. Adesso, in questa raccolta che sintetizza l’edizione 2017 dell’evento asiatico, c’è da perdersi nell’intreccio di collaborazioni messe in atto, con musicisti come Ryoko Ono, Ko Ishikawa, Son X, KΣITO, Yuji Ishihara, Tavito Nanao, Yong Yandsen, Jojo Hiroshige, Kimiya Sato, Ai Watanabe, Kok Siew-Wai, Nguyen Hong Giang, Krisna Widiathama e &c. &c, oltre ai tre già citati curatori, che si prestano altrettanto proficuamente anche per vitalissime session. Per nulla influiscono le barriere linguistiche o le tensioni politiche tra i differenti stati di appartenenza degli artisti, quello che conta è proprio l’incontro delle multiformi esperienze, che in particolare nell’ottica di una libera improvvisazione riescono a far coesistere anche eterogenee estrazioni musicali. La sperimentazione contemporanea in Oriente forse non procede su un’unica via – e come potrebbe? – ma sicuramente la forte unità d’intenti favorisce una sua positiva diffusione fuori dei singoli confini nazionali.

Sandokan vs Il Duce: come la politica si appropria delle opere d’arte | L’indiscreto


Su L’Indiscreto un lungo articolo che si può sintetizzare così: in ogni momento storico, esistono aree culturali contrapposte che sopravvivono, s’intersecano, si combattono, così da garantire comunque una continua trasmissione culturale attraverso le epoche e gli eventi storici, diventando quindi patrimonio, anche, degli schieramenti ideologici opposti.

Noi stessi siamo gli eredi del nostro io passato, e possiamo costantemente tornare alle nostre esperienze precedenti, anche narrative, rileggendole con occhi modificati, e quelle esperienze inevitabilmente ricorriamo per leggere il presente, dalle battute condivise con gli amici alle categorie con cui ci concepiamo nel mondo. E il dibattito collettivo a sua volta evoca costantemente quello stesso immaginario, per metafore, analogie, parodie.

Narrazioni condivise e nuove mitologie con cui le ultime generazioni sono cresciute, vengono brandite addirittura come armi della delegittimazione politica. E, naturalmente, se sia la destra che la sinistra possono richiamare l’Imperatore Sith di Star Wars per attaccare rispettivamente il Presidente Mattarella o Berlusconi, l’Europa “di Bruxelles” o il Pontefice sulla morale sessuale, sorge la questione su cosa voglia effettivamente dire vedere o leggere un mito, una vicenda archetipica, solitamente di grande impatto e vasta condivisione. Perché di questa particolare tipologia narrativa si tratta, e non di altre tipologie, non perché si tratti di opere più superficiali, schematiche o infantili, sebbene questi tre aggettivi puntino comunque nella direzione giusta, seppure in un’accezione negativa che non è affatto necessaria.

Molti hanno registrato con turbamento come non ci sia mai stata una tale profusione di produzioni artistiche che esprimono la complessità del reale, la varietà culturale, che sfidano e ribaltano gli stereotipi sociali, sessuali, religiosi, eppure i loro stessi spettatori, lettori e fan entusiasti spesso, quando si arriva alla politica, possono sostenere candidati e visioni del tutto diverse e spesso brutalmente antitetiche a quanto hanno invece applaudito sullo schermo o sulla pagina scritta, e magari a sventolare quelle medesime storie in tal senso.

Questione complessa, che arriva persino a strani ribaltamenti concettuali, per cui un razzista sprezzante come Lovecraft non viene citato solo in qualche convention alt-right ma trionfa sulle labbra dei nerd ai vari Comicon (assai più propensi a guardare con favore a questioni come l’immigrazione che invece costituivano, per il Solitario di Providence, l’essenza stessa della decadenza contemporanea) e Tolkien, che pur da monarchico e cattolico-conservatore ebbe parole nettissime sul nazismo, ancora oggi vedrebbe campeggiare il verso dedicato ad Aragorn -“Le radici profonde non gelano”- in un  profluvio di volantini dell’estrema destra italiana.

1984 in versione informatica | Fantascienza.com


La capacità di rimappare il reale di Charles Stross è stupefacente, un vero artista che s’interroga su ogni aspetto della nostra vita tecnologica e non solo, mettendoci sempre dentro un’anima ribelle. Su Fantascienza.com la segnalazione di una sua nuova pubblicazione, Il grande fratello di ferro, con DelosDigital. La sinossi:

Sarebbe stato diverso l’anno 1984 immaginato da George Orwell aggiungendo la variabile “computer”? Meno di quanto si può pensare in realtà. Perché se da una parte l’informatica potrebbe garantire nuovi strumenti per garantire al Socing il ferreo controllo della società, dall’altra le sue stesse regole – per esempio, considerare reato anche solo ammettere la possibilità che il software del Computer possa contenere bug – finirebbero per diventare limiti al suo potere.

Il personaggio O’Brien immaginato da Charles Stross non lavora riscrivendo i giornali come quello di Orwell, ma sta tutto il giorno dietro una tastiera. Ma anche lui, come il suo originale, non è solo ciò che sembra essere.

Quantified Self Portrait (One Year Performance), intimate flows | Neural


[Letto su Neural]

Nella media art c’è un intero filo conduttore nel definire un ritratto non come un volto, ma solo tramite dati intimi collegati in modo univoco alla persona. Poiché la nostra identità burocratica è fatta esclusivamente di dati digitali, come la maggior parte della nostra socialità mediata, questa pratica riflette progressivamente la nostra natura quotidiana. Michael Mandiberg è sempre stato attento ai cambiamenti nelle nostre strutture quotidiane, sviluppando opere d’arte con una cura quasi ossessiva. Nel suo “Quantified Self Portrait (One Year Performance)” mostra un video a 3 canali, fatto di fotografie davanti allo schermo e screenshot prodotti ogni quindici minuti da software personalizzati, per una performance di un anno, e alcune riflessioni testuali chiave. Il risultato è un’identificazione con la prospettiva del laptop e il carico di lavoro, mentre le riflessioni più lente interrompono il flusso dei coinvolgimenti con lo schermo, fornendo una delle possibili strategie di fuga individuali.

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Contemporary resonances of calm and slow music

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