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Archivio per ottobre 16, 2018

Nuova tappa del SensoriumTour, a Ostia il 19 ottobre (second seal)


Riparte il SensoriumTour con una tappa alla libreria Orto dei Libri, che Giorgio Galli ha recentemente riaperto a Ostia in via Diego Simonetti 70; venerdì 19, alle ore 17.30, con Ksenja Laginja come illustratrice e con Sonia Caporossi come moderatrice presenteremo il progetto di sesso quantico Sensorium, raccolta di miei racconti a tema edita da Delos Digital tramite la sua collana cartacea TukTuk. Qui l’evento FaceBook.

Ci vediamo lì?

Sette voli senza rete nel mondo dell’eros del futuro, del transumanesimo, del postumanesimo, dell’eterotopia connettivista. Dove il godimento si alterna all’acuto dolore puro e dilaga tormentosamente in ogni vibrazione quantistica dell’essere. Il sesso quantico: un piacere che risuona nel continuum.

Dal vincitore del Premio Urania Sandro Battisti, il più lirico tra gli autori del movimento Connettivista, una collezione di brevi racconti erotico-fantastici.

Suspiria: il poster svela la data di uscita del film | HorrorMagazine


Su HorrorMagazine la data di uscita del remake di Suspiria, a opera di Luca Guadagnino (Gennaio 2019), e un secondo terrificante teaser psichico della pellicola. L’hype cresce…

Sinossi: In questo scioccante horror psicologico, l’ambiziosa danzatrice americana Susie Bannion arriva a Berlino negli anni ’70 con la speranza di entrare nella rinomata Compagnia di Danza Helena Markos. Già dalla prima prova, Susie, col suo talento, sbalordisce la famosa coreografa Madame Blanc, guadagnandosi il ruolo da prima. Olga ha un crollo emotivo e accusa le “Madri” che dirigono la compagnia, di essere delle streghe. Prima che possa fuggir via, però, viene catturata e torturata da una forza misteriosa, legata in qualche modo alla danza di Susie. Durante le prove per l’esibizione finale “Volk”, Susie e Madame Blanc si avvicinano sempre di più, rivelando come l’interesse di Susie per la compagnia vada oltre la danza. Nel frattempo un anziano psicoterapeuta, il dottor Klemperer, cerca di svelare i segreti più oscuri della compagnia con l’aiuto di Sara, un’altra ballerina, che esplorerà i sotterranei della scuola dove l’attenderanno atroci scoperte.

Dialettica della città e spazio dei movimenti – Carmilla on line


Su CarmillaOnLine riflessioni molto ragionate sul rapporto tra Architettura, Urbanismo e Politica, intesa in senso lato come religiosa, dittaturale o anche economica; si parte dal saggio di Henri Lefebvre, Spazio e politica. Il diritto alla città II.

La miseria e il degrado urbani sono alcune delle caratteristiche più appariscenti delle società contemporanee a dieci anni dalla scoppio dell’ultima grande crisi mai realmente superata. Non si tratta però di un processo che possa essere attribuito semplicemente ad un mix di austerità, malagestione pubblica e speculazione edilizia. Queste sono solo le cause più prossime che rimandano ad una dinamica più profonda e cioè al rapporto contraddittorio, dialettico, tra città e capitalismo. Henri Lefebvre sostiene infatti che il capitalismo accresce a dismisura le città determinando una esplosione-implosione delle sue tradizionali caratteristiche. Detto altrimenti, la città è negata e, al tempo stesso, generalizzata a livello della società intera, come si può leggere in Spazio e Politica, un testo che, scritto nel 1974 e ripubblicato quest’anno in Italia, è stato concepito dal suo autore come secondo volume de Il diritto alla città, uscito nel 1967 e ristampato nel 2014, sempre da Ombre Corte.

