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Archivio per marzo 30, 2019

Il tuo termine


Mi racconti delle noie e delle deliranti aspettative del tuo domani, delle immagini del tuo passato che tornano a tormentarti in continue esistenze parallele che sembrano il presente… che sembrano senza fine ma il loro termine coincide col tuo.

Cultura Alta e Cultra Bassa: Jekyll e Hyde e le radici della cultura di massa


Su Fantascienza.com, nell’ambito Delos205, un articolo di Carmine Treanni che analizza il capolavoro di Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde. L’analisi avviene su vari argomenti, SF, Fantastico, Giallo, sociale. Un estratto della disquisizione:

Una fetta consistente della cultura di massa è costituita dai generi narrativi cosiddetti paraletterari: il fantastico, il rosa, il western, la fantascienza, l’horror, il giallo. Ad una prima lettura il racconto di Stevenson è generalmente associato al genere fantastico, o all’horror, grazie anche alle successive versioni cinematografiche. Ma una lettura più attenta, ci mostra come Lo Strano caso del Dottor Jekyll e Mr. Hyde affondi le sue radici in più generi narrativi, che costituiscono i contenuti tipici della Cultura di Massa.

Il racconto dello scrittore inglese appartiene al genere fantastico proprio perché l’elemento irrazionale (il tentativo del dottor Jekyll di scindere nell’animo umano il bene dal male) si alterna al tentativo di una spiegazione razionale. Sappiamo, infatti, che è attraverso una pozione chimica che il dottor Jekyll riesce a mutare nel perfido Hyde. Una spiegazione razionale, quasi scientifica. Ma tutto è rimesso in discussione nel momento in cui Jekyll scopre che non ha più bisogno della pozione per trasformarsi in Hyde.

A nostro avviso, però, il racconto stevensoniano contiene i germi di almeno altri due generi classici della cultura di massa, ovvero il giallo e la fantascienza. Tutta la storia è sì incentrata sulla figura di Jekyll e della sua controparte Hyde, ma ci viene quasi interamente mostrata attraverso gli occhi dell’avvocato Utterson, amico del dottor Jekyll. Fin dalle primissime pagine, Utterson sembra essere un tipico investigatore, caro a tanta letteratura crime. Nel primo episodio del racconto, intitolato “Storia della porta”, Utterson induce suo cugino Enfield, durante una loro rituale passeggiata, a farsi raccontare una strana storia in cui è rimasto coinvolto. Un giorno Enfield, tornando a casa alle tre del mattino, si trovò casualmente davanti ad un’orribile scena: un uomo e una bambina si scontrarono all’angolo di una strada e “l’uomo calpestò tranquillamente il corpo della bambina e la lasciò urlante sul marciapiede”. Enfield rincorse l’uomo e lo costrinse a ritornare indietro. Intanto, le urla della bambina avevano richiamato i suoi genitori e altre persone. Enfield riuscì a far risarcire la bambina con cento sterline. A questo punto Utterson chiede al cugino il nome dell’uomo che ha calpestato la bambina e quando Enfield gli confida che è Hyde, Utterson ne rimane colpito e decide di investigare su quell’uomo. Il nome Hyde, infatti, non gli è sconosciuto, in quanto appare nel testamento del suo amico dottor Jekyll: nel caso che questi scompaia i suoi beni devono essere lasciati al signor Hyde. Un testamento che sconvolge e inquieta l’avvocato Utterson che, novello Sherlock Holmes, vuole scoprire chi è veramente il signor Hyde. Così, nella successiva parte del racconto intitolata “Alla ricerca del signor Hyde”, Utterson prima si reca dal dottor Lanyon, amico suo e di Jekyll, per chiedere se conosce il signor Hyde, poi effettua dei veri e propri appostamenti nei pressi della casa in cui si presume abiti Hyde, per vederlo di persona. Siamo insomma davanti ad un vero e proprio detective che usa le armi della logica e della deduzione per venire a capo di un mistero.

Jekyll è insoddisfatto della propria vita, è “alienato” e cerca una via di fuga. Stevenson, in questo racconto, anticipa le teorie sull’inconscio di Freud, ma anche il processo di individualizzazione tipico della società capitalistica. C’è poi il laboratorio, il luogo deputato dove si pratica l’arte della scienza: un simbolo classico della fantascienza. Ma rappresenta, soprattutto, la scienza in quanto disciplina apportatrice di una nuova visione del mondo, della realtà, dell’uomo stesso. Il racconto in più punti rispecchia questa generale fiducia nella scienza, o meglio della sua naturale tendenza ad andare oltre i suoi stessi limiti, a varcare i confini che sono continuamente labili. Sarà lo stesso Jekyll che, dinnanzi al suo amico dottor Lanyon, si trasformerà da Hyde in Jekyll. Lo stesso amico che, anni prima, lo aveva deriso in merito alle sue teorie sulla possibile presenza in ognuno di noi di due anime, una dedita al bene e l’altra al male. È chiaro che Lanyon rappresenta la scienza, ma anche un modo di concepire il mondo, la società che rispecchia l’epoca vittoriana. Non a caso, lo scrittore inglese scrive il racconto con l’intento di sferrare un duro attacco alla repressiva e puritana letteratura inglese vittoriana.

L’appartenenza del racconto, dello scrittore inglese, a più generi narrativi è già di per sé motivo sufficiente per considerarlo a pieno titolo appartenente alla cultura di massa.

Sempre più stretti | Fantascienza.com


Su Fantascienza.com, nell’ambito di Delos205, un articolo di Roberto Paura che traccia gli scenari plausibile del futuro da sovrappopolazione – o forse no – analizzandone gli eventuali flussi migratori e le urbanizzazioni selvagge. Un estratto:

Una cosa è certa: la popolazione all’interno dei contesti urbani non calerà, ma è anzi destinata ad aumentare sempre più. Entro il 2050 il 65% della popolazione mondiale sarà concentrata nelle aree urbane. Estendere a dismisura i confini delle nostre metropoli non può essere una soluzione, perché il verde naturale che viene fagocitato dal cemento e dall’asfalto non trova immediata sostituzione nel verde urbano, e perché in tal modo si sottrae spazio alla produzione di generi alimentari. Una prima soluzione, già adottata da oltre un secolo, è quella di sviluppare le città in altezza. Al momento il Burj Khalifa di Dubai detiene il record di altezza (828 metri), ma si tratta di un primato destinato a essere presto superato. I nuovi materiali superresistenti, come i tubi di carbonio o il grafene, potranno permettere la costruzione di edifici alti oltre un chilometro, e anche di più. Ad altezze elevate il vento è più forte, quindi pale eoliche sistemate sul tetto potranno produrre energia sufficiente a coprire i fabbisogni di ciascun grattacielo, in sinergia con i pannelli fotovoltaici. Vere e proprie città, insomma, autonome non soltanto dal punto di vista energetico. In cima o ai piano interrati potranno ospitare enormi centri commerciali dotati di tutto: un modello simile a quello del Marina Bay Sands a Singapore, tre torri di 150 metri di altezza unite da una tettoia che ospita parchi e strutture ricettive con una vista davvero mozzafiato.

Un’altra soluzione sarà quella di scendere in profondità. Non necessariamente a causa di gravi danni ambientali o catastrofi inevitabili, come la caduta di un meteorite. Ma semplicemente per sfruttare i vantaggi che può conferire l’abitabilità del sottosuolo: lì non importa che tempo faccia in superficie, per cui le coltivazioni – rigorosamente in serra o in colture idroponiche – non sono soggette alle condizioni meteo, e soprattutto non ci sono sprechi in termini di riscaldamento. Ad appena due metri di profondità, lontani dalla luce solare, la temperatura resta stabile sui 10°, perciò basta regolare il termostato per far sì che il termometro non vada mai sotto o sopra una temperatura stabilita, per esempio 25°, che secondo alcuni studi è l’ideale in un ambiente privo di umidità.

Se comunque non volessimo andare ad abitare sottoterra, potremmo perlomeno relegare al di sotto della superficie una delle cose meno piacevoli in assoluto delle nostre metropoli: il traffico. In Cina ci stanno già lavorando: il progetto prevede di scavare a Pechino 26 enormi tunnel all’interno dei quali far scorrere il traffico delle tangenziali e quello all’interno della cerchia più interna della città, da rendere completamente pedonale. In questo modo diventerebbe possibile ripulire l’aria della capitale cinese, il cui cielo somiglia sempre più “al colore di un televisore sintonizzato su un canale morto”, per usare una celebre espressione di un romanzo molto pessimista sul futuro delle nostre metropoli, Neuromanteiv. Nel sottosuolo di Pechino, il governo cinese intende concentrare anche uffici e centri commerciali, come pian piano sta già facendo Tokyo, la cui downtown è tra le più sviluppate al mondov.

Resta poi il mare, che copre i due terzi della Terra. LilyPad è il progetto dell’architetto belga Vincent Callebaut per ospitare su una città “anfibia” ben 50.000 abitantivi. Un po’ sopra e un po’ sotto la superficie, LilyPad è una città in grado di resistere all’innalzamento dei livello dei mari e di produrre energia sfruttando la forza mareale, il vento, il sole e non solo. Le pareti dell’isola sono composte da fibre di poliestere e biossido di titanio, capace di reagire ai raggi ultravioletti in modo da assorbire l’inquinamento atmosferico. LilyPad metterebbe in campo tutti gli ultimi ritrovati nel settore della biomimetica, che punta a creare tecnologie simili agli espedienti usati in natura per l’autoregolazione dei sistemi viventi. E in prospettiva si potrebbe pensare di vivere anche sott’acqua al livello dei fondali marini. Lì, enormi città protette da cupole trasparenti ma costruite con materiali solidissimi, capaci di resistere alla pressione enorme delle masse d’acqua sovrastanti, potrebbero svilupparsi all’occorrenza per centinaia di chilometri, collegando le varie cupole attraverso tunnel all’interno dei quali scorre il traffico cittadino. Forse non sarebbe possibile allevarci animali, ma niente impedirebbe di avere una ricca dieta a base di pesce e di altri alimenti coltivati con le moderne tecniche che possono fare a meno del terreno in superficie per crescere.

Affinità ed espressioni


Simbologie sottese sulle preferenze dei tuoi ricordi mostrano affinità alle semplificazioni dell’incarnazione, usando la distanza che esprimi in materia.

Pink Floyd – Set The Controls For The Heart Of The Sun


La versione studio, forse la più bella, sicuramente quella che mi coinvolge più in questa fase della mia esistenza. Gli echi lontani dei suoni divengono oscuri ed enigmatici, evocano l’abisso pericolosamente vicino all’annullamento. Tra le altre cose, è l’unico pezzo suonato da tutti e cinque i Floyd.

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