Quali sono le caratteristiche della città tradizionale secondo Lefevbre? La città è luogo per eccellenza dell’incontro e della simultaneità. Incontro significa confronto tra differenze, anche ideologiche e politiche, reciproca conoscenza dei diversi modi di vivere. La città è luogo del desiderio, dello squilibrio, dell’imprevisto, della dissoluzione dell’ordinario e dei vincoli, fino all’implosione-esplosione della violenza. La città nasce non solo come prodotto ma soprattutto come opera, nel senso di opera d’arte. In essa il valore d’uso prevale sul valore di scambio. Lo spazio non è soltanto organizzato, ma è anche modellato e appropriato dalle esigenze, dall’etica, dall’estetica, dall’ideologia dei gruppi sociali che lo abitano. La monumentalità, ma anche l’uso del tempo, sono aspetti essenziali di questa opera. L’uso principale delle strade, delle piazze e dei monumenti è la festa in cui si consumano improduttivamente ricchezze senza nessun altro vantaggio che il piacere ludico e il prestigio. Per tutti questi motivi non esiste nessuna realtà urbana senza un centro, senza un luogo di concentrazione di tutto ciò che può nascere e prodursi nello spazio. Nei diversi periodi storici la città ha creato differenti centralità: religiose, politiche, commerciali. La vita comunitaria, però, non esclude la lotta fra gruppi, fazioni, classi. Tutt’altro. Proprio perché i più ricchi si sentono minacciati da vicino giustificano le loro fortune donando alle città opere, monumenti e feste. Per questo civiltà fortemente oppressive si rivelano particolarmente creative.
Quando, con il capitalismo, lo sfruttamento direttamente economico sostituisce l’oppressione extraeconomica la creatività scompare. Il filosofo francese sostiene che nella città capitalistica gli elementi della società sono separati nello spazio determinando la dissoluzione dei rapporti sociali e l’affermazione della logica della segregazione. La separazione, però, è al tempo stesso vera e falsa perché lo spazio urbano si costituisce come l’unità del potere nella frammentazione, come un’integrazione disintegrante. Gli spazi del tempo libero sono separati da quelli della produzione cosicché appaiono affrancati dal lavoro, mentre sono ad essi collegati dal consumo organizzato, dominato. L’abitare, che significava partecipare alla vita sociale, fare parte di una comunità, diviene funzione a sé stante con la creazione dei sobborghi. Gli individui e i gruppi sono sradicati dai territori dove vivono, le relazioni di vicinato si attenuano, il quartiere si sgretola. Nulla sostituisce i vecchi simboli, gli stili, i monumenti, i ritmi, gli spazi qualificati e differenziati della città tradizionale. Il centro viene riprodotto sotto forma di centro direzionale, in cui si concentra potere, finanza, conoscenza, informazione, e di centro commerciale, luogo dove il monofunzionale resta la regola, interpolato da estetismi e decorazioni non funzionali, da simulacri di festa e di ludico. Il centro delle città più antiche può sopravvivere solo come luogo di consumo e consumo di luogo a beneficio dei turisti.

L’album bianco dei Twenty Four Hours | PostHuman


Notevole recensione e post di Mario Gazzola, temperato sul connettivismo musicale che ha senso quanto quello letterario. Una fusione di stili e mode, ma tutti coerentemente legati da sperimentazioni su vari livelli, non ultimo il Pop, per protendere in ultima analisi verso il Mainstream, ormai abbondantemente contaminato dalle sperimentazioni.

Leggete a fondo quello che Mario ha scovato tra le note e le pieghe del tempo che passa: Twenty Four Hours, Close – Lamb – White – Walls.

Il gruppo omaggia quindi gli ospiti Tuxedomoon con la cover di What Use (da Half Mute dell’81), eseguita ben due volte: la prima sul cd 1, più elettronica e fedele alle atmosfere originali degli sperimentatori di San Francisco, la seconda in chiusura del cd 2, una versione definita nei credit “acoustic” che in realtà significa più decisamente rock, accelerata e sostenuta da un possente drumming quasi-metal del Lippe Marco. Ma l’omaggio acquista ulteriore valenza simbolica, essendo la prima delle due versioni mixata in medley con l’altra cover dell’album, cioè la floydiana Embryo (inedito del ’69 disponibile su raccolte e sul recente cofanetto The Early Years 1965–1972), a saldare così quel ponte fra i due mondi sonori su cui si diceva il progetto Twenty Four Hours si protende.

Che poi si amplia anche a comprendere l’influenza beatlesiana nell’hard rock melodico di The Tale Of The Holy Frog, spiritoso titolo molto “prog” che invece impiega un riff alla A Ticket To Ride (la cui grinta risulta un po’ diluita dalla raffinata vocalità di Elena, che tira più verso atmosfere liriche alla Sophya Baccini). Mentre quella dei Genesis è palpabile nella lunga suite Supper’s Rotten, “solo” 15’ contro i 23’ della Supper’s Ready di Gabriel & co. (non da The Lamb ma da Foxtrot), cui i Twenty Four Hours scippano anche il riff minimalista di chitarra acustica tra il primo e il secondo movimento, che nella loro moderna suite “marcia” (in cinque movimenti, con lunghe parti strumentali) ci fa l’occhiolino dal synth del leader, il quale si produce anche in qualche espressionismo vocale alla Peter Gabriel dell’epoca.

Othello Aubern – Two-Way Switch | Neural


[Letto su Neural]

Othello Aubern, classe 1987, vanta origini italiane per parte di madre ed elvetiche in linea paterna, seppure adesso viva ad Omsk, città della Russia situata nell’area siberiana sudoccidentale e capoluogo della regione omonima. Sarà forse proprio il cielo di quelle notti stellate, spesso illuminato improvvisamente da meteoriti o da anomali fenomeni atmosferici, ad aver sobillato le giovanili ossessioni dell’autore per lo scambio di segnali Terra-Luna-Terra, malie che contemplavano anche molte fantasie sulle emissioni sonore interconnesse a tali immateriali relazioni. Gli esperimenti scaturiti da questa passione sono stati in seguito accuratamente registrati e raccolti, assemblati allo scopo di dar vita a precise creazioni di figure musicali. Two-Way Switch risulta subito assai intrigante, grazie a un’elettronica sperimentale e personalissima, dalle venature glitch e space, con ritmiche decisamente fratturate e pulsanti, innestate da oblique melodie a far capolino fra i solchi, agitando suggestioni un po’ aliene e paesaggi inabitati. L’uscita, che va a infarcire gli scaffali della serie Colors di Cabanon Records, è comprensiva di cinque differenti tracce, per un totale di oltre ventisei minuti. È quindi a tutti gli effetti un EP, anche se nelle intenzioni di Othello Aubern il respiro è quello d’un opera ben ponderata, densa e intimamente coinvolgente, una specie di manifesto poetico insomma, forte di costruzioni piuttosto lavorate e atmosferiche, astratte e stilizzate, che ci rimandano in “Eme” a Luke Slater e a quella wave di matrice syntethic funk, oppure a più rarefatte e sinuose elaborazioni puntiniste, ad esempio in “Zootrope”. “Samaritan Metric” parte invece con una lunga e quasi silente introduzione, ma pure sposa poi rotte metriche così come “Triple Double”, che ci riserva tuttavia un costrutto più aspro e sottilmente vibrante, unito ad armonie appena accennate e tinte di trasalimenti cinematici. Si chiude con “Buffer Zone” e l’organizzazione dei suoni si fa più orchestrale, l’andamento diradato ma complice, suadente, ispirato a una bellezza diafana e algida al tempo stesso, dalla quale non è possibile prendere le distanze. Othello Aubern alla sua prima prova coglie nel segno e l’augurio è che possa – anche allontanandosi da fascinazioni così forti per la sua formazione – presto tornare a raccontarci di nuove futuribili avventure.

